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Se il paradiso fiscale è l’Europa
La mancata armonizzazione fiscale dell’Unione europea è una delle radici della crisi. La possibilità per le imprese di far apparire i profitti nei paesi che li tassano meno ha alimentato l’evasione e l’elusione fiscale e la crescita della finanza speculativa. La Ue dovrebbe iniziare a chiudere i paradisi fiscali che si trovano in casa propria
Diversi articoli nel dibattito su “La rotta d’Europa” evidenziano il “peccato originale” di un'Unione Europea fondata su una moneta unica e un mercato unico in assenza di un governo democratico e rappresentativo e di una reale integrazione normativa, politica e fiscale. Di fronte alla crisi dei conti pubblici e agli attacchi speculativi che mettono a rischio la tenuta di diversi paesi e della stessa Ue, l'assenza di una politica fiscale condivisa a livello di Ue è di fondamentale importanza.
Ammettiamo per un momento che il punto centrale dell'attuale crisi sia la reale situazione dei conti pubblici di alcuni paesi e non le manovre speculative che tra credit default swap e vendite allo scoperto giocano con i titoli di stato come fossero fiches da casinò. Dimentichiamoci anche che gli squilibri attuali sono dovuti alla necessità di salvare il sistema finanziario che aveva provocato la crisi, e in pratica al fatto che l'eccesso di debiti è stato scaricato dal sistema finanziario sugli stati e da questo sui cittadini.
Trascurando questi “dettagli”, e dando per assodato che sia necessario rimettere in sesto i conti pubblici, in maniera piuttosto rozza si può affermare che per ridurre deficit e debito esistono due strade maestre: diminuire le spese o aumentare le entrate. La spinta neoliberista che ancora oggi anima le istituzioni internazionali (a partire dall'Fmi) e gran parte delle istituzioni europee ha portato a considerare principalmente il versante delle spese. La soluzione alla crisi sono allora i piani di austerità, i tagli alla spesa pubblica e via discorrendo.
Molto è stato scritto sugli effetti depressivi che hanno tali decisioni. Se anche si volesse perseguire l'idea di tagliare le spese, da anni la campagna Sbilanciamoci! mostra come scelte diverse siano possibili per l'Italia. Non sacrificando il welfare, le spese sociali e le pensioni, non chiedendo ancora una volta ai soliti noti di pagare per una crisi nella quale non hanno alcuna responsabilità. Il nostro governo sta tenendo in piedi uno dei programmi militari più costosi della storia: 15 miliardi di euro per acquistare 131 cacciabombardieri (www.disarmo.org). Più o meno la stessa cifra dovrebbe costare l'alta velocità in Val Susa, un progetto con impatti potenzialmente devastanti e contro la volontà di un'intera comunità.
Se scelte differenti sono possibili dal lato delle spese, ancora di più si potrebbe fare sul versante delle entrate. L'attuale sistema fiscale, in Italia come nella gran parte dei paesi europei, è iniquo e sbilanciato a favore delle classi più ricche. Basti pensare alla tassazione molto bassa o nulla dei redditi finanziari rispetto alle tasse applicate su lavoro e consumi. È emblematica in questo senso la recente decisione del governo italiano di aumentare l'Iva mentre l'Europa si muove verso una tassa sulle transazioni finanziarie (www.zerozerocinque.it), o ancora il pregiudizio ideologico che ferma sul nascere il dibattito sulla patrimoniale. Queste scelte portano a un peggioramento della distribuzione del reddito e spingono i capitali verso una maggiore finanziarizzazione, essendo fiscalmente più conveniente lanciarsi in attività puramente speculative rispetto agli investimenti nell'economia reale.
Non si tratta unicamente di giustizia fiscale o sociale. Il progressivo spostamento delle ricchezze dagli stipendi alle rendite finanziarie e il conseguente impoverimento dei lavoratori è alla base dell'eccesso di indebitamento e in ultima analisi rappresenta uno dei fattori chiave dello scoppio della crisi. Una diversa politica fiscale mirata alla redistribuzione del reddito dovrebbe quindi essere il primo tassello su cui costruire una risposta duratura alla crisi.
Riguardo le entrate, tanto a livello di singoli paesi quanto a scala europea, una questione fondamentale è legata alla gigantesca evasione ed elusione fiscale. Se i problemi della Grecia sono numerosi e complessi, partendo dalle operazioni in derivati utilizzate per truccare i conti pubblici e mascherare il reale andamento del debito, la crisi nel paese ellenico è almeno in parte legata alla fuga di capitali realizzata dalle imprese e dai più ricchi.
In Italia l'evasione fiscale è stimata in 159 miliardi di euro l'anno. Sommando a questa cifra il “fatturato” della corruzione, dell'economia sommersa, delle mafie, si stima che complessivamente una somma prossima ai 500 miliardi di euro l'anno sfugga al fisco italiano. Con una tassazione in linea con le imposte su profitti e lavoro, ovvero del 30%, di queste risorse, in linea teorica in una dozzina d'anni l'Italia potrebbe azzerare il proprio debito pubblico.
La situazione è, se possibile, ancora più paradossale guardando all'Europa del mercato e della moneta unici, dove ogni paese si tiene ben stretta la propria autonomia in ambito fiscale. Una situazione che ha portato le nazioni europee a una concorrenza tra di loro e a una vera e propria “corsa verso il basso” in materia di tasse per attrarre imprese e capitali. Il caso dell'Irlanda è emblematico: il paese ha puntato la propria crescita su una deregolamentazione selvaggia dei mercati finanziari e su un’imposizione sui redditi delle imprese di appena il 12,5%, la più bassa dell'area Ocse.
Tra il 2000 e il 2006 nel centro finanziario di Dublino – gli ex dock portuali, pomposamente trasformati nell'International Financial Services Centre – i capitali attratti sono aumentati di quattro volte, toccando i 1.600 miliardi di euro. L'Irlanda, paese membro della Ue, è un candidato ideale per il transfer pricing delle multinazionali, che spostano i profitti nei bilanci delle loro filiali irlandesi per pagare il 12,5% di imposte, invece del 30% o più della Germania, dell'Italia o della Francia. In molti casi la ricchezza è del tutto inesistente. Poste contabili fanno salire bilanci e Pil, ma non portano nessuna ricchezza reale al paese. Al primo segnale di difficoltà, la stessa mancanza di regole e controlli ha consentito a tali capitali di uscire dal paese, lasciandolo sull'orlo del baratro.
Moltissime multinazionali e alcune delle maggiori imprese italiane hanno aperto una loro compagnia di assicurazione a Dublino. In questo modo la società madre in Italia può stipulare delle polizze presso la compagnia irlandese. In assenza di richieste di rimborso, a fine anno la filiale in Italia avrà dei costi in più a bilancio e la filiale a Dublino delle entrate pari all'importo delle polizze stipulate. Questo significa meno profitti e quindi un carico fiscale minore per la casa madre, spostando il pagamento di imposte (molto più basse) in terra irlandese.
E l'Irlanda non è certamente un caso isolato. Secondo uno studio recente (Financieele Dagblad, 12 settembre 2011) l'80% delle 100 più grandi multinazionali ha almeno una filiale o un trust “di comodo” in Olanda, in modo da sfruttare i vantaggi fiscali garantiti da questo paese. Le grandi imprese italiane non sono da meno. È sufficiente scorrere i bilanci consolidati delle maggiori imprese italiane quotate alla Borsa valori per trovare un interminabile elenco di filiali e controllate in Irlanda, Olanda e altrove. Nella stragrande maggioranza dei casi l'unico motivo per stabilire in questi paesi delle holding o delle controllate è quello di diminuire il carico fiscale o di sfruttare le legislazioni locali per realizzare operazioni che non sarebbero possibili in Italia. Un territorio che consente di eludere o evadere una legge del proprio paese rappresenta la definizione stessa di paradiso fiscale, nella sua accezione più ampia.
Le isole di Jersey e Guernsey, territori britannici situati vicino alla costa francese, offrono condizioni fiscali decisamente favorevoli per banche, imprese e capitali. Alcuni anni fa è emerso come Jersey risultasse essere uno dei maggiori esportatori di banane verso la Ue (www.guardian.co.uk). Ovviamente nemmeno un frutto proviene dalla minuscola isola del Canale, ma le grandi multinazionali dell'agrobusiness possono fare transitare, unicamente sulla carta e nei bilanci, i loro commerci da Jersey e beneficiare così di una tassazione bassissima o nulla. Il tutto sfruttando territori sotto il controllo della corona britannica ed evitando il pagamento delle imposte nei diversi paesi europei in cui operano.
La stessa “corsa verso il basso” riguarda la regolamentazione e i controlli in materia finanziaria. Secondo un articolo del Financial Times (7 aprile 2008) le autorità irlandesi promettevano a qualsiasi fondo di investimento che presentasse il proprio regolamento entro le tre di pomeriggio di dare l'autorizzazione a operare il successivo giorno lavorativo. Considerato che i regolamenti sono solitamente composti di centinaia di pagine di informazioni tecniche, questo equivaleva a segnalare ai mercati che il controllo sarebbe stato come minimo decisamente superficiale.
Se questa è la situazione in Europa, possiamo immaginare quale sia il livello di competizione tra giurisdizioni su scala internazionale, dopo trent'anni di dogma economico che afferma la necessità di lasciare liberi i mercati e i capitali e di diminuire regole e controlli. Se in molti ambiti l'Europa prova a sostenere politiche ambientali, sociali e di welfare, sui paradisi fiscali la situazione europea è particolarmente arretrata.
La rete internazionale Tax Justice Network ha proposto il Financial Secrecy Index, un indice che permette di stilare una lista delle giurisdizioni meno trasparenti del mondo. In testa a questa poco lusinghiera classifica troviamo lo stato del Delaware negli Usa, seguito da Lussemburgo e Svizzera. Nelle prime dieci posizioni le uniche isole tropicali sono le Cayman e le Bermuda. Notiamo che entrambe sono “British Overseas Territories”, legate a doppio filo alla Gran Bretagna.
La “virtuosa” Europa, sempre in prima linea per denunciare l'isoletta tropicale di turno, che costituisce il paradiso fiscale ideale nell'immaginario collettivo, risulta molto più restia all'idea di cominciare a guardarsi in casa.
I paradisi fiscali sono un problema delle potenze economiche, ed europeo in particolare. Come primo passo è necessario da subito fare pulizia in casa nostra. Quante imprese nostrane hanno filiali in qualche paradiso fiscale? Perché gli organi di controllo non vietano alle nostre società di realizzare operazioni con tali territori? Perché governi e banche centrali non impediscono alle nostre banche di aprire filiali offshore?
I paradisi fiscali sono interamente funzionali a un consolidato sistema di potere politico, economico e finanziario concentrato nelle nazioni più ricche. Da qui bisogna partire per contrastarli in maniera efficace. Un approccio che il G20 e la Ue fino a oggi non hanno saputo, o non hanno voluto, seguire.
Finché la comunità internazionale – e l'opinione pubblica – continuerà a identificare i paradisi fiscali con piccole isole tropicali costellate di palme, il fallimento è pressoché assicurato. I paradisi fiscali rispondono a ben precise richieste di un gigantesco “mercato” che va, senza soluzione di continuità, dall'elusione fiscale alla criminalità organizzata. Per contrastarli in maniera seria occorre andare al cuore del problema. Chi trae vantaggio dalla loro esistenza? Quali sono i maggiori centri finanziari ed economici del Pianeta? Quali sono le nazioni che fissano le regole e i controlli su scala internazionale?
È questa la strada che dovrebbe perseguire l'Europa, se davvero volesse uscire dalla crisi non compiacendo, ma controllando i mercati finanziari. Non sacrificando sull'altare della finanza il modello sociale costruito con decenni di lotte, ma al contrario rilanciandolo, e fondando su una diversa distribuzione del reddito e su politiche fiscali meno inique l'unica risposta possibile per un’uscita dall'attuale crisi finanziaria, economica e sociale.
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