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Germania: un’isola felice che sente l’assedio
La storia del successo tedesco è raccontata dagli indicatori economici visibili. Ma all’interno ci sono segni di inquietudine, in un paese senza una visione strategica di se stesso e dell’Europa. La crisi finanziaria dell’eurozona riflette questo vuoto, che va riempito da una nuova politica europea
La situazione tedesca dei primi giorni dell’autunno 2011 appare stranamente ambigua, come si addice ai singolari tempi economici e politici che il paese – e l’Europa intera – sta attraversando.
Da una parte, prosperità e crescita, una democrazia che funziona e una società pacifica, nella quale i problemi sono discussi e condivisi da una stampa libera; dall’altra un paesaggio di preoccupazione e dubbi sui problemi finanziari tedeschi e dell’eurozona, sulla direzione dell’Europa e sulla capacità dell’attuale leadership (soprattutto del cancelliere Angela Merkel) di affrontare efficacemente tali problemi.
Se è difficile riconciliare queste immagini contrastanti, è difficile anche sceglierne una, poiché entrambe sono una descrizione autentica della Germania d’oggi. Per capire la reale situazione tedesca e – data la sua posizione internazionale – quella dell’Unione europea e dell’Eurozona, vediamo meglio quegli apparenti paradossi.
L’isola felice
Dall’esterno sembrerebbe che la Germania attraversi un periodo di prosperità. Nel 2011 è stato addirittura necessario ridurre l’impressionante tasso di crescita economica – che è rimasto elevato perfino nel mezzo della crisi finanziaria e del debito europeo – perché (come asserito dal ministro delle finanze Wolfgang Schäuble) le aspettative erano cresciute troppo.
La Cina continua a essere una fonte inesauribile di domanda per la tecnologia tedesca; la Germania rappresenta più del 40% delle esportazioni dell’Unione europea in Cina. Imprese come la Siemens o come il gruppo di software aziendale Sap hanno fatto registrare indici di crescita a due cifre. Alcune aziende della Germania meridionale cercano disperatamente personale qualificato.
E in effetti la percentuale di disoccupati è andata regolarmente diminuendo, altra statistica impressionante nel contesto delle generali avversità finanziarie. Anche in anni precedenti, quando la disoccupazione era una macchia sull’immagine della Germania, la disoccupazione giovanile non ha mai superato il 10%, ben lontani dai dati drammatici di oltre il 30% di Spagna o Grecia. Tutto questo ha portato l’autorevole rivista Foreign Affairs a pubblicare un articolo su "cosa ha azzeccato la Germania" (si veda Stephen Rattner, "The Secrets of Germany's Success", Foreign Affairs, July-August 2011).
Anche nella sfera pubblica, la Germania può in una certa misura sostenere di difendere gli standard che si vanno indebolendo altrove. La sua gamma di quotidiani indipendenti che producono giornalismo di qualità rappresenta un importante contrappeso allo spirito del tempo populista e riduzionista – e la natura dei media del paese può essere un fattore che contribuisce a spiegare la capacità della Germania di contenere il populismo (o almeno l’affermazione di un partito populista tipo quelli affermatisi in Francia, Olanda, Europa centrale e Scandinavia). Esperienze come quella dell’Ungheria (dove la libertà di stampa è minacciata), dell’Italia (dove l’impero di Berlusconi è dominante) e della Gran Bretagna (dove l’oligopolio è la norma) fanno spiccare la speciale posizione tedesca. Vista dal mare di problemi europei – deficit colossali, disoccupazione alle stelle, fratture sociali e risorgere del populismo – la Germania può ancora apparire come un’isola felice di sicurezza e prosperità.
Diversi osservatori che condividono questo quadro segnalano il ruolo chiave per il successo del paese svolto dal tessuto sociale e politico che sostiene l’industria tedesca, così diverso da quello dei paesi vicini. La spina dorsale della potenza economica tedesca sta nel Mittelstand (aziende di piccole e medie dimensioni), soprattutto nel settore ad alta tecnologia, dove una moltitudine di piccole imprese vende sui mercati globali prodotti specializzati, la cui competitività non dipende dal prezzo ma dalla qualità e dall’innovazione.
Queste realtà rappresentano un settore industriale ancora robusto (a differenza di economie, come quella inglese, dominate dalla finanza); attingono a un sistema educativo che per molto tempo ha potuto produrre un flusso costante di operai e impiegati qualificati, così come di persone preparate ad occupare professioni di élite; sono radicate in un’economia fortemente decentralizzata dove le competenze sono diffuse e l’industria fa parte del tessuto sociale di tante comunità locali.
Da questo punto di vista esiste un nesso forte tra la struttura politica federale e istituzionale tedesca e il suo federalismo economico. Vale la pena ribadire che proprio lo smembramento del paese dopo il 1945, al fine di prevenire eccessive concentrazioni di potere, ha gettato le basi del successo dei successivi decenni (compresa la grande prova della riunificazione dopo il 1989).
La connessione europea
Eppure è proprio qui che comincia a profilarsi il ritratto alternativo di un paese inquieto, perché all’interno la Germania si sente tutt’altro che un’isola felice – e perfino i suoi riconosciuti punti forti vengono percepiti come fragili e sotto pressione.
Un’importante parte della preoccupazione sta nell’aumento senza precedenti della disuguaglianza dei redditi e nella paura, ad esso associata e diffusa tra le classi medie, che un’economia più liberalizzata e “flessibile” invece che vantaggiosa possa risultare per loro dannosa. Un vivace dibattito sull’impatto di una società disuguale dove le esperienze di vita dei super-ricchi sono sempre più remote è stato lanciato da Frank Schirrmacher – il direttore del Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz) – che ha ripreso la riflessione inquietante “e se la sinistra avesse ragione?” di Charles Moore, opinionista inglese, come lui arciconservatore, sul Daily Telegraph. La discussione ha dominato per settimane i supplementi culturali dei giornali tedeschi.
Il fatto che gli intellettuali tedeschi vedano nel loro paese dei paralleli con l’esperienza sociale inglese è già abbastanza significativo. Un tema particolare è quello della perdita della coesione sociale – una realtà che si tende ad apprezzare solo quando si sta per perdere – che molti temono stia verificandosi oggi in Germania. E poi i dati sul numero crescente di giovani esclusi dall’educazione superiore, gli alti livelli di analfabetismo, e un acuirsi della disgregazione sociale delle fasce più povere. Questi fenomeni hanno un ovvio costo economico, per riparare una società sempre più carente. E c’è anche un prezzo politico, perché tra le fasce più svantaggiate sta scomparendo ogni interesse per la politica, insieme alla convinzione che la politica possa migliorare la vita.
Erwin Teufel, ex primo ministro del Baden-Württemberg, sostiene che la Cdu – partner dominante della coalizione governativa diretta da Angela Merkel – inseguendo un’ideologia favorevole al mercato, abbia tradito e deluso il Mittelstand tedesca e perso il favore popolare. La sconfitta elettorale del partito del cancelliere nel land di Mecleburgo-Pomerania Anteriore il 4 settembre 2011, ultima di una serie di battute d’arresto, rafforza almeno il secondo punto del discorso di Teufel.
Il discorso sulle condizioni interne della Germania assume una dimensione europea. Perché l’alleanza di decenni con il Mittelstand (e la solida classe media cui offriva competenze e occupazione) era la base politica dei partiti della destra moderata tedesca (la Csu in Baviera, oltre alla Cdu); i partiti che hanno governato il paese per la maggior parte dei decenni seguiti al 1949, e che hanno sostenuto “il discorso europeo” in Germania, convincendo gli elettori che la Germania era al centro dell’integrazione europea, e che da quel processo avrebbero tratto vantaggio.
Quel “discorso europeo” è sempre più difficile da sostenere in un momento in cui l’Unione europea è divisa e incerta sulla direzione strategica da prendere, e in cui (secondo l’istituto demoscopico Allensbach) i tedeschi – al 70 per cento – dichiarano che l’Europa non è più il loro futuro.
In questa prospettiva, la storia del successo tedesco raccontata sopra è illusoria. A un livello più profondo la Germania non ha una vera narrazione su di sé, figuriamoci poi sull’Europa – e perciò nemmeno sui loro rapporti. Di conseguenza non può svolgere il ruolo che un tempo ci si aspettava svolgesse: costruire una visione audace dell’Europa e guidare (o almeno co-guidare) l’Unione europea.
Le critiche all’incapacità del governo di Berlino di affrontare i problemi dell’Europa avanzate da due pesi massimi della politica, l’ex cancelliere Helmut Kohl (un tempo sostenitore di Angela Merkel) e l’ex primo ministro Joschka Fischer mostrano la gravità della situazione presente.
Una questione secondaria
La deriva europea della Germania ha molte dimensioni. Il dibattito interno sulla crisi della moneta unica – soprattutto l’accesa discussione se emettere e sostenere gli “eurobond” rappresenti o no una soluzione – è dei più rivelatori. Perché non rivela tanto un impegno genuino per l’Europa quanto un calcolo politico locale: davvero questo significherebbe per i tedeschi la possibilità di farla finita con l’impegno senza fine a ripianare i debiti degli avidi paesi dell’Europa meridionale, salvando in tal modo se stessi e l’economia europea?
La sentenza della corte costituzionale tedesca a Karlsruhe il 7 settembre 2011, secondo cui il contributo della Germania al pacchetto di salvataggio europeo è costituzionale presenta una duplice implicazione: che per il Bundestag il sistema europeo è legittimato a votare per il cosiddetto fondo europeo salva-stati (Efsf), ma chiaramente non fino al punto di imboccare la strada della sottoscrizione sovranazionale dei debiti pubblici (e gli eurobond altro non sono). Questo richiederebbe decisamente un cambiamento del trattato sia a livello europeo sia a livello di costituzione tedesca.
La (legittima) angoscia tedesca in questa discussione nasce da un interrogativo: quanto potrebbe resistere una Germania che imboccasse la strada degli eurobond se altri stati dell’eurozona continuassero ad affondare? In tal senso la Germania non si chiede se sostenere il debito pubblico a livello sovranazionale (con tutte le possibili conseguenze politiche) possa funzionare per l’Europa, ma se il paese sia abbastanza forte da tendere all’Europa la cintura di sicurezza degli eurobond (o se invece non rischi di affondare insieme agli altri).
Un anno fa, scrissi un articolo per openDemocracy in cui esaminavo il dilemma europeo della Germania rispetto al desiderio del paese di liberarsi dall’Europa e imboccare la strada “globale” (si veda “Germany goes global: farewell, Europe”, 14 settembre 2010). Ora, dopo una serie di pacchetti di emergenza e di salvataggi che non sono riusciti a domare le tempeste finanziarie la questione eurobond è balzata in primo piano nel dibattito tedesco-europeo (anche se l’opzione è ancora esclusa politicamente dalla signora Merkel). La mancanza di una visione alternativa a questo punto suggerisce che una Germania indebolita possa di fatto non essere in grado né di salvare l’euro e nemmeno di andare da sola per la propria strada.
Un paese europeo di primo piano che non ha una visione sociale né un discorso nazionale non può avere né l’una né l’altro per l’Europa. Questo aiuta a capire perché Angela Merkel sia riluttante a fare un qualsiasi passo decisivo sugli eurobond: perché comporterebbe inevitabilmente un’asserzione ferma sulla posizione della Germania in merito a una maggiore integrazione economica e politica in Europa (un processo di cui quello degli eurobond sarebbe uno – ma uno solo! – degli elementi). La paralisi della Germania su questi temi cruciali è una tragedia tedesca come anche europea.
Rispetto a questo, la discussione tedesca sull’eurozona (e adesso quella forsennata sugli eurobond) sembra secondaria rispetto alla più profonda questione dello status della Germania come “isola felice” in mezzo all’Europa. È possibile che i suoi problemi crescenti (come per esempio quello dei giovani esclusi) creino una dinamica nella quale il tessuto sociale e la salute democratica della Germania diventino vulnerabili come quelli dei suoi vicini?
Il punto critico
L’ideale politico ispiratore dell’euro era che una valuta europea comune potesse servire come strumento forte per navigare nelle acque turbinose della tempesta finanziaria internazionale e agire in quel contesto come elemento di stabilità (ho lavorato per Jacques Delors e posso confermare che questo era il suo intento!).
Se non ha mai realizzato il suo potenziale, questo è in parte perché la sinistra europea (a cominciare da Tony Blair e dalla sua “terza via”, continuando con l’“agenda 2010” di Gerhard Schröder) ha fatto dell’Unione economica e monetaria (Uem) e dello stesso euro una preda dei rapaci mercati finanziari, invece di usarlo come strumento di una più forte democrazia europea basata su una concezione dello stato anche “sociale”, oltre che di “mercato”.
Questa occasione mancata significa che il concetto originale si è incagliato in questioni complesse per quanto importanti (come per esempio il folle spostamento di redditi dal lavoro al capitale e alla rendita, o i flussi istituzionali che trascuravano l’evasione fiscale endemica e la corruzione in Grecia e altri aspetti moralmente pericolosi).
Tale evoluzione, acuita dalla crisi finanziaria del 2008-11, ha fatto dell’euro il capro espiatorio dell’opinione pubblica tedesca. Oggi il capro espiatorio potrebbe essere effettivamente sacrificato, anche perché la cosa sembra molto più facile da fare, che non correggere o contenere gli onnipotenti mercati finanziari attraverso una più stretta regolamentazione.
L’unico modo di prevenire tutto ciò è tornare al primato della politica che tenga a bada la logica estrema del mercato e il facile populismo. Questo farebbe dell’euro lo strumento europeo che da sempre doveva essere e porterebbe al centro dell’agenda la questione di che cosa voglia davvero la Germania dall’Europa e da se stessa. Il punto critico per il futuro dell’Europa e dell’eurozona continua ad essere la Germania, anche a dispetto di se stessa.
Traduzione di Maria Baiocchi
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