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Il gigante brasiliano col piombo nelle ali
Tra i paesi del BRIC, il Brasile è quello che ha più urgenza di fare scelte di struttura. Perché la politica economica non si può affidare solo alle esportazioni
La divisione internazionale del lavoro e della relativa specializzazione produttiva è soggetta a continui riequilibri. In particolare la recente pubblicistica assegna ai BRIC un ruolo non meno importante dei paesi industrializzati. Infatti, i BRIC hanno eroso quote importanti del commercio internazionale dei paesi industrializzati, non solo per i cosiddetti beni di consumo ma anche in beni e servizi a maggiore contenuto tecnologico. Per esempio la Cina ha superato l’Italia nel commercio internazionale di macchine utensili.
Se nel 2001 il gruppo Goldman Sachs ha iniziato ad utilizzare il termine BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) per indicare un gruppo di potenze in ascesa, destinate a modificare completamente entro il 2050 le attuali gerarchie economiche tra stati, è altrettanto vero che le caratteristiche intrinseche dei paesi BRIC condizionano le prospettive dei singoli stati. Se i BRIC sono uniti nella prospettiva di una forte crescita economica, i presupposti di questa crescita non sono omogenei. Il Brasile, tra i paesi BRIC, è lo stato che più di altri è chiamato a fare delle scelte di struttura se non vuole affrancarsi o marginalizzarsi dalla nuova divisione internazionale del lavoro e dalla specializzazione produttiva conseguente. Da un lato deve consolidare il sistema accumulativo manifatturiero in termini di specializzazione, dall’altro deve implementare una politica dei redditi adeguata al fine di “programmare” lo sviluppo. Sostanzialmente le esportazioni non possono diventare la politica economica per far crescere il reddito di questo paese: la domanda interna, in particolare quella dei redditi bassi, la capacità di risparmio e investimento, legati proprio alla distribuzione del reddito, potrebbe diventare un vincolo qualora non fossero realizzate delle scelte di politica economica adeguate.
Infatti, il Brasile è attraversato da alcune contraddizioni:
1) una crescita del Pil non particolarmente brillante;
2) una dipendenza eccessiva dall'esportazione di materie prime nel commercio internazionale (tale da configurare una posizione di subordinazione neocoloniale nella divisione internazionale del lavoro);
3) una domanda interna frenata dalle condizioni di povertà di una fetta molto ampia della popolazione, problema rispetto al quale la presidenza Lula è riuscita ad intervenire solo marginalmente.
Affinità e diversità del pil dei paesi BRIC
Le dimensioni del Brasile sono tali da assicurargli quasi in automatico una statura economica importante: già da molto tempo è uno dei 10 Paesi più industrializzati al mondo e nel 2006 il suo Pil aveva raggiunto livelli quantitativi importanti, arrivando nel 2008 a un valore stimato di 2,03 trilioni di dollari a parità di potere d’acquisto.
Anche da un punto di vista qualitativo il Pil brasiliano ha conosciuto evoluzioni significative, negli ultimi dieci anni infatti i cambiamenti conosciuti dal Paese si rivelano comparativamente più importanti rispetto a quello degli altri due BRIC provenienti dal Sud del mondo.
Inoltre in Brasile durante gli ultimi 25 anni sono state fondate industrie tecnologicamente sofisticate nel campo delle telecomunicazioni, nel trattamento elettronico dei dati, nella bioteconologia, nel campo dei nuovi materiali, ed il settore aeronautico rappresenta oggi una fetta rilevante del PIL nazionale.
L’evoluzione del prodotto interno lordo brasiliano ad esempio non appare particolarmente brillante: se nel 2008 la crescita segnata è stata superiore al 5%, tra il 1991 e il 2001 il paese si è fermato ad un tasso medio del 2,6%. Complessivamente non eccelsi appaiono anche i risultati dei dieci anni scorsi: nel 1997 il paese latinoamericano si collocava all’8° posto nella classifica mondiale del Pil, mentre nel 2007 era sceso al 10°. In questo decennio l’economia brasiliana appare meno dinamica non solo di quella cinese e indiana, ma della stessa economia USA: nel 1997 infatti il Pil del Brasile era il 9,55% di quello statunitense, mentre nel 2007 il rapporto era calato, seppure quasi impercettibilmente, al 9,51% (nel rapporto con il Pil degli Usa, la Cina durante lo stesso periodo passa dal 12,19% al 23,76%!).
I limiti nella struttura delle esportazioni
Il settore del commercio internazionale brasiliano registra elementi critici rispetto a quelli che emergono analizzando la dinamica del Pil.
Le esportazioni del Paese sono rilevanti sia in assoluto, sia nella dinamica di crescita: nella classifica mondiale degli esportatori il paese è passato dal 27° posto nel 1997 al 21° del 2007 e tra il 2003 e il 2007 il surplus commerciale brasiliano ha toccato livelli da record.
Ma anche nel campo del commercio internazionale un’analisi più approfondita rivela la compresenza di elementi di forza insieme ad elementi di debolezza che possono compromettere l’evoluzione del paese. La principale fragilità del Brasile risiede nel peso delle esportazioni agricole. Sebbene il 12,8% dell’export del paese sia rappresentato da alta tecnologia (dato superiore a quello italiano…), le materie prime assommano ancora oggi al 46% del totale; l’equilibrio fra i due dati appare dunque ben più arretrato di quello cinese (che presenta un 30,6% d’export di alta tecnologia e solo un 8% di materie prime). Oltretutto il peso preponderante dell’agricoltura nel commercio internazionale brasiliano non sembra poter essere messo in discussione nel breve – medio periodo. Al contrario le scelte di politica economica relative all’incremento nella produzione di agrocombustibili da esportazione appaiono rafforzare molto questo modello; il piano di sviluppo della coltura e commercializzazione degli agrocombustibili per la sostituzione di prodotti petroliferi (suggellato dal patto Lula - Bush del 2007) rappresenta la riproduzione di una dinamica neocoloniale, testimoniata dall’importanza assegnata all’esportazione di materie prime agricole a basso valore aggiunto, ottenute grazie a un forte sfruttamento delle risorse naturali e della manodopera2. Questa scelta denuncia una delle principali debolezze storiche della politica economica brasiliana: anche negli anni della presidenza Lula il Paese non è stato in grado di perseguire una politica orientata alla crescita interna, capace di affrontare i grandi squilibri economici regionali e sociali. Il traino del paese è sempre stato affidato alle esportazioni agricole il cui controllo si concentra in poche mani e il cui ricavato va ad accrescere le disuguaglianze interne. In questo il Brasile si dimostra simile all’India, con la quale condivide una storia di dominazione coloniale economicamente molto invasiva, e molto differente dalla Cina, capace di una politica basata sulla crescita interna e su un progetto di immissione nel mercato mondiale dal momento in cui il potenziale interno si fosse mostrato sufficiente per aprirsi alla globalizzazione in una condizione di forza.
Distribuzione della ricchezza e limiti della domanda interna
Un altro vincolo pesante per lo sviluppo economico brasiliano è dato dalla spaventosa disuguaglianza interna e dal ritardo sociale del Paese. Queste condizioni di squilibrio e di arretratezza hanno già frenato negli anni ’60 lo slancio di crescita del Brasile e ancora oggi sono una seria minaccia per le prospettive di sviluppo complessivo.
Il dato più evidente riguarda la distribuzione della ricchezza: oggi il 10% più ricco tra i 196 milioni di brasiliani incamera il 44,8% del PIL, lasciando al 10% più povero un misero 0,9%. Ancora più drammatica la disuguaglianza rispetto alla proprietà agraria, vera origine mai sopita delle differenze sociali brasiliane: il 20% più ricco dei proprietari rurali si vede assegnato ben il 90% della terra disponibile, mentre al 40% più povero spetta un insignificante 1%. A completare il quadro delle disuguaglianze concorre il piano regionale, segnato da un continuo allontanamento tra il dinamico Centro Sud dal Nord e dal Nord est immersi nell’arretratezza; a testimonianza di ciò si registra un PIL pro capite 9 volte più alto nello Stato del Distretto federale rispetto allo Stato del Piauì, mentre dei 27 stati della Repubblica brasiliana i primi due (S. Paulo e Rio de Janeiro) nel 2006 realizzavano da soli il 45,49% dell’intero PIL nazionale.
Da ultimo emerge un’ulteriore debolezza nell’analisi dei salari operai: se un operaio specializzato brasiliano guadagna una cifra compresa fra i 400 e i 1.000 dollari USA, un operaio generico si deve accontentare di un salario che oscilla tra i 128 e i 220 dollari, completamente insufficiente sia per alimentare la domanda interna, sia per vivere in condizioni di decenza.
In questo quadro l’azione di Lula ha segnato alcune evoluzioni positive, ma non ha mai posto all’ordine del giorno il nodo delle disuguaglianze interne, che potrebbe concorrere a risolvere i non pochi problemi di domanda interna, risparmio e investimenti. La riforma agraria, inizialmente sbandierata dal presidente come impegno prioritario per un rinnovamento del Brasile, è stata ridimensionata e quindi abbandonata. Il Brasile continua così ad essere l’unico grande paese al mondo a non avere mai avuto una vera riforma agraria, di conseguenza il flusso di migrazione interna verso le favelas urbane non si ferma e contribuisce alla crescita di un esercito di sottooccupati che mantiene basso il costo del lavoro.
Sfide per il futuro del Brasile
Gli snodi dello sviluppo del Brasile non sono ancora risolti. In qualche modo occorre trovare una “sintesi tra capacità produttiva e commerciale, unitamente ad una domanda interna adeguata che può essere risolta solo con una politica dei redditi adeguata, agendo anche sui fattori della produzione. Sostanzialmente il Brasile deve “aggredire:
- da un punto di vista produttivo e commerciale il gigante latinoamericano è capace di avere contemporaneamente tanto un’industria aeronautica di alto livello quanto un progetto di crescita delle esportazioni basato sulla canna da zucchero per agrocombustibili e sul mero sfruttamento dell’ambiente naturale e dei lavoratori;
- da un punto di vista sociale il Brasile è un Paese che, al pari dell’India, dichiara di non avere più bisogno della cooperazione allo sviluppo e presenta al suo interno 6,5 milioni di abitanti che ancora oggi non hanno accesso all’elettricità.
Il Brasile potrebbe essere protagonista nella nuova distribuzione del lavoro internazionale, nel senso che potrebbe diventare soggetto industriale, tecnologico a livello internazionale. Se le esportazioni sono importanti per “conquistare” quote di mercato, in particolare in tutte quelle attività che interessano l’accumulazione di capitale, il consolidamento di questo processo passa attraverso un discreto aumento della domanda e del risparmio. Probabilmente questa è la sfida più dirimente per il governo brasiliano.
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