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Alle origini del conflitto tra Cina e Stati Uniti

06/10/2014

Notizie sulla Cina/2 La crescita progressiva della potenza economica, politica, militare cinese, e il sostanziale rifiuto statunitense di riconoscere tale fatto

Nell’ultimo periodo stiamo assistendo al manifestarsi di molti conflitti nel mondo, dalla Siria all’Iraq, dall’Afganistan all’Ucraina, a Gaza, per non parlare di altre vicende apparentemente “minori”, quali quelle di Sudan, Ciad, Mali, Repubblica Centroafricana, ecc..

Si può pensare che tali crisi scoppino e vadano avanti a lungo anche, se non soprattutto, per l’assenza di qualcuno che abbia una sufficiente forza per governare il mondo. Come il big crash del 1929 divenne così grave anche perché mancava allora un qualche potere regolatore di ultima istanza (la Gran Bretagna non aveva più la forza per incarnare tale ruolo e gli Stati Uniti non l’avevano invece ancora), così i molti conflitti in atto sembrano svilupparsi perché la potenza già dominante, gli Stati Uniti, non ce la fa più e quella che in prospettiva potrebbe forse prendere il suo posto, la Cina, non ne ha ancora né la forza né, sembra, la voglia.

Più in generale si deve ricordare che c’è nel mondo un conflitto di gran lunga più importante di quelli citati, che per fortuna presenta, almeno per il momento, un profilo a bassissimo livello di intensità militare; il suo esito determinerà probabilmente i destini del mondo per i prossimi decenni. Si tratta della lotta più o meno sotterranea in corso appunto tra Stati Uniti e Cina.

Alle origini del contrasto sta ovviamente la grande crescita economica, ma anche militare, della Cina, fenomeno che va assumendo, almeno sul piano economico, dimensioni tali da poter probabilmente eclissare in relativamente pochi anni la forza di quella statunitense (Jacques, 2012; Ferguson, 2011). Esso ha origine così, nella sostanza, dal tentativo degli Stati Uniti di contrastare in qualche modo tali sviluppi.

Le successive fasi del conflitto

I segni e le tappe del conflitto sono da ricercare con attenzione, perché essi sono sottotraccia e spesso indiretti. In tutti i casi gli Stati Uniti si presentano come gli attaccanti e la Cina sembra giocare, sia pure abilmente, in difesa. Non che, di fronte ad un avversario aggressivo, la Cina si possa considerare come il mite agnellino della favola di Esopo, ma certamente essa evita quasi sempre di fare la prima mossa.

Si può tentare di fare una storia dei numerosi episodi che si registrano sul tema, suddividendoli, forse con una qualche arbitrarietà, in tre fasi.

La prima grande battaglia tra i due contendenti ha riguardato a suo tempo lo sviluppo dei processi di globalizzazione. Sono stati gli Stati Uniti, seguiti in ogni caso fedelmente dall’Europa, a scatenare a suo tempo una forte offensiva su tale fronte, con la quale pensava di ottenere la conquista in profondità dei mercati dei paesi emergenti e il loro allineamento complessivo, anche a livello politico, con il Washington Consensus.

La mossa non era diretta soltanto contro la Cina, ma anche contro tutti gli altri paesi emergenti. Ma sappiamo che è stato alla fine proprio il paese asiatico e, insieme ad esso anche gli altri paesi citati, a vincere questa battaglia. La Cina, in particolare, ha conquistato il primato della produzione industriale e dei commerci e ora anche del pil, i paesi del Terzo Mondo controllano ormai più del 50% del pil mondiale e il Washington Consensus è entrato in grande difficoltà. Ora quindi gli statunitensi, avendo fallito, sembra vogliano cercare, nella sostanza, di tornare indietro.

Si assiste in effetti ad un profondo cambiamento negli atteggiamenti di quel paese, come rilevano diversi commentatori (vedi ad esempio Stephens, 2014). L’architetto della attuale era della globalizzazione non ha più voglia di farsene garante dal momento che l’ordine in vigore tende a ridistribuire il potere a favore dei rivali. Così la finanza è stata almeno in parte rinazionalizzata; i flussi di capitale globali sono oggi soltanto a circa la metà del loro livello pre-crisi; il sistema commerciale aperto si sta frammentando, mentre il Doha round è fallito; le organizzazioni internazionali (Banca Mondiale, WTO, Fondo Monetario) sono in grandi difficoltà.

La seconda fase del conflitto vede lo sviluppo di una serie di episodi relativamente meno impegnativi.

Così abbiamo assistito molte volte alla messa in stato d’accusa della Cina presso il WTO per la violazione delle regole della concorrenza, al persistente rifiuto statunitense di riconoscere un peso adeguato alla Cina nei vari organismi internazionali, alla continua forte pressione nei confronti del paese asiatico perché esso rivaluti lo yuan.

Ma l’episodio più grottesco di questa seconda fase riguarda la questione dello spionaggio. Nei mesi precedenti allo scoppio dell’affare NSA, gli Stati Uniti hanno condotto una forte campagna contro la Cina, accusandola di spiare in tutti i modi l’America; dopo il manifestarsi dello scandalo, le acque si erano per un po’ calmate, poi sono venute fuori delle rinnovate e a questo punto grottesche accuse contro cinque alti funzionari cinesi.

Ora siamo nella terza e forse decisiva fase della guerra. Gli Stati Uniti stanno cercando di attaccare l’avversario sul piano economico, politico, militare.

C’è stata intanto una dichiarazione Usa di qualche tempo fa secondo la quale l’Asia è ora il perno delle loro strategie economiche, politiche e militari. La risposta cinese, venuta qualche tempo dopo, è stata quella della rivendicazione di sovranità su diverse isole sperdute del mar Cinese meridionale, segnale che indica come ormai la Cina non accetti più l’ordine internazionale quale configuratosi in passato senza di lei.

Ci sono poi stati i tentativi in atto di varare due trattati cosiddetti commerciali, anche se si tratta di questioni con risvolti molto più ampi, il primo con i paesi europei, il secondo con varie entità asiatiche, chiaramente volti a cercare di isolare la Cina, che pure è il principale commerciante mondiale; ma anche i principali paesi emergenti sono esclusi da questi possibili accordi. Obama ha poi avviato una nuova politica di intervento in Africa, promettendo aiuti ed investimenti a tutti.

Alle origini del conflitto

Ovviamente dietro tutto questa sta, da una parte, la crescita progressiva della potenza economica, politica, militare cinese, dall’altra il sostanziale rifiuto statunitense di riconoscere tale fatto.

Alle potenze europee sono stati a suo tempo necessari sessanta anni per farsi una ragione della perdita del potere che esse avevano subito dopo la seconda guerra mondiale. Ed esse non sembrano essersi ancora rassegnate completamente.

I cinesi hanno scelto di giocare sul lungo termine, rassicurando costantemente il mondo sul fatto che la loro crescita cambierà molto poco nell’ordine delle cose, mentre in occidente non si ammette che si è alla vigilia di un grande mutamento. L’idea che gli Stati Uniti abbandonino la loro posizione di primato e che debbano trattare da eguali la Cina suona per loro come anatema (White, 2013; Layne, 2014; Jacques, 2012).

La combinazione cinese di un autoritarismo politico e di un capitalismo fortemente diretto dallo stato sfida fortemente il modello, supposto universale, americano della liberaldemocrazia e del capitalismo di libero mercato. Così, increduli, gli americani tendono magari a pensare che il successo dell’esperimento cinese si possa spiegare con la manipolazione dei cambi e lo spionaggio industriale (Layne, 2014).

Il più grande pericolo è essi che adottino un atteggiamento aggressivo. Qualcuno pensa che gli Usa si trovino in un percorso di collusione che potrebbe portare anche ad una guerra. Per evitarla, bisognerebbe che si partisse dal riconoscimento che nessuna delle due potenze in gioco possa dominare l’Asia e che bisogna trovare un accomodamento (White, 2013, Layne, 2014). A questo possibile compromesso si oppongono gli Usa, che pure dovrebbero fare il primo passo, non la Cina.

Conclusioni

La situazione attuale di incertezza strategica pone rilevanti pericoli per lo sviluppo non solo economico del pianeta. Gli Stati Uniti sembrano riluttanti a confrontarsi da uguali con la potenza asiatica, che continua la sua forte ascesa economica; questo rifiuto potrebbe minacciare la pace mondiale.

Il possibile avvento poi al potere nei prossimi anni in Usa di forze ancora più ostili al cambiamento necessario appare da questo punto di vista preoccupante.

Dal momento che le fobie statunitensi derivano anche dalla loro repulsione per un modello economico, come quello cinese, che da tanto spazio al ruolo dello stato, può essere di qualche interesse tentare di fare il punto sulla situazione delle imprese pubbliche del paese asiatico, approfittando dell’occasione per fare dei riferimenti rilevanti anche a quelle indiane. Lo faremo nel prossimo articolo della serie.

 


Testi citati nell’articolo

-Ferguson N., Civilization: the West and the rest, Allen Lane, Londra, 2011

-Jacques M., When China rules the world, Penguin books, 2a edizione, 2012

-Layne C., America’s view of China is fogged by liberal ideas, www.ft.com, 13 agosto 2014

-Stephens P., The world is marching back from globalisation, www.ft.com, 4 settembre 2014

-White H., The China choice : why we should share power, Oxford University Press, Oxford, 2013

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