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Governi e corporation nel grande gioco dell'auto
Il governo tedesco si incarta in un rinvio pericoloso per la vicenda Opel, la Fiat cerca nuove strategie dopo Chrysler. Il risiko su quattro ruote è mondiale
Premessa
Le note che seguono toccano vari temi riconducibili tutti comunque alla situazione e alle prospettive attuali generali del settore dell’auto a livello mondiale e a quelle specifiche della Fiat dopo la vicenda Chrysler e quella Opel, vicenda quest’ultima della quale si è forse chiuso, e in maniera certamente confusa, solo il primo atto.
Il crollo della General Motors
Per capire sino in fondo la drammaticità del crollo della General Motors e il suo significato altamente simbolico appare opportuno ricordare che forse i tre più importanti libri di management di tutta la storia di questa disciplina sono stati Concept of a corporation di P. Drucker, My years at General Motors di A. Sloan e, forse soprattutto, Strategy and structure di A. Chandler jr. (Kay, 2009). Ebbene, tutti e tre i testi hanno attinto come alla loro principale fonte di ispirazione nelle trasformazioni organizzative e nei nuovi modelli di gestione che, a partire dagli anni venti del Novecento, sono stati avviati con grande successo dalla General Motors e si sono poi diffusi, complice anche la grande crisi, alle altre grandi imprese statunitensi e poi a quelle del resto del mondo. Altrettanto significativamente, i modelli organizzativi della stessa impresa hanno poi invece costituito un ostacolo importante quando tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta, sempre del Novecento, i produttori giapponesi, a cominciare dalla Toyota, hanno cominciato a sbarcare in forze sul mercato statunitense; essi hanno trovato una resistenza molto scarsa da parte dei concorrenti locali, che sono stati capaci soltanto di appellarsi, peraltro con alterni risultati, alla protezione pubblica. Ancora significativamente, questo momento di passaggio del testimone è descritto in altri testi fondamentali della scienza manageriale, questa volta centrati sulla casa giapponese. Si ricorda ad esempio, in proposito, The machine that changed the world, del 1990, scritto da J. Womack, D. Jones e D. Ross. Ma ancora molto prima, l’uscita alla metà degli anni sessanta del Novecento del testo di R. Nader, Unsafe at any speed –tradotto in italiano con il significativo titolo L’auto che uccide -, indicava che qualcosa si andava incrinando nel settore, in particolare nel rapporto tra le case costruttrici e i consumatori, in un mercato dominato da tre oligopolisti, tra di loro forse collusi e comunque poco attenti ai mutamenti del mondo. Tra l’altro, il loro motto di fondo era “big cars, big profits, small cars small profits”. Si sa come è poi andata a finire.
Paradossalmente, in ogni caso, era stata proprio la grande crisi del 1929 che aveva permesso alla General Motors di prendere il controllo della Opel tedesca ed ora un’altra crisi glielo fa perdere.
I criteri di sopravvivenza e i possibili futuri protagonisti del settore
Ma in questo momento appare in rilevanti difficoltà anche la stessa Toyota. Ci si può chiedere allora, più in generale, in relazione alle previsioni di Marchionne secondo il quale resteranno sul mercato soltanto sei grandi case automobilistiche, quali potrebbero alla fine essere le aziende prescelte dalla sorte.
Sullo sfondo sta il gigantesco problema rappresentato dal fatto che l’industria automobilistica mondiale è in grado oggi di produrre almeno 90 milioni di vetture all’anno, mentre il mercato in questo momento ne assorbe all’incirca soltanto 55 milioni. Una tragedia senza la possibilità di alcuna soluzione che non sia, almeno in parte, traumatica.
Perché intanto una dimensione di cinque-sei milioni di unità prodotte e vendute ogni anno viene da molti considerata oggi una soglia minima di sopravvivenza? Il discorso fa riferimento ad almeno cinque sottocriteri, tre di carattere tecnologico-produttivo e due di tipo commerciale, anche se i due aspetti sono poi abbastanza collegati tra di loro.
Per quanto riguarda le regole di carattere produttivo, intanto bisogna fare riferimento al numero dei veicoli prodotti per ogni piattaforma di base. L’idea è quella di avere una percentuale elevata di vetture prodotte su di una piattaforma di almeno un milione di unità. Sulla base di tale criterio, Toyota presenta una percentuale del 55%, Volkswagen e Renault-Nissan del 48%, Ford il 21% e gli altri nessuna (Brafman, 2009). Ovviamente, più alta è la soglia di produzione globale, maggiore la possibilità di avere una percentuale elevata. Il livello di 5-6 milioni di veicoli è anche da porre in relazione all’aumento rilevante, nel tempo, dei costi di sviluppo dei motori. Il terzo criterio da considerare è quello della capacità di produrre indifferentemente più tipi di vetture sulle stesse catene di montaggio, ciò che indica un maggiore o minore grado di flessibilità di mercato. Anche in questo caso sono soprattutto la Toyota e poi la Volkswagen che ne escono meglio. La casa giapponese, in particolare, dichiara di poter produrre sino a sette modelli differenti sulle stesse linee (Brafman, 2009), seguendo un modello di riorganizzazione della produzione che la società ha sviluppato già da diversi anni.
Per quanto riguarda invece i criteri commerciali e distributivi, si può fare intanto riferimento alla necessità di avere una gamma di modelli – non invece un numero assoluto di marchi e di modelli, che per molte case devono anzi essere ridotti- il più ampia possibile, criterio che favorisce di nuovo imprese come la Toyota, la Volkswagen, la Nissan-Renault, la Ford; è una strada sulla quale la stessa Fiat, con l’acquisizione della Chrysler, dovrebbe ora fare dei rilevanti, anche se non ancora soddisfacenti, passi in avanti. Infine, è da considerare importante un criterio di copertura geografica globale dei mercati. Oggi ci sono al mondo quattro grandi aree di consumo, gli Stati Uniti, l’Europa, il Giappone, la Cina ed un’impresa che mira a stare adeguatamente nel mercato dovrebbe coprirle tutte abbastanza bene con una presenza insieme commerciale e produttiva, cosa che riescono a fare di nuovo soltanto alcune poche case.
Toyota ha venduto circa 9 milioni di vetture nel 2008, ma per il 2009 si prevede una caduta sino a 6,5 milioni, con il ritorno ai livelli del 2003-2004. C’è poi, sorprendentemente, la Volkswagen, che ha venduto 6,3 milioni di unità nel 2008 e che si è data l’obiettivo di diventare il numero uno mondiale entro il 2018 (Brafman, 2009). Le due case sembrano le più sicure di giocare un ruolo da protagoniste nei prossimi turbolenti anni. Seguono la Renault-Nissan, anch’essa con buone chance ma senza risultati spettacolari, la Ford - che ha venduto 6,3 milioni di unità nel 2007, 5,4 milioni nel 2008 e ne dovrebbe vendere intorno ai 4,5 nel 2009 -, che sembra però avere forse arrestato la china, poi la Honda e la Hunday-Kia, ambedue in rilevante crescita, almeno negli anni passati. Sono da prevedere poi una o due marche cinesi, che, quantunque al momento molto più piccole di dimensioni, diventeranno probabilmente delle protagoniste del settore entro qualche anno e sono già presenti sul fronte delle possibili acquisizioni internazionali. Ricordiamo, a proposito del paese asiatico, che esso ha oggi le più stringenti norme antinquinamento del mondo e che è ancora cinese la prima auto elettrica con una adeguata autonomia di percorrenza. La General Motors, dopo la cura dimagrante e dopo aver inghiottito 50 miliardi di dollari di denaro pubblico, dovrebbe collocarsi intorno ai cinque milioni di vetture e, se riuscirà a superare tutte le trappole che ha davanti a sé –cosa di cui si può tranquillamente peraltro dubitare; la società non sembra aver imparato sino in fondo gli insegnamenti legati al suo declino; essa non sembra possedere, tra l’altro, i modelli adatti a sedurre i consumatori (Boulet-Gercourt, 2009)- , potrebbe forse tornare una protagonista del settore entro qualche anno. E siamo già ad otto-nove case; restano da sistemare la Fiat-Chrysler, ora probabilmente sui quattro milioni di unità, la Peugeot, sui tre, poi la BMW e la Daimler Benz, che fanno però storia a sé per i margini particolarmente elevati che riescono ad estrarre dai loro modelli della fascia alta. Vanno infine ricordate alcune case relativamente piccole, quali la Tata, la Suzuki, la Mitsubishi, la Subaru.
Appare difficile immaginare se e come, in un relativamente prossimo futuro, si potrà passare a sei imprese soltanto.
I nuovi possibili raggruppamenti
Apparentemente tramontata la possibile acquisizione della Opel –ma si tratta di una vicenda che potrebbe riservare delle sorprese: si veda meglio più avanti-, la Fiat si trova di fronte all’alternativa di come andare avanti. I potenziali pretendenti alternativi alle nozze con la casa torinese, tutti peraltro piuttosto riservati e pieni di pretese, in astratto non mancherebbero e i nomi più frequentemente citati dalla stampa sono la Peugeot, possibile fidanzata della Fiat da almeno una trentina di anni, la BMW, anch’essa con una lunga anzianità di servizio come supposta pretendente, infine la Tata, con la quale, così come con la PSA, esistono già dei legami almeno relativamente significativi.
Per quanto riguarda intanto la BMW, con il suo livello di produzione e vendite potrebbe far raggiungere alla Fiat la fatidica soglia dei 5/5,5 milioni di veicoli prodotti e arricchire significativamente la gamma. Ma sarebbe difficile sviluppare le piattaforme da un milione di veicoli per la sostanziale eterogeneità dei modelli prodotti dalle tre case che si potrebbero unificare. Il raggruppamento avrebbe poi una debolissima presenza in Asia. Infine la famiglia Quandt, che possiede il pacchetto di controllo dell’azienda, non vuole perdere il potere di comando, cosa cui invece sembra si sia rassegnata la famiglia Agnelli.
E veniamo alla PSA. In questo caso sarebbe forse più a portata di mano lo sviluppo comune di qualche piattaforma da un milione di unità, mentre il livello complessivo della produzione congiunta di vetture porterebbe il nuovo gruppo ai primissimi posti della classifica mondiale. Ma resterebbe un buco rilevante di presenza in Asia, mentre la vicinanza dei modelli delle due case costringerebbe a drastiche decisioni sui tagli agli stabilimenti italiani e francesi e al numero dei posti di lavoro, una vicenda quindi nella sostanza insostenibile per ragioni sociali e politiche. La famiglia Peugeot, poi come quella Quandt, vuole restare ai quadri di comando e un rappresentante della famiglia dichiara nella sostanza che non ci si vuole precipitare nelle braccia del primo venuto… Subito dopo Marchionne afferma che con la PSA non è al momento in atto alcun tipo di discorso.
In tutte e due i casi, quindi, si dovrebbero studiare complesse architetture societarie per venire a capo delle questioni familiari; ma si sa anche che avere più di uno che comanda in casa nel mondo delle imprese non è nel lungo termine un affare con delle prospettive solide.
Infine c’è la Tata, che ha legami abbastanza organici sia con il gruppo Fiat – oltre a qualche joint-venture comune in India, il gruppo indiano ha anche un posto nel consiglio di amministrazione della casa torinese-, sia con la PSA, dal momento che il nuovo direttore generale del gruppo francese viene proprio dalla Tata. L’accordo aprirebbe meglio il potenzialmente significativo mercato indiano e porterebbe di nuovo la Fiat intorno alla fatidica soglia dei 5 milioni di unità, ma anche in questo caso sorgerebbe il problema del gruppo azionario di comando.
Alla fine, restano all’orizzonte soltanto grandi incertezze. Intanto i lavoratori del gruppo torinese continuano comunque ad essere lasciati all’oscuro delle strategie dell’azienda torinese per quanto riguarda il nostro paese. Qualcuno ha correttamente, tra l’altro, sottolineato che la Fiat produce una parte ridotta e decrescente nel tempo di auto in Italia, mentre il loro numero complessivo non tende a crescere. Nel frattempo, comunque, con la apparente chiusura della vicenda Opel - ma si veda meglio più avanti- è venuta a tramontare anche la possibile acquisizione da parte Fiat delle attività sudamericane della GM, nonché di quelle svedesi (Saab).
La vicenda Opel
La vicenda Opel è, nella sostanza, ancora in corso e più passa il tempo più essa sembra acquistare i contorni di una farsa. Intanto, sembra che nessuno dei molti attori della vicenda abbia preso qualsiasi impegno sicuro, mentre da più parti si afferma che l’accordo definitivo dovrebbe essere chiuso entro settembre, cioè nella sostanza dopo le elezioni tedesche…. La General Motors si è impegnata a cedere l’Opel alla Magna e alla Sberbank ma in modo non vincolante, mantenendo comunque una quota azionaria del 35%. Il governo tedesco afferma che l’accordo è ancora provvisorio e esso non esclude la possibilità di una svolta, mentre apre in effetti dei colloqui con la cinese Saic. La stessa Sberbank, una banca in rilevanti difficoltà, afferma che essa ha intenzione di cedere in futuro la sua quota del 35%, preferibilmente, ma non necessariamente, ad un altro partner russo. F. Stonach, il capo della Magna, che ha preso il 20% e non si capisce perché sia considerato il capofila della cordata- sembra piuttosto un prestanome-, afferma dal canto suo che quello che è stato firmato è uno schema concettuale e sottolinea che esso non garantisce la sottoscrizione di un contratto definitivo. L’importante, sembra di capire, è reggere fino alle elezioni.
Per quanto riguarda il partner industriale, cioè la russa Gaz, si tratta di “un’impresa moribonda, che fabbrica delle Volga antidiluviane ed una piccola utilitaria, la Gazel” (Routier, 2009), senza alcuna capacità tecnologica, mentre l’accordo con i russi è stato venduto all’opinione pubblica tedesca anche con l’ipotesi di poter espandere fortemente le vendite Opel nel paese delle nevi, cosa manifestamente fuori della realtà, almeno per volumi significativi. Non è chiaro, in ogni caso, se verrà costruito un nuovo stabilimento in Russia per produrre le vetture tedesche.
Intanto, come ci informa La Stampa (Alviani, 2009), non ci sono informazioni chiare neanche sul numero degli esuberi, anche se sembra abbastanza assodato che la parte più rilevante degli stessi verrebbe scaricata sulle attività Opel dislocate al di fuori dalla Germania (Clover, Reed, 2009) –perderebbero il posto, secondo fonti ufficiose, il 10% degli addetti tedeschi e invece il 30% di quelli britannici, belgi, polacchi-, mentre sono spuntati nuovi impegni finanziari legati alla vicenda, dagli oneri pensionistici per 4 miliardi di euro che nessuno sa su chi dovrebbero gravare a una ulteriore somma di 6,5 miliardi di euro che dovrebbe essere versata alla General Motors entro il 2018 a fronte della cessione dei brevetti e del know-how.
Conclusioni
Il mondo dell’auto non dovrebbe mancare di riservarci in un futuro anche prossimo delle sorprese clamorose; speriamo soltanto che esse non danneggino i lavoratori del settore. Mentre comunque temiamo che la vicenda della Opel si inoltri verso una strada tutta in salita – tra l’altro, aspettare sino alla fine di settembre per chiudere gli accordi può contribuire a deteriorare in misura rilevante la situazione dell’azienda - e mentre le vicende della Chrysler sembrano invece andare avanti in maniera più positiva, le potenziali nuove intese del gruppo torinese con altri produttori per raggiungere la fatidica soglia dei 5-6 milioni di vetture sono ancora avvolte nelle nebbie.
Testi citati nell’articolo
-Alviani A., Per Magna un conto da 11 miliardi, La Stampa, 6 giugno 2009
-Boulet-Gercourt Ph., La fin de la belle américaine, Le Nouvel Observateur, 4-10 giugno 2009
-Brafman N., La chute de GM chamboule l’automobile mondiale, Le Monde, 3 giugno 2009
-Clover Ch., Reed J., Sberbank plans to sell on stake in Opel, The Financial Times, 5 giugno 2009
-Kay J., Lessons from the rise and fall of a carmaker, The Financial Times, 3 giugno 2009
-Routier A., Les russes tentés par Opel, Le Nouvel Observateur, 4-10 giugno 2009
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