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Brics, cronaca di una morte annunciata?
La mitologia dei paesi emergenti, con il recente deprezzamento delle valute, lascia ora il posto a una nuova stagione di crisi e debito estero nelle periferie. Ma senza un ritorno alla repressione finanziaria la sequenza di euforia e collasso continuerà a spostarsi indisturbata da un paese all’altro del pianeta
La scorsa settimana l’Economist mostrava in un grafico la generale tendenza delle valute dei principali Paesi emergenti a deprezzarsi, con una forte caduta nell’ultimo mese [1]. Si è assistito a grandi movimenti sui mercati finanziari a cui sono seguite pesanti risposte di politica monetaria. I casi più eclatanti sono stati l’Argentina, che ha dovuto sospendere l’intervento sui mercati dei cambi per evitare l’assottigliarsi delle riserve, e la Turchia, con una manovra monetaria di quasi cinque punti sui tassi d’interesse overnight. Nella vulgata del mondo finanziario, tanto avvezzo ai nomignoli, si parla giá dei Cinque Fragili (India, Indonesia, Brasile, Turchia, e Sudafrica) e altri cinque paesi sono nell’occhio del ciclone (Argentina, Venezuela, Thailandia, Ucraina, Ungheria), per i rischi associati a una crescente instabilità politica [2]. In cifre, la posizione finanziaria netta, cioè la differenza tra attività (patrimoni, investimenti, capitali) detenute all’estero dai cittadini, e passività detenute nel paese da non residenti) al 2012 era negativa per valori pari a 38 punti di Pil per Il Brasile, 16 punti per l’India, 42 punti per l’Indonesia, 53 punti per la Turchia e 8 punti e mezzo per il Sudafrica (dati Fmi).
La storia non è certo nuova, le crisi sono scatenate da un massiccio e improvviso deflusso di capitali dai paesi in questione, che in genere arrivano dopo lunghi periodi di indebitamento denominato in valuta estera e la cui successiva svalutazione mette in fibrillazione i bilanci di banche e imprese. In aggiunta, in alcuni casi (per esempio in America Latina dove storicamente l’effetto trasmissione è più forte) si genera anche una fiammata inflazionistica. In questo caso il detonante è stato l’annunciato riaggiustamento della politica monetaria americana, verso un rientro dalla fase espansiva degli ultimi anni.
Come ha notato Krugman [3], a partire dagli Anni Settanta le crisi sono diventate più frequenti e con effetti più pesanti. La causa originaria è da ricercarsi nella liberalizzazione dei mercati finanziari. Nel racconto fatato dell’ortodossia i capitali fluiscono dai paesi ad alta produttività e più competitivi, attraverso l’eccesso dell’export sull’import, verso i paesi della periferia, dove finanziano investimenti e contribuiscono alla crescita della produttività, ristabilendo equilibri di competitività. In questo schema teorico, non c’è ragione per la quale un flusso massiccio di capitali possa generare bolle speculative. Sosteneva Milton Friedman che proprio la speculazione è lo strumento per eliminare opinioni sbagliate, perché gli speculatori, che hanno più informazione, sfruttano le opinioni “sbagliate” riportando i prezzi ai “fondamentali” (cioè i sottostanti valori economici dell’azienda).
Questo però è vero solo fino a che le opinioni sbagliate non sono “correlate”, cioè non ci sono gruppi di investitori che hanno la stessa opinione divergente dai “fondamentali” sul valore di un attivo finanziario. Se è così, allora lo speculatore razionale sarà disposto a scambiare a prezzi fuori dai “fondamentali”, perché può approfittare in modo sistematico di tali opinioni divergenti [4]. Le dimensioni dei soli movimenti di portafoglio netti (escludendo quindi gli investimenti diretti esteri) aiutano a capire perché un’economia può essere rapidamente messa in fibrillazione: nel 2011 (dati FMI) questi erano pari a circa 17 punti e mezzo di Pil in Brasile, 9 punti in India, 12 in Indonesia e 10 punti in Turchia.
Come il bacio della morte, la liberalizzazione dei mercati finanziari alimenta ondate di crescita pagate con focolai di crisi nei paesi su cui di volta in volta scommette. La bolla delle attività finanziarie sostiene dinamiche inflattive che a lungo termine minacciano la competitività dell’economia. La crescita di importanza dei guadagni di capitale finisce per influenzare negativamente la distribuzione del reddito: dal momento che il capitale è più concentrato, una crescita della sua importanza relativa finisce per fare crescere la disuguaglianza. Se usiamo i dati sulla variazione della quota del reddito dell’1% più ricco negli ultimi trentanni [5] e la correliamo con il saldo medio delle partite correnti della Bilancia dei pagamenti (dati Fmi), troviamo una correlazione negativa e significativa. In altre parole, i paesi che hanno avuto un sistematico indebitamento con l’estero (saldo negativo delle partite correnti) tendono ad avere una crescita più alta della quota di reddito che va all’1% più ricco. Quando arriva il brusco deflusso, la periferia si ritrova senza capitali, con più squilibri strutturali e più gravi disuguaglianze.
C’è però un elemento schizofrenico nelle dinamiche post 1970, che mette in luce Rajam, ex capoeconomista dell’Fmi, nel suo bestseller “Fault Lines”: i paesi che si sono scottati e che hanno dovuto affrontare la macelleria sociale dei piani di intervento delle istituzioni internazionali (la famigerata condizionalità) hanno ben chiaro il rischio di uno squilibrio crescente delle bilance dei pagamenti e sono passati a una politica neo-mercantilista – la stessa che segue la Germania nell’area euro - che garantisca sul mercato internazionale gli sbocchi per la produzione. Abbiamo così un cospicuo numero di paesi esportatori che producono un “eccesso” di capitale, che fluisce alla ricerca di rendimenti elevati e di investimenti a basso rischio, stimolando la famigerata ingegneria finanziaria (quella che porta dai mutui spazzatura alla tripla A). È il caso di Corea del sud, Thailandia, Malaysia post -1998, della Cina. Sarebbe pure il caso dell’Argentina post -2001, dove però il conflitto politico tra i grandi esportatori agricoli e la Presidenta Kirchner ha fatto saltare il tavolo [6].
Dall’altra parte si trovano gli allievi neoliberali, che si impongono disciplina macroeconomica e si abbeverano al mercato internazionale dei capitali. Tra questi il Perù, la Colombia, la Turchia e il tanto lodato Brasile – e, in Europa, la Spagna e l’Irlanda – recenti vittime o in attesa della crisi finanziaria prossima ventura.
La schizofrenia è tale che una parte del sistema mondiale cerca di mantenere sotto controllo la dinamica dei salari per sfruttare la domanda esterna, ma in questo modo limita la ripartizione dei guadagni di produttività generando tensioni politiche interne ed esportando, insieme alle proprie merci, problemi per tutto il sistema. E’ quello che in Europa ha fatto la Germania. L’altra parte si apre ai capitali internazionali, tiene sotto controllo la conflittualità capitale-lavoro con i margini di redistribuzione offerti dalle bolle speculative, ma in questo modo importa – insieme a merci e capitali – problemi che indeboliscono la base produttiva interna, accentuano le oscillazioni dei cicli economici, preludono a una spirale di recessione e deflazione. In Europa, è questa la storia di Grecia e Spagna.
Nell’attuale contesto internazionale, per i paesi emergenti la leva del cambio è uno strumento addizionale, che può servire come valvola di sfogo, ma non rimuove la causa fondamentale della crisi, che resta la roulette dei mercati finanziari liberalizzati. La politica del cambio è insufficiente a superare la logica dei vantaggi comparati statici, che cristallizza le differenze tra i paesi del Centro e della Periferia e impedisce di diversificare l’economa interna e produrre così anticorpi utili a limitare i danni della crisi in arrivo. Un paese sviluppato è innanzitutto un paese diversificato in termini di capacità produttive, niente affatto un paese specializzato, come mostrano Hausman e Hidalgo [7].
C’è infine un ultimo elemento. Un mercato dei capitali liberalizzato è anche un mercato dove si crea una pericolosa linea di tensione tra dinamiche di potere territoriale e dinamiche di accumulazione internazionale. Il risultato è che i capitali cercano tranquillità, incappando spesso e volentieri in errori di valutazione su quella che è una calma apparente. È il caso del gruppo di paesi che la banca HSBC ha chiamato CIVETS - Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia e Sudafrica [8]. Da candidati al nuovo boom, sono diventati oggi sorvegliati speciali, in preda a situazioni sociali turbolente, con limiti alla democrazia o sotto regimi militari. In altre parole, in un sistema dove il grado di internazionalizzazione del capitale non è mai stato così elevato (è questo l’unica vera novità di questa globalizzazione, come sottolineava Giovanni Arrighi), i capitali fanno la fortuna economica di coloro che sanno garantire stabilità interna, ma l’euforia è spesso preludio a tensioni successive. La mitologia dei paesi emergenti lascia ora il posto a una nuova stagione di crisi e debito estero nelle periferie. La reazione in arrivo preannuncia un ritorno al nazionalismo economico, sbandierato da una galassia eterogenea di destra e sinistra. Tuttavia il vero problema resta la libertà di movimento dei capitali: senza un ritorno alla repressione finanziaria [9] il potere del capitale non viene messo in discussione e la sequenza di euforia e collasso continuerà a spostarsi indisturbata da un paese all’altro del pianeta.
[1] http://www.economist.com/blogs/graphicdetail/2014/01/daily-chart-16
[4] J.B. DeLong, A. Shleifer, L.H. Summers, R.J. Waldman (1990) “Noise Trader Risk in Financial Markets” Journal of Political Economy
[5]La fonte è il Top Income Database, http://topincomes.g-mond.parisschoolofeconomics.eu/
[6]http://goofynomics.blogspot.com/2014/02/non-piangere-per-noi-italia.html
[9] C. Diaz-Alejandro (1985) Good-bye Financial Repression, Hello Financial Crash. Journal of Development Economics
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