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Ricerca, conti in tasca alla Gelmini
95 milioni per i Prin 2008. Considerando i numeri dei progetti, sono circa 9.000 euro per ricercatore. E' questo il futuro grandioso dei progetti nazionali?
Il governo e il ministro, signora Gelmini, hanno fatto il loro dovere nei confronti della ricerca italiana. Sono stati resi noti i dati sui cofinanziamenti Prin 2008. E’ già una notizia interessante che i finanziamenti 2008 siano stati assegnati così tempestivamente, all’inizio del 2010. Ma vediamo i dati.
La spesa è di 95 milioni di euro circa. C’è da congratularsi? Questa cifra è andata a 986 progetti, chiamati (pomposamente?) “nazionali”: dunque si tratta di 96.000 euro a progetto. Peraltro, essendo tali progetti nazionali, ciascuno di essi ha sotto di sé un certo numero di “unità operative”, cioè dei laboratori o piccoli gruppi di ricerca. Se si tiene conto di ciò si scopre che ciascuna unità operativa, avente sede di solito in una diversa università, è stata finanziata con poco più di 26.000 euro. Se poi si tiene conto del fatto che ciascuna unità operativa ha a sua volta un certo numero di ricercatori (incognito, nel dato ministeriale), che, diciamo, è costituito da almeno tre ricercatori in media, si ha che il finanziamento per ricercatore è di meno di 9.000 euro a ricercatore.
Sarà bene fare qualche riflessione per valutarne la congruità. La tariffa che qualsiasi soggetto privato di ricerca o alta consulenza fattura ad un cliente varia tra i 500 e gli 800 euro. Cifre analoghe, a seconda del livello, sono previste dagli atenei italiani per le commesse che riceve da soggetti terzi (il c.d “conto terzi”). Questo significa che, grosso modo, nei progetti “nazionali” si stanno investendo tra le 11 e le 17 giornate/uomo. E siccome i progetti sono biennali, questo significa, abbondando, tra le 6 e le 9 giornate/uomo per anno.
Ma torniamo alle unità operative. Queste, in teoria, dovrebbero pagare molte missioni. Ciascun progetto ha infatti più unità operative (in media 3,6 unità per progetto) e queste dovranno pure incontrarsi qualche volta (in alcuni campi basta la corrispondenza, in altri è fondamentale discutere). Questo decurta in partenza il finanziamento di una fetta compresa - almeno - tra il 10 e il 20%, a meno di non voler tradire l’intento, da parte del Prin, di voler incentivare l’integrazione dei diversi team di ricercatori - un intento che, forse, aveva un senso tre lustri fa, ma che oggi ha scarso senso. In effetti questa formula era fin dall’inizio una imitazione di analoghi programmi europei, che intendevano promuovere le relazioni tra gruppi di ricerca a livello internazionale (la qualcosa aveva certo più senso) e che sono oggi affiancati da programmi europei più moderni ed incisivi (penso a quelli dello European Research Council). In ogni caso, come chiunque abbia fatto (o valutato) i progetti Prin sa bene, le unità operative si danno da fare per trovare altre unità partner solo a causa dei regolamenti Prin, arrampicandosi poi sugli specchi per redigere un progetto “nazionale” coerente con i sub-progetti delle singole unità operative.
E poi ci sono le spese vive per materiali, per non parlare delle attrezzature. Nel campo della ricerca biologica si sta in range di spesa particolarmente alti. Il più banale anticorpo monoclonale costa tre i 200 e gli 800 euro (e in genere ne servono molti nel corso di una ricerca), i costi per la manutenzione delle colture cellulari si aggirano, per esperimento, sui 2000 euro, i fattori di crescita costano nell’ordine di 1000 euro per esperimento, le colonne di purificazione costano sui 1200 euro (e possono servire per 3-4 esperimenti), gli enzimi hanno costi sui 2000 euro. Naturalmente, si tratta di spese vive che devono essere affrontate da ciascuna unità operativa solo alla condizione di lavorare in un laboratorio già totalmente attrezzato che copre le spese di base. Ma come? Un tempo si usavano questi progetti in parte per finanziare tali spese di base, ma con la decurtazione dei fondi interni delle università non solo si fa sempre più difficile mantenere gli standard di laboratorio, ma non si riescono a sostituire le attrezzature che deperiscono o che, rispetto ai laboratori di altri paesi, vanno considerati obsoleti. Tuttavia, anche al di fuori di tali campi i costi sono notevoli: si pensi a quelli per software specializzati, al costo dell’addestramento all’uso dei packages; perfino i dati venduti dall’Istat per la ricerca in campo socio-economico, che in media è quella che costa meno, hanno un prezzo, non certo esoso in sé, ma capace di decurtare notevolmente la disponibilità di ciascuna unità operativa.
Resta dunque ben poco per pagare la risorsa che più conta, quella umana. Se si tiene conto che un assegno di ricerca - che non può essere frazionato per una durata inferiore all’anno - ha un costo dell’ordine dei 20000 euro all’anno, è chiaro che ben poche unità operative riusciranno ad avvalersi di questa opzione, che è quella più favorevole (in termini di rapporto tra costo lordo e pagamento alle persone) per disporre di personale comunque precario. Restano quindi solo i Cococò e altre forme contrattuali, più barocche e costose.
E stiamo parlando - vale la pena di ricordarlo - di “progetti nazionali”, dell’asse portante della politica della ricerca italiana!
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