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La scuola è ancora di classe

01/10/2008

 

In una sera di pioggia incontro Lella. È stata una mia alunna. A scuola andava uno schifo, era irrefrenabile e ostentava disinteresse per il sapere. Oggi, quando ha tempo, privilegia trasmissioni educational in tv. Incredibile. Ha 21 anni ora. Ha due figli. Vive in 28 metri quadri. Il marito lavora al nero in una fabbrica di cioccolata. Gli promettono di “regolarizzarlo”. Prende 870 euro al mese. Quando la nonna – non la madre di Lella, che è malata da anni per i postumi di varie dipendenze – tiene i bambini, Lella può andare a lavorare. Lava le scale. Ciò avviene in due palazzi il martedì e il giovedì. Euro 38 a palazzo a settimana, sette piani di scale. Lella e suo marito, che non è mai stato promosso in seconda media, la sera fino a molto tardi, nell’androne del palazzo su cui affaccia il monocamera ben attrezzato dove vivono a piano terra, vendono cose al nero. Se le procurano fuori città in un grande outlet della distribuzione dove un cugino passa loro le cose al minuto a prezzo d’ingrosso: barre di cioccolata, biscotti, latte, zucchero, caffè, bibite gelate, caramelle, gomme. Ci puoi trovare anche dentifricio, pannolini, saponette, aspirine, siringhe sterili, preservativi, cotone, alcool, sapone da barba e per lavare a terra o per i piatti, lamette, strofinacci, spugnette, ecc. Ci puoi trovare il fumo. Non hanno orario. È un servizio. È molto comodo se vivi lì vicino e hai dimenticato qualcosa o se ti viene fame di qualcosa di notte. E Lella dispensa anche consigli e sa moderare conflitti notturni di quartiere dagli esiti potenziali davvero terribili. Un giorno, in mezzo a una conversazione su tutt’altro, all’improvviso mi ha detto: «dovevo studiare di più».[1]

 

 

 

***** *****

 

Il rapporto diretto tra più anni di istruzione e maggiore protezione sociale è da tempo attestato, in particolare per quanto riguarda il benessere fisico delle persone, l’accesso al lavoro e il contrasto all’esclusione sociale.

 

C’è certamente un’associazione positiva[2] tra istruzione e salute, correlata ad una minore presenza di malattie croniche e acute (in modo indipendente rispetto alle variabili demografiche e occupazionali) e ad una più marcata aspettativa di vita.

 

 

 

Vi sono forti connessioni, poi, tra istruzione e possibilità di esercitare il diritto al lavoro. In tutti i paesi che hanno raggiunto un marcato sviluppo, infatti, gli individui con un più elevato livello di istruzione sono quelli che più frequentemente fanno parte degli occupati. Tale rapporto è particolarmente evidente per le donne, in quanto quelle con livelli più elevati di scolarizzazione riescono più facilmente a contrastare una ineguale divisione del lavoro in ambito domestico. Ciò vale sia nel caso di occupazioni subordinate che di lavoro autonomo. Nei paesi dell’Ocse, mediamente, il tasso di occupazione degli individui con un’età che va dai 25 ai 64 anni e con un’istruzione di livello universitario è di più di 15 punti percentuali superiore a quello degli individui in possesso di un diploma di scuola media inferiore. Tale discrepanza si attesta intorno ai 30 punti percentuali se prendiamo in considerazione soltanto le donne. In Italia, tra i laureati adulti (tra i 36 e i 64 anni di età) quelli occupati sono circa l’86%, più di 10 e 25 punti percentuali rispetto ai loro coetanei in possesso, rispettivamente, di un diploma o di una licenza media inferiore[3].

 

Gli effetti di una maggiore istruzione sono ancora più accentuati nelle zone più deboli del paese e nell’ambito dei gruppi più svantaggiati. Nel Mezzogiorno, nell’anno 2005, i laureati che possedevano un impiego erano l’81%, contro il 62% dei diplomati e il 49% delle persone con un diploma di scuola media. Uno studio effettuato dalla Banca d’Italia[4] ha messo in evidenza che, in condizioni di parità rispetto ad altre circostanze, la probabilità di far parte del mercato del lavoro aumenta del 2,4% per ogni anno di scuola frequentato. Nel Mezzogiorno e per le donne questo dato arriva al 3,2%. L’influenza di un anno di istruzione sulla probabilità di essere occupato, rispetto alla media italiana, si aggira intorno all’1,6%, mentre nel Sud è del 3,0% e per le donne l’1,8%.

 

 

 

Vi è, in tutti i paesi Ocse, sia pure con accenti diversi, un costante rapporto inverso tra tasso di disoccupazione e livello di istruzione, per entrambi i sessi. Quanto più il livello di istruzione è elevato, tanto inferiore diventa la proporzione di soggetti privi di un’occupazione: nel 2004, il 10,1% degli uomini in possesso di un diploma di scuola secondaria inferiore, di età compresa tra i 24 e i 65 anni, era disoccupato, a fronte del 5,7% di quelli con diploma di scuola secondaria superiore e del 3,5% di quelli con livelli di istruzione più elevata (considerando le donne passiamo dall’11% al 7,2% al 4,3%).[5]

 

 

 

Il titolo di studio è determinante anche per quel che riguarda la probabilità di vivere in condizioni di povertà e di disagio sociale. In particolare, il livello di istruzione del capofamiglia incide sulla possibilità di diventare una famiglia povera. Nel nostro paese, nel 2005, i nuclei famigliari il cui capofamiglia era in possesso di un basso livello di istruzione (nessun titolo o licenza elementare) avevano un’incidenza di povertà del 17,9%, cioè di ben quattro volte maggiore rispetto ai nuclei famigliari il cui capofamiglia era una persona con almeno la licenza media superiore.

 

 

 

Nel complesso, migliore istruzione non è da sola risolutiva nei confronti dei rischi dell’esclusione sociale. Ma la scelta di investire in istruzione si dimostra redditizia: se si consegue un diploma superiore a partire dalla licenza media, ciò aumenta del 9,7% la possibilità di trovare un’occupazione, mentre se si giunge in possesso di una laurea, dopo il diploma superiore, questo accresce tali possibilità del 10,3%[6]. Ed è certo il contrario: il basso livello di istruzione candida alla esclusione sociale.

 

È proprio per queste ragioni che l’Agenda di Lisbona della Ue ha individuato un gruppo a rischio di esclusione sociale in chi abbandona la scuola precocemente. Tanto che ha stabilito, come obiettivo comune, che ogni paese, entro il 2010, porti sotto la soglia del 10% questa categoria – chiamata early school leavers (16-24enni che, pur nei diversi sistemi di istruzione-formazione europei, non hanno raggiunto una licenza di scuola media superiore né una qualifica professionale da spendere sul mercato del lavoro).

 

Questo obiettivo, a 18 mesi dalla scadenza, è irraggiungibile per l’Italia. I nostri early school leavers, infatti, sono scesi negli ultimi 3 anni (ma entro un trend oscillante sia verso il basso che verso l’alto) dal 21,9% al 20,9%[7].

 

Si tratta di 1/5 della popolazione di questa fascia di età, circa 900.000 persone tra i 16 e i 24 anni. Questo dato è nettamente superiore alla percentuale media europea (EU15: 14, 9% e EU27: 17,6%) e alle percentuali che si registrano in paesi come la Germania (12,1%), il Regno Unito (14%), la Francia (12,6%). Inoltre i dati in nostro possesso non lasciano presagire che gli early school leavers italiani andranno a diminuire in futuro: si calcola che sono presenti, nel nostro paese, 39.740 ripetenti nella scuola media (2,3% del totale nel 2006), 93.747 interruzioni della scuola formalizzate o meno (il 6% di ragazzi e ragazze non valutati nelle scuole superiori) a cui si aggiungono 185.004 ripetenti nelle scuole superiori (il 6,9%). Di questo ultimo gruppo, il 16,1% sono ripetenti che frequentano un istituto professionale. Un ultimo gruppo di ragazzi e ragazze (il 7-10%) non si iscriveva neanche formalmente alla scuola superiore, dopo la terza media prima dell’attuale nuovo obbligo di istruzione e, dunque, verosimilmente, rientrerà tra coloro che sono considerati a forte rischio di early school leaving.[8] Il trend negativo trova riscontro anche quando consideriamo gli esiti della scolarità più a lungo termine: solo il 10% della popolazione italiana di età compresa tra i 15 e i 64 anni ha conseguito un titolo accademico (laurea o post-laurea), in particolare il 10,4% a Nord-Ovest; il 10,1% Nord-Est; il 12,1% al Centro e l’8,5% al Sud. I dati attuali appaiono avvalorare un problema da sempre presente nel sistema scolastico italiano, ed infatti sono in piena sintonia con quelli forniti dal censimento Istat 2001, che registrava come il 6,8% di tutta la popolazione in vita fosse priva di titolo di studio, il 26,4% avesse conseguito soltanto la licenza elementare, il 31,7% soltanto la licenza di scuola media inferiore.

 

 

 

Inoltre, è attestato che se si vive in situazione, territoriale e soprattutto familiare, di esclusione sociale, aumentano le probabilità di continuare a viverci attraverso le generazioni. E questo è marcatamente vero per quanto riguarda il grado di istruzione dei genitori: a un basso grado di istruzione dei genitori corrisponde, ovunque in Europa, una minore probabilità degli individui di terminare bene l’intero corso di studi superiore e l’università. In particolare è sempre maggiore, almeno del doppio, la probabilità per un individuo il cui genitore ha un alto livello di istruzione di completare bene l’intero corso degli studi se paragonata con la probabilità di un individuo il cui padre ha solo l’istruzione di base. Il rapporto cambia, tuttavia, da paese a paese: 2,1 volte per la Germania, 2,4 volte per il Regno Unito, 2,8 volte per l’Olanda, 3,3 volte per Spagna e Francia, 3,6 volte nella media EU25[9] e ben 7,7 volte per l’Italia, che sta meglio solo di Slovenia (8,0 volte), Ungheria (9,1 volte), Polonia (9,7 volte), Repubblica Ceca (11,0 volte).[10] I dati riguardanti l’indagine Pisa (Programme for International Student Assessment) 2003 confermano la medesima tendenza, mostrando che gli studenti italiani riescono o non riescono nella loro carriera scolastica sulla base del loro retroterra familiare, piuttosto che in considerazione delle proprie abilità individuali.[11]

 

 

 

***** *****

 

 

 

Tutti ‘sti ragazzini che lasciano la scuola. Che dire? Lo diceva già Don Milani… «il problema della scuola italiana sono i ragazzi che non ci stanno». È possibile che rimanga così? È solo qui? Credo, vedo di no, purtroppo. Francesca, intelligente ragazzina che era stata bocciata, però, tre volte in prima media; Antonio che aveva lasciato a metà la terza media per lavorare in un bar 12 ore al giorno a centodiecimila lire a settimana + mance; Luigi che sapeva giocare bene a pallone e aggiustava motorini ma stentava a leggere il “Corriere dello Sport” o “Tex”; Nunzia che era brava a scuola tanto che la docente di lettere la proponeva per le “Magistrali” ma che la scuola la stava abbandonando senza esitazioni perché era incinta, voleva un figlio nonostante tutto e doveva pure aiutare la mamma sola e agli arresti domiciliari; Carmine che aveva un vero talento per la matematica ma era incontenibile in classe… I genitori, tutti nati tra la fine degli anni Cinquanta e metà degli anni Sessanta, o non avevano finito o non erano proprio andati alle scuole medie inferiori.[12]

 

 

 

***** *****

 

 

 

Questo dato italiano, che ci viene sia da una ricerca voluta dalla Ue che da Pisa è assai impressionante, in negativo; e mostra come la nostra scuola, dai tempi di Don Milani è restata profondamente “di classe” e come non riesce davvero a essere leva di emancipazione e di mobilità sociale verticale.

 

È, del resto, un dato di cui abbiamo da molti anni amplissimo riscontro empirico nelle scuole e nei territori. Soprattutto in quelli poveri e in particolare nelle aree urbane del Sud. Inoltre, un’attenta elaborazione sempre dell’indagine Ocse Pisa sulle competenze degli studenti quindicenni ha rilevato la presenza di divari territoriali nelle competenze esibite dagli studenti, anche dopo aver tenuto sotto controllo la variabile legata al tipo di scuola secondaria superiore frequentata dagli studenti.[13]

 

Questo conferma l’evidenza fornita da migliaia di pratiche educative e di lotta all’esclusione sociale, che “ci racconta” ogni volta che lì dove è concentrata la povertà minorile è concentrato anche il fallimento formativo di massa. E la povertà minorile in Italia c’è, in modo stabile e concentrato, appunto, nelle aree metropolitane del Mezzogiorno – ma non solo – e comunque proprio nei territori dove si riscontra, con continuità nel tempo, una forte accentuazione dei fenomeni di dispersione e di fallimento formativo.

 

 

 

***** *****

 

 

 

10.070 mila persone residenti in Italia hanno meno di 18 anni

 

(media 2005-2006).

 

 

 

Oltre il 40% dei minori vive al Sud.

 

 

 

Poco più dell’88% vive con entrambi i genitori (in famiglie con un solo nucleo): nel 53% dei casi anche con un fratello, nel 17% con due e solo nel 5% dei casi convive con almeno tre fratelli. Nel Sud oltre il 28% dei minori vive con almeno due fratelli (2006).

 

 

 

Quasi l’8% vive con un solo genitore mentre un ulteriore 3% vive in famiglie con più nuclei.

 

 

 

Nel 2006, i minori poveri sono 1 milione 809mila, il 17% del totale dei minori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel Sud risiede quasi il 70% dei minori poveri, 1milione 245mila così divisi per gruppi di età[14]:

 

 

Anni

 

 

Italia

 

 

Sud

 

 

0 – 5 anni

 

 

18%

 

 

31,3%

 

 

6 – 10 anni

 

 

18,5%

 

 

34,4%

 

 

11 – 13 anni

 

 

15,1%

 

 

28,6%

 

 

14 – 17 anni

 

 

16%

 

 

28,4%

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Totale

 

 

17,1%

 

 

30,9%

 

 

 

***** *****

 

 

Il dato sulla mancata mobilità sociale verticale è un dato – e ciò appare un’aggravante – che non riusciamo, tuttavia, ancora a rilevare in modo certo e completo territorio per territorio. Infatti oggi abbiamo, presso il ministero della Pubblica istruzione, i dati sulle mancate iscrizioni, sugli abbandoni scolastici formalizzati e non formalizzati, sulle ripetenze e sulle ripetenze senza successiva ri-iscrizione a scuola; abbiamo i dati dei debiti formativi (il 35% degli ammessi al secondo anno di scuola superiore riporta debiti in materie fondamentali)[15] e quelli relativi alle promozioni, alla fine delle superiori, con il minimo dei voti.

 

Insieme questi dati definiscono le diverse forme dell’universo complesso che viene chiamato “fallimento formativo”. Sono dati scuola per scuola e comprendono scuole di base e scuole superiori. E dunque ricalcano le platee scolastiche entro micro-territori, in modo assai dettagliato. Ma le norme sulla privacy non consentono di avere presso le stesse scuole, al momento di iscrivere i figli, i dati dei genitori relativi a lavoro, reddito, grado di istruzione. È, dunque, difficile tracciare con certezza, zona per zona, scuola per scuola, il dettaglio della mancata funzione di discriminazione positiva del nostro sistema scolastico poiché noi conosciamo sì i dati sulle forze lavoro e sul reddito ma con un’approssimazione territoriale regionale o, al massimo, provinciale, che non può essere messa seriamente in relazione con i dati di dettaglio del MPI.

 

Per questa ragione la Cies (Commissione indagine esclusione sociale), nella sua prossima relazione 2008, fornirà una prima mappatura del fallimento formativo in Italia. Da questo si evince che i fallimenti a scuola si concentrano nelle aree del Mezzogiorno di massima esclusione sociale dove, a differenza che nelle regioni del Centro-Nord e in parte della Sardegna, non vengono compensati da iscrizioni alla formazione professionale, che sono fuori dalla scuola ma sono pur sempre parte, a pieno titolo, del sistema integrato scuola-formazione previsto dal titolo V della Costituzione. In altre parole, sappiamo che la formazione professionale compensa, in parte spesso significativa (anche se con variazioni regionali importanti) la caduta fuori dalla scuola, ma non ovunque e segnatamente non nel Mezzogiorno continentale e in Sicilia.

 

Si dovranno, dunque, reperire e studiare a lungo, territorio per territorio, tutti i nessi, plausibilmente bi-univoci, tra fallimento formativo e esclusione sociale. Ma vi è, come si vede, più di una ragione per poter affermare che in Italia chi non va a scuola resta escluso e la scuola è ancora di classe.

 

(L’Autore è insegnante elementare, fondatore del progetto Chance-Maestri di strada e membro della Commissione indagine esclusione sociale)

 

[1] Marco Rossi-Doria, dal diario personale di quartiere (2004, inedito)

 

[2] Cutler e Lleras-Muney (2006); Cannari e D’Alessio (2004), Cipollone, Radicchia, Rosolia (2006).
[3] Gallie e Paugam (2000); Schizzerotto (2002); Eurostat (2003 e 2004); Blossfeld e Hofmeister (2006); Lucchini, Saraceno, Schizzerotto (2007).
[4] Ciccone, Cingano, Cipollone (2005)
[5] Ocse (2006)
[6] Barbieri, Cipollone (2007)
[7] Dati ministero Pubblica istruzione
[8] Dati ministero Pubblica istruzione
[9] senza Bulgaria, Malta e Romania
[10] Tabella Eurostat – Eu-SILC, EU Social situation report 2007
[11] Checchi e Flabbi (2006)
[12] Marco Rossi-Doria, dal diario personale di quartiere (1997, inedito)
[13] Checchi (2004)
[14] Istat
[15] Dati ministero Pubblica istruzione, 2006

 

Testi citati nell’articolo

 

 

Barbieri, G., Cipollone, P., (2007). “I Poveri di Istruzione”. In A. Brandolini, C. Saraceno, (a cura di) Povertà e Benessere, una geografia delle disuguaglianze in Italia, Il Mulino: Bologna.

 

Blossfeld, H.P., Hofmeister, H., (a cura di) (2006). Globalization, Uncertainty, and Women Careers: An International Comparison, Cheltenham, UK and Northampton, MA, USA: Edward Elgar.

 

Cannari, L., D’Alessio, G., (2004). Condizioni socio-economiche e mortalità, Banca d’Italia, mimeo.

 

Checchi, D., (2004). “Da dove vengono le competenze scolastiche? L’indagine PISA 2000 in Italia”, in “Stato e Mercato”, 72, 413-453.

 

Checchi, D., Flabbi, L., (2006). “Mobilità intergenerazionale e decisioni scolastiche in Italia”, in G. Ballarino e D. Checchi (a cura di), Scelte individuali e vincoli strutturali. Sistema scolastico e disuguaglianza sociale. Il Mulino: Bologna.

 

Ciccone, A., Cingano, F., Cipollone, P., (2005). The Private and Social Return to Schooling in Italy, “Giornale degli Economisti e Annali di Economia”, anno 117, 63,n. 3/4.

 

Cipollone, P., Radicchia, D., Rosolia, A., (2006). The Effect of Education on Youth Mortality, Banca d’Italia, mimeo.

 

Cutler, D.M., Lleras-Muney, A., (2006). Health Effects of Non-Health Policy, presentato al National Poverty Center Conference

 

(http:// www.npc.umich.udu/news/events/healtheffects_agenda/).

 

Eurostat, (2003, 2004). European Social Statistics: Labour Force Survey, Office for official publications of the European Communities: Luxembourg.

 

Gallie, D., Paugam, S., (a cura di) (2000), Welfare Regimes and the Experience of Unemployment in Europe, Oxford: Oxford University Press.

 

Lucchini, M., Saraceno, C., Schizzerotto, A., (2007) Dual career couples in contemporary Italy.

 

Ministero della Pubica Istruzione (2006), La scuola in cifre 2006.

 

http://www.pubblica.istruzione.it/mpi/pubblicazioni/2007/scuola_in_cifre.shtml

 

Ocse, (2006). Rapporto nazionale PISA per l’Italia.

 

Schizzerotto, A., (a cura di) (2002). Vite ineguali. Il Mulino: Bologna.