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Stranieri a scuola, seconda generazione

08/07/2008

Il 72% degli iscritti "stranieri" ai nidi è nato in Italia. La stretta italiana sull'immigrazione e le attese degli immigrati sull'istruzione alla prova dei fatti

Qualche settimana fa, in una scuola media romana, un gruppetto di allieve di origine straniera ha chiesto alla preside se avrebbero potuto anche loro sostenere l’esame di licenza e poi frequentare l’istituto superiore che hanno scelto. Una brutta talpa sta già scavando gallerie di paura.
E’ probabile che anche nella scuola si debbano presto fare i conti con la stretta sull’immigrazione. Forse non con decisioni istituzionali esplicitamente avverse ma con il clima inquinato dai veleni che la criminalizzazione – anche se ufficialmente circoscritta ai soli immigrati non regolarizzati – finirà certo col disseminare. Finora, in verità, sono stati sotto botta solo asili nido e scuole per l’infanzia di comuni del Nord. Storie ignobili di punteggi maggiorati per i bambini italiani purosangue o addirittura, come a Verona, per i figli di regolarmente sposati, non separati e non divorziati: indizio chiaro, quest’ultimo, dei mostri che può generare il sonno della civiltà. Ma nella scuola, quella fondata su un diritto allo studio che, secondo Costituzione, non ammette eccezioni, le cose finora sono andate in modo assai diverso. Non del tutto impeccabile (nel 2007 sono 574.108 gli studenti di origine straniera, mentre i minori residenti – compresi però i 150.000 troppo piccoli per andare a scuola - sono più di 800.000); non sempre rispettoso delle regole (è frequente, per esempio, che gli stranieri vengano iscritti in classi inferiori a quelle rispondenti alla loro età); e non sempre – ovviamente – capace di compensare le difficoltà linguistiche o di altro tipo (l’ insuccesso scolastico, rispetto a quello degli studenti italiani, è maggiore di tre volte nella primaria, di oltre quattro volte nella media, di due volte nella superiore). Ma l’"accoglienza” c’è, le iscrizioni crescono del 10-11% ogni anno, e con un trend particolarmente vivace nella scuola superiore: un processo che, sebbene connotato da segregazione formativa (pochi stranieri nei licei, quasi tutti nei tecnici e nei professionali), segnala che la stabilizzazione della popolazione immigrata comincia a portare con sé anche la scommessa, con l’investimento in istruzione per le figlie e per i figli, di una piena integrazione e di una futura mobilità sociale. Una scommessa tanto più convinta quando i genitori vivono lo scarto tra il possesso di titoli di studio di livello medio-alto (sono più del 40% gli adulti con diplomi e lauree, soprattutto provenienti dall’est europeo ed asiatico) e le condizioni di lavoro attuali, e comunque diffusamente interiorizzata dai figli. Lo avvertono bene anche gli insegnanti che raccontano storie di grande determinazione degli studenti di origine straniera e di forte impegno nello studio, anche quando – cosa tutt’altro che rara – lavorano nelle attività della famiglia o in proprio. Tutta un’altra realtà, almeno per il momento, rispetto alla scarsa motivazione e alla sfiducia nel valore dei titoli di studio così diffuse tra gli studenti italiani.

 

Ma problemi ce ne sono stati e ce ne sono, soprattutto negli istituti dove la presenza degli studenti stranieri supera una certa soglia. Se il suo valore medio nazionale, infatti, è ancora solo del 6,8% (5,7% nella materna, 7% nel ciclo di base, 3,6% nella superiore), nel Nord e in alcune aree del Centro si corre verso e oltre il 10%. I picchi sono nelle province di Mantova (14%), Prato (13,5%), Piacenza (13,2%), nei comuni di Milano (14,2%), Alessandria (13,9%), Torino (12,6%), Reggio Emilia (13%). Con concentrazioni anche oltre il 20% in numerosi piccoli comuni del Veneto, dell’Emilia, della Lombardia, dell’Umbria. Ci sono scuole dove gli studenti non italiani – qualche volta tutti di una sola nazionalità come i cinesi a Prato, di solito con decine di nazionalità e lingue familiari diverse - sono il 50-60% del totale. E capita spesso che le famiglie italiane queste scuole le disertino o minaccino di disertarle perché temono effetti negativi sull’apprendimento dei loro figli o, peggio, perché ingombri di pregiudizi culturali e sociali. Ma ci sono primi segnali di scontento e di inquietudine per le scuole “troppo” multietniche anche tra le famiglie straniere. Una miccia esplosiva nei contesti più insofferenti, che in effetti in più casi è esplosa, ma in modi finora circoscritti e quasi sempre rimediabili. Ci sono storie esemplari di scuole che sono state capaci, con il sostegno decisivo dei Comuni e dell’associazionismo, di passare in poco tempo dalla condizione di “scuole-ghetto” a quella di centri scolastici di eccellenza, veri e propri presìdi di accoglienza, incontro, integrazione nei loro territori, e quindi di nuovo ricercate e richieste dalle famiglie italiane.

 

Ma non è sempre così, e non è affatto detto che gli equilibri finora realizzati possano tenere anche in futuro. Il punto debole non è negli insegnanti che, oltre ad apprezzare gli effetti positivi delle nuove presenze sulla loro stabilità occupazionale, stanno poco alla volta impadronendosi degli strumenti professionali e delle tecniche organizzative necessarie a gestire le maggiori difficoltà. E’ indubbio d’altra parte che nelle scuole per l’infanzia e di base, siano gli aspetti più teneri e promettenti dell’immigrazione quelli con cui si entra in contatto: e comunque – ricetta infallibile contro il razzismo – non le generalizzazioni si incontrano ma le singole persone. Il punto debole sta invece nelle tensioni che dal territorio, il luogo più difficile per la convivenza, possono dilagare fin nelle aule scolastiche. E qui ci sono rischi veri e seri: perché, anche prima della recente ventata securitaria e anche indipendentemente dagli effetti culturali che potranno derivare delle politiche di chi governa, non ci sono state finora nel paese influenti culture politiche capaci di misurarsi con l’immigrazione come un fenomeno strutturale, una risorsa vera – e necessaria in un paese che invecchia - , e non solo come un problema. Ora da esorcizzare con insulsi messaggi buonisti ora da mettere sotto controllo con il pugno di ferro; mai, comunque, da trattare con concrete e lungimiranti politiche di integrazione e di cittadinanza.

La parte più consapevole del mondo della scuola queste cose le conosce bene. Non solo perché ha dovuto imparare pressoché da solo come fronteggiare la nuova realtà in assenza di politiche nazionali adeguate alle nuove complessità, ma soprattutto perché deve continuamente convincere con le parole e con i fatti le famiglie italiane che avere uno straniero per compagno di banco non solo non produce svantaggi ma può favorire crescita culturale, apertura al vasto mondo, plurilinguismo, modernità. Quello che serve, insomma, nel mondo di oggi e di domani. E deve anche insegnare ai ragazzi come si fa a superare i pregiudizi, a vivere insieme e a collaborare, a contare gli uni sugli altri, a riconoscersi eguali anche se per certi aspetti si è diversi. L’educazione a una nuova cittadinanza in un paese che non riconosce come cittadini neppure i piccoli nati in Italia? Un compito già oggi complicato, che potrebbe diventare molto più difficile e che comunque non può essere il nostro, per altri versi scassatissimo, sistema scolastico a gestire. Controcorrente, e da solo. Sarebbe dunque necessario, quanto meno, che l’opinione pubblica sapesse che nella scuola, l’immigrazione non è un’emergenza o che lo è sempre di meno. Che le maggiori criticità, quelle determinate dall’arrivo in corso d’anno anno di “minori ricongiunti” disorientati e senza una parola di italiano, riguardano non più di 40-50.000 ragazzi l’anno (che, peraltro, con non troppe risorse e buona professionalità, si possono inserire presto nelle aule senza danno ). Che nelle nostre scuole sta crescendo una generazione di nati in Italia (il 72%, quest’anno, dei bambini stranieri iscritti alle scuole per l’infanzia) che sanno l’italiano più o meno come i nostri e che, proprio come i nostri, corrono dietro a calciatori, cantanti e veline, trangugiano enormi quantità di televisione, usano ipod e computer. Che molti di loro vogliono, attraverso la scuola, diventare tecnici, ingeneri, medici, infermieri e che in tanti ci riusciranno. E infine che, per la qualità stessa della nostra vita civile e della nostra democrazia, sarebbe importante e intelligente non deluderli.

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