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Economia, la paura della complessità

24/11/2009

La crisi e le responsabilità degli economisti: i nessi non spiegati e quelli non visti. Vuoti da riempire, per riaprire un dibattito sulle teorie e sulle politiche economiche

Provo nell’articolo a spiegare (anche a non economisti, chiedendo loro tuttavia un notevole sforzo concettuale) quali siano i vuoti, annidati nelle teorie economiche prevalenti, ignorando i quali il dibattito sulla crisi rischia di divenire banale. Riprendo e sviluppo spunti annegati in contributi spesso oggetto di omaggio ma sostanzialmente ignorati (da Böhm Bawerk a Wicksell, Hayek, Hicks, Robertson, Lerner). Si tratta di interrogarsi su temi quali le fonti di creazione di moneta e titoli, il ruolo del tempo cronologico nella produzione e nei contratti, la pretesa eguaglianza tra risparmi monetari e investimenti produttivi, il ruolo della ricchezza non direttamente connessa alla produzione corrente (titoli di vecchia emissione, immobili, ecc.), il senso di prescrivere politiche imperniate sui saldi del bilancio pubblico prescindendo dalla sua struttura e dalle modalità, spesso oscure ai più, del suo finanziamento. In questa sintesi - la versione completa del paper "La crisi e le responsabilità della teoria economica: la paura della complessità" si trova qui - tratto prima gli aspetti monetari, poi quelli produttivi, infine le implicazioni.

Moneta, risparmi, ruolo degli stock improduttivi

La crisi ha origine nella crescita giudicata eccessiva dei valori di cose che “già esistono” (case, titoli finanziari). A monte non può che esservi una crescita del combustibile della moneta. Si tratta comunque di una forma di inflazione. Al contrario dell’inflazione che riguarda il flusso delle merci e dei servizi, considerata un male, quella che interessa i valori monetari della ricchezza è data per buona da politici e, con euforia eccessiva, dai media. Paradossalmente la teoria economica raramente si interessa di ricchezza già prodotta, quanto meno a livello sistemico. Di qui due interrogativi. Il primo è “da chi e come viene creata moneta?” Il secondo riguarda la pretesa eguaglianza tra risparmi e investimenti reali: se davvero fossero eguali come si spiega la massa di danaro/risparmio che va ad acquistare ricchezza improduttiva?

Quanto al primo interrogativo, trascurando allegorie irrealistiche (la manna dal cielo), la letteratura propone fonti esogene (Keynes della Teoria Generale, con le operazioni sul mercato aperto in cui si scambiano titoli e moneta) ed endogene (ad es. Wicksell, con moneta creata dal sistema creditizio). Nel primo caso non si spiega l’origine dei titoli, che vengono supposti dati; ma se, quando nel breve periodo i titoli vengono comprati, si immette moneta, quando emessi (nel passato) la si è sottratta. Non si spiega dunque come cresca la moneta al crescere dell’economia.

Anche nel caso di Wicksell vi sono problemi: il circuito da lui immaginato, con la moneta che si crea ad inizio periodo per finanziare le esigenze produttive e si estingue alla fine del periodo, non funziona. Il circuito non si “chiude” se non in casi limite (Graziani, Messori ed altri), tanto che Graziani ipotizza (a ragione) che quanto manca per chiudere il circuito debba (e non “possa”) essere fornito dal deficit pubblico, ovvero (possibilmente a torto) che i risparmi monetari delle famiglie siano trasferite alle imprese. La quantità di risparmio trasferibile alle imprese è infatti limitata, come le teorie della crescita hanno implicitamente evidenziato (e con ciò passo al secondo interrogativo); in una economia che non cresce il risparmio dovrebbe essere nullo e le imprese dovrebbero autofinanziare per intero i propri investimenti, meramente riproduttivi. E’ invece diffusa l’idea sbagliata, suggerita da approcci statici, che il risparmio non possa che andare alle imprese, mentre tale trasferimento ha senso solo nella misura degli investimenti per la crescita (ovvero, ma con qualche problema, per l’innovazione). Esso può invece essere minore o, più plausibilmente, maggiore di tali investimenti.

La mancata inclusione degli acquisti di stock improduttivi nelle analisi sistemiche deriva da ciò e dal fatto di non avere preso in considerazione il fatto che gli impieghi improduttivi di danaro possano essere lucrosi; lo sono, invece, attraverso i capital gains e possono spiazzare gli investimenti produttivi. Ma la domanda di stock improduttivi può alimentarsi anche del credito. La propensione ad orientare il danaro, proprio o preso in prestito dalle banche, verso gli stock improduttivi, rinforza, in certe congiunture, l’aumento del loro valore (Minsky). La stessa BCE offre implicitamente evidenza di alimentare la domanda di stock quando, senza effetti sull’inflazione dei flussi di merci e servizi, crea base monetaria in eccesso rispetto alla somma tra tasso di crescita e tasso di inflazione.

Decisioni produttive e tempo

Produrre prende tempo. Gli input devono essere ultimati prima di consentire produzioni ulteriori. La produzione di macchine e impianti richiede di solito un tempo multiplo di quello che serve per produrre beni di consumo. Nel sistema in ogni momento sono dunque lavorati, con l’ausilio di macchine, beni capitali in processo, prodotti con ciò che si può chiamare lavoro indiretto, accanto alla lavorazione di beni in consumo, prodotti da lavoro diretto. Ciascun tipo di lavorazione richiede tecnologie e macchine specifiche, che durano nel tempo ma sono l’eredità di decisioni e costi occorsi nel passato. Per quanto produciamo oggi siamo dunque debitori nei confronti di produzioni fatte nel passato; un debito che possiamo restituire solo decidendo oggi di produrre cose che saranno produttive nel futuro. Si garantisce così la continuazione del sistema. Questa constatazione, evidenziata da oltre un secolo da un trascurato Böhm Bawerk e che pone alla ribalta l’esigenza di lungimiranza (in contrapposizione alle opzioni di guadagno a breve e brevissimo termine), ha molte conseguenze.

Le decisioni su quanto produrre nel periodo corrente, ancorché privilegiate dai modelli economici prevalenti, sono relativamente banali; quelle del prezzo a cui vendere sono poco più che un arsenale di strategie commerciali, miranti a saturare la capacità esistente senza rompere collusioni.

Sono le decisioni sulla capacità futura quelle delicate e strategiche; delicate perché non possono essere prese sulla base di aspettative sui prezzi che prevarranno in un futuro relativamente lontano, ma solo in termini meramente quantitativi; strategiche perché da esse dipende il nostro futuro, un futuro che è da esse creato.

Esse sono sensibili ai segnali proiettati dalle autorità di policy, le cui aspettative annunciate tendono ad indurre risposte coerenti e quindi meccanismi di autorealizzazione. Esse si alimentano di rassicurazioni (Richardson), sono negativamente sensibili a fattori di instabilità, anticipano le reazioni negative della politica monetaria alle tensioni sui prezzi.

Ma le tensioni sui prezzi sono fisiologiche quando si accelera la crescita, perché o occupazione, monte salari e domanda aumentano, ma non la produzione corrente di beni di consumo, ovvero occupazione, monte salari e domanda restano invariati ma la produzione di beni di consumo diminuisce (Hicks, indirettamente). Ciò succede perché il rapporto tra lavoro indiretto, funzione della più alta produzione futura, e lavoro diretto, funzione della produzione corrente, aumenta. Si ha dunque in ogni caso un eccesso di domanda, che crea tensioni o sui prezzi o sulla bilancia commerciale. Le tensioni vi sono anche quando si costruiscono innovazioni, perché anche in questo caso il rapporto tra lavoro indiretto e diretto aumenta.

In conclusione, i fenomeni inflazionistici non hanno una sola origine. Reprimerli indiscriminatamente può far abortire accelerazione della crescita e innovazioni.

Implicazioni

Il gap di domanda dovuto a eventuali risparmi monetari eccedenti gli investimenti reali va comunque sistematicamente rifinanziato.

Il credito all’acquisto di stock non connessi alla produzione può alimentare la domanda via effetti ricchezza e via spesa di parte dei capital gains. Si tratta tuttavia di un fenomeno aleatorio e che incide negativamente sulla giustizia distributiva.

Più affidabile appare il deficit pubblico, purché non associato alla collocazione di titoli presso i privati (che sottraggono moneta), bensì, contrariamente alle idee prevalenti, monetizzato dalle banche centrali. Non si tratta tuttavia di un ritorno alla finanza anticiclica keynesiana; il deficit deve essere invece associato a programmi di lungo respiro, che offrano alle imprese un quadro espansivo affidabile che le induca a sviluppare capacità produttiva e innovazioni.

Un compito che potrebbe essere connesso per noi ad un programma di sviluppo comunitario associato all’obbligo, per la BCE, di finanziare in deficit (monetizzato) la parte di spesa pubblica connessa a tale programma. Corollario importante di una tale svolta sarebbe la costituzione di una Autorità responsabile delle politiche produttive in Europa, che bilanci il ruolo della BCE.

Si tratta infatti di un ruolo divenuto troppo egemone, non solo sul piano delle politiche (con i governi nazionali imprigionati da un Patto di Stabilità eccessivamente rigido, che pone l’Europa in una condizione di inferiorità rispetto agli altri grandi poli della competitività mondiale, più attrezzati sul piano delle politiche industriali e commerciali) ma anche sul piano culturale, grazie ai notevoli sforzi dei soggetti delle banche centrali nell’attrezzarsi sul piano del capitale umano.

Il punto è tuttavia che l’affermarsi di una sorta di pensiero unico non è salutare.

L'autore ha qui presentato una sintesi del lavoro "La crisi e le responsabilità della teoria economica: la paura della complessità", pubblicato sui Papers del Dipartimento di Economia

 

 

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