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Federico Caffè, un “economista di frontiera”
Il centenario della nascita dell'economista che denunciò l’uso strumentale che la struttura oligopolistica del potere può fare dell’informazione economica. Due esempi della sua attualità
Federico Caffè nacque a Pescara il 6 gennaio 1914 e decise di scomparire nella notte tra il 15 e il 16 aprile del 1987 dal suo domicilio di Roma. Purtroppo, spesso, viene ricordato più per quella sua scelta che per il suo alto ed impegnato contributo scientifico ed etico.
Un impegno che si è sviluppato in molteplici attività. Da quella di civil servant come componente del Servizio studi della Banca d’Italia a stretto contatto con l’allora Governatore Menichella, poi con Einaudi ed infine con Guido Carli che lo considerò “il più grande economista italiano del suo tempo”. Partecipò alla Resistenza non combattente e fece parte della commissione sindacale della Banca d’Italia. Fu il principale collaboratore di Meuccio Ruini, prima ministro dei lavori pubblici nel secondo governo Bonomi e poi della Ricostruzione con il governo di Ferruccio Parri. Partecipò inoltre alla Commissione economica del ministro per la Costituente, presieduta da Giovanni De Maria. Ma si dedicò presto interamente alla ricerca scientifica, all’insegnamento di Politica economica e alla sua funzione di “consigliere del cittadino”.
A Londra per una borsa di studio, seguì, con partecipata adesione, la nascita del welfare state sotto il governo laburista di Clement Attlee e approfondì le teorie di J.M. Keynes che avevano ormai conquistato il pensiero economico angloamericano.
Un pensiero che Caffè diffuse in Italia non senza forti resistenze, soprattutto dal mondo accademico attardato nelle teorie liberiste. Ma non pienamente accettato nemmeno dagli ambienti di sinistra. I quali preferirono assegnare priorità alla tattica politica rimandando quelle riforme - che altri paesi occidentali peraltro stavano realizzando – a dopo la sperata vittoria alle elezioni politiche che, come è noto, non si realizzò. Sulle occasioni mancate di riforma, pur nei momenti di maggior forza da parte delle sinistre, preoccupate spesso di non spaventare i ceti medi, Caffè tornò recriminando più volte. Importante la sua collaborazione con il movimento cattolico di Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira, il “loro più autorevole economista”, scrisse Leo Valiani. Come è noto gli esponenti di quel movimento svolsero un ruolo determinante nella definizione della Carta Costituzionale.
Caffè ha curato opere di grandi economisti come Luigi Einaudi, Francesco Saverio Nitti e Francesco Ferrara. Ha sprovincializzato la cultura economica italiana traducendo e facendo tradurre numerose opere di economisti stranieri e inviato all’estero centinaia di borsisti nella sua veste di direttore dell’Ente “Luigi Einaudi”.
Stimato consigliere di Enrico Berlinguer, amico anche critico dei sindacati, declinò l’offerta di entrare alla Camera nel gruppo degli indipendenti di sinistra per continuare a dedicarsi interamente all’insegnamento e fornire strumenti di valutazione critica e consapevole della realtà.
Uno scopo non dissimile si ritrova nell’impegno di Caffè pubblicista nel fornire una corretta informazione economica e sociale (1). Scritti che non rappresentano certo una parte secondaria della sua produzione intellettuale. Denunciò sempre la “non politica per la piena occupazione”. Nel fallimento del mercato, spettava soprattutto allo Stato il ruolo di “occupatore di ultima istanza”; di occupazioni utili che mancavano e non mancano di certo.
Caffè è stato un “economista di frontiera”. Era consapevole che l’economia dovesse confrontarsi con le altre discipline sociali. La “poliedricità” umana e sociale pone inevitabili discontinuità epistemologiche per la sua migliore comprensione. Criticava “la tendenza a ridurre l’economia ad una ‘mezza scienza’, considerandone esclusivamente i rapporti tecnologici ed eliminando dal quadro gli aspetti soggettivi e psicologici trasformando [così] la scienza economica in un sistema più o meno elaborato di contabilità”. Era immune dall’addebito che J. Le Goff muove agli storici per una loro scarsa consapevolezza storica. Caffè, era infatti convinto che “la scienza deve originare dalla storia e ad essa tornare senza risolversi in essa”.
Ma in più aveva la virtù della “compassione”, nel senso di “patire con”; da cui la sua elevata sensibilità che gli faceva presentire i più pressanti problemi umani e sociali; e non mancava di proporre le “possibili” soluzioni, in risposta a “le attese della povera gente” (Cfr. Giorgio La Pira). “Sentiva crescere l’erba sotto i piedi”, diceva Giulia, la sua amata tata.
Appartiene al genuino pensiero keynesiano l’impegno a risolvere “in un modo o in un altro” (Cfr. R. F. Harrod), i maggiori difetti del capitalismo che sono la “mancata piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua del reddito e della ricchezza”. Come anche la necessità di operare non solo sulla domanda – e con il deficit spending in una situazione di risorse inoccupate - ma anche sull’offerta (Cfr. L. Klein), per rispondere, oggi soprattutto, alla sfida di cosa, come e per chi produrre. Da cui la ripresa di un minimo di programmazione democratica.
Ecco, tra i tanti, due esempi della sua permanente attualità.
In un famoso saggio sull’“allarmismo economico”, Caffè denunciò l’uso strumentale che la struttura oligopolistica del potere può fare e solitamente fa dell’informazione economica. L’abbiamo visto all’opera con lo spread e la minaccia terroristica dei mercati, per imporre politiche antisociali. Ma c’è un uguale strumentalizzazione per nascondimento o sottovalutazione come ad esempio è avvenuto recentemente con il fiscal compact (2).
Avvertiva il sindacato e la sinistra di non farsi costringere in strutture e sistemi che riducessero di fatto le sue reali possibilità di azione. Che, non da oggi, ci vengono dal “sistema Europa”, nei suoi elementi di assurdità economica e persino di illiceità come argomenta l’illustre giurista Giuseppe Guarino (Cfr. www.giuseppeguarino.it). Con riferimento alle norme scritte dalla tecnocrazia europea che impongono il pareggio di bilancio e ci dettano i programmi, contro lo spirito e le stesse norme dei Trattati europei che hanno valore giuridico prevalente. Oltre alle gravi conseguenze economiche e sociali per i paesi e per le aree più deboli come il nostro Mezzogiorno, l’intera eurozona è entrata in depressione dall’adozione della moneta europea per le norme deflazionistiche prima ricordate. Deflazione che non è “risanatrice” (come vorrebbero i neoliberisti), né, in tale contesto, la “distruzione” è “creatrice” (con riferimento improprio a Schumpeter). Caffè era convinto che l’Europa fosse il “nostro destino e il nostro futuro”, ma che l’adozione della moneta unica dovesse essere la conclusione finale di un processo di convergenza reale. In tale contesto lo stesso Piano del lavoro della Cgil rischia di rimanere una testimonianza di quello che si sarebbe dovuto fare, la stessa sorte del Piano di Giuseppe Di Vittorio che vide la luce a equilibri ormai consolidati in senso conservatore, come commentò amaramente Caffè.
Ma c’è un più grave problema di democrazia. Quando eleggeremo i parlamentari, questi voteranno un governo che avrà la libertà solo di smantellare di più lo stato sociale, privatizzare un po’ di più, di peggiorare le condizioni di lavoro (di chi ancora l’avrà). Uno svuotamento sostanziale della nostra Costituzione. E persino, forse, una sua violazione quando all’art 11 si legge: [L’Italia] consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Insieme al suo amico Bruno De Finetti - un genio matematico del 900 – rivendicava la libertà dell’Utopia senza sottrarsi al coraggio del riformismo anche radicale che opera sulla realtà contingente. Una bella conferma della prevalente importanza del tempo sullo spazio affermata nella recente enciclica di Papa Bergoglio. Il tempo lungo dell’Utopia in cui preferiremmo vivere ci aiuta ad allargare l’angustia dello spazio attuale in cui viviamo, e ci illumina la direzione. Federico Caffè, che rifuggiva dall’angustia delle parrocchie culturali e di scuola, penso che entrerebbe ben volentieri, insieme ai suoi veri amici, nei “cosiddetti nuovi areopaghi dove: credenti e non credenti possono dialogare su temi fondamentali dell’etica, dell’arte della scienza, e sulla ricerca della trascendenza” (Cfr. Evangelii Gaudium”). Anche per meglio contribuire a definire i “requisiti per un sistema economico accettabile in relazione alle esigenze della collettività” (Cfr. Bruno De Finetti). Che rimane il compito principale di un’economia che si consideri civile.
(1) Scritti pubblicistici raccolti in gran parte in Scritti quotidiani, Il Manifesto (2007), per la sua collaborazione a quel giornale; Contro gli incappucciati della finanza, Castelvecchi (2013), per la sua collaborazione a “Il Messaggero” di Roma e a “L’Ora” di Palermo; e La dignità del lavoro, Castelvecchi (2014), per la sua collaborazione a riviste sindacali e a “Cronache sociali” , la rivista del movimento dossettiano. Di recente la Studium ha meritoriamente ripubblicato L’Economia contemporanea e Economia senza profeti.
(2) Anche su sua ispirazione La Fondazione Giuseppe Di Vittorio e La facoltà di Scienze della comunicazione hanno in corso un programma di ricerca per analizzare il trattamento di alcuni temi rilevanti di economia e finanza da parte dei media.
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