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Stati Uniti, una crisi senza confini
Le analogie con la crisi giapponese degli anni '90, le tentazioni della strada svedese: nazionalizzazione delle banche. Mentre Obama già è a corto di risorse
Man mano che la crisi avanzava, molti commentatori, negli ultimi mesi, per cercare anche di capire i possibili sviluppi futuri della stessa, si sono sforzati di individuare analogie e differenze con quella degli anni trenta. Ma ora comincia ad insinuarsi il dubbio che, alla fine, può essere altrettanto, se non più, utile cercare di capire cosa è successo in Giappone a partire dalla fine degli anni ottanta e fare gli opportuni confronti in tale direzione; qualcuno, secondo me a ragione, inizia anche a pensare che la crisi statunitense abbia rilevanti probabilità di trascinarsi a lungo, come a suo tempo quella del paese asiatico. Lo stesso riproporsi nel gennaio 2009 di grandi difficoltà per alcune grandi banche statunitensi, come anche britanniche, indica che siamo ancora ben lontani da una parvenza di soluzione anche soltanto sul fronte finanziario. E la nuova amministrazione Obama, già nel secondo giorno del suo insediamento, sembra per il momento non aiutare ad affrontare il problema seriamente; in effetti, il nuovo segretario al Tesoro, T. Geithner, ha, stupidamente secondo noi, dichiarato davanti al Congresso, il 22 gennaio, che il renmimbi è “manipolato”.
Diversi commentatori giapponesi hanno da tempo suonato il campanello d’allarme, riconoscendo nelle difficoltà in atto negli Stati Uniti molte similitudini con le esperienze già vissute dal loro paese; ma, all’inizio, in occidente molti tendevano ad affermare che non poteva andare a finire allo stesso modo, se non altro perché l’esperienza del paese asiatico era stata studiata ed assimilata ed era anche chiaro dove i giapponesi avevano sbagliato. Ciononostante, i dubbi crescono di giorno in giorno, come è dimostrato, tra l’altro, da alcuni commenti anche autorevoli apparsi nei media nelle ultime settimane (Roach, 2009, Wolf, 2009, Stiglitz, 2009 e, da parte giapponese, Koo, 2008).
Ricordiamo che l’economia giapponese ha cominciato a perdere colpi a partire dal 1990; essa non è più sostanzialmente cresciuta sino al 2002-2003, ma i modesti tassi di sviluppo che si sono successivamente registrati si sono poi arrestati con la nuova crisi. Ora le esportazioni stanno crollando, il livello del pil dovrebbe essere rimasto fermo nel 2008, mentre nel 2009 esso dovrebbe scendere in misura rilevante. Il Nikkei, che aveva raggiunto alla fine del 1989 il livello di 40.000 punti, ha perduto successivamente più dei tre quarti del suo valore; dopo una certa ripresa, nel 2008 ha di nuovo ceduto circa il 42% rispetto all’inizio dell’anno, collocandosi intorno agli 8.300 punti.
Incidentalmente, il caso giapponese – ma non è l’unico - mostra, attraverso le cifre appena citate, la fallacia della teoria secondo la quale nel lungo termine i rendimenti dei titoli azionari superano immancabilmente quelli delle obbligazioni e dei titoli di stato, risultando alla fine il migliore possibile impiego del denaro.
Il sistema bancario del paese è passato attraverso una ristrutturazione lunga e penosa, mentre il livello del debito pubblico è aumentato sino a circa il 180% del Pil, la percentuale di gran lunga più elevata tra quelle di tutti i paesi sviluppati. Si vanno analizzando quindi le analogie tra il caso giapponese e quello statunitense. Ambedue le economie hanno sofferto dello scoppio di due bolle, di quella immobiliare e di quella azionaria il Giappone, di quella immobiliare e del credito gli Stati Uniti; in ambedue i casi ci si è trovati di fronte ad una gravissima crisi bancaria, derivante dall’esistenza nei due casi di regole deboli e di scarsi controlli, di politiche errate della banca centrale, di pesanti errori nei sistemi di gestione del rischio. Poi le due crisi finanziarie hanno infettato l’economia reale.
Per molti gli Stati Uniti avrebbero dei vantaggi rilevanti sul Giappone, quali ad esempio il fatto che le imprese non finanziarie Usa, al contrario a suo tempo di quelle giapponesi, non sono indebitate in maniera troppo spinta e quello che nel caso statunitense il riconoscimento delle perdite da parte del sistema finanziario è arrivato molto prima (Wolf, 2009).
Una differenza significativa sarebbe per molti costituita dal fatto che gli americani hanno individuato per tempo i problemi e invece di trascinare a lungo la crisi delle banche sono intervenuti prontamente, iniettando molte risorse prima nel sistema finanziario e ora anche sul fronte reale con il piano Obama. Ma, d’altro canto, al momento della crisi giapponese, l’economia del resto del mondo appariva abbastanza in salute e tale da poter sostenere le esportazioni giapponesi, attutendo così la caduta; oggi il mondo intero è in recessione, mentre gli Stati Uniti, al contrario del Giappone di allora, è un paese in deficit commerciale e insieme con un alto livello di debiti anche verso l’estero (Wolf, 2009).
Ma gli interventi in atto negli Stati Uniti potrebbero non essere sufficienti. Alle origini della crisi stanno nel caso statunitense le difficoltà delle famiglie, che, avendo spinto troppo negli anni passati sul fronte dei consumi indebitandosi a dismisura, ora, almeno per un certo numero di anni, saranno impegnate a ridurre i livelli di indebitamento, frenando così una eventuale ripresa dell’economia. Ora il Pil Usa è costituito per il 70% proprio dai consumi, mentre nel caso giapponese la bolla era indotta da un boom negli investimenti, che rappresentavano una parte molto più ridotta del Pil del paese (Roach, 2009).
Cosa possono fare gli Stati Uniti per evitare di diventare un altro Giappone? E’ quanto si chiede lo stesso S. Roach ( Roach, 2009) e la sua risposta è che non c’è in realtà molto da fare. Certo il piano di Obama potrà alleviare la situazione, ma esso non riuscirà a risolvere del tutto il problema. Così, una recessione lunga è un’eventualità con molte probabilità di verificarsi.
Ma vediamo a questo punto meglio la situazione a livello finanziario e a livello dell’economia reale.
Il fronte finanziario e il caso svedese
La crisi bancaria si trascinerà per anni come in Giappone o è meglio operare un taglio netto e arrivare rapidamente ad una soluzione drastica, che peraltro non sarà certo indolore? Probabilmente è la stessa tragicità della situazione dei bilanci delle banche statunitensi, come del resto di quelle inglesi, che imporrà alla fine come forse inevitabile la piena e totale nazionalizzazione dei due sistemi e/o l’accollo da parte dei due governi, in una bad bank, di tutti i titoli tossici. Prima lo si farà meglio sarà. Qualcuno (si veda ad esempio Wood, 2009) evoca a questo proposito il caso svedese dei primi anni novanta, nel quale il sistema bancario venne appunto totalmente statizzato, i precedenti azionisti cancellati, il management esistente sostituito, le politiche delle banche totalmente riviste. Si è arrivati così ad una situazione di grande chiarezza, laddove nel caso statunitense e britannico –come a suo tempo in quello giapponese- si è assistito negli ultimi mesi del 2008 e ancora nelle prime settimane del 2009 ad una situazione molto insoddisfacente ed equivoca, in cui i governi continuano ad immettere ingenti capitali e garanzie nel sistema, pur senza ottenere un grande potere di intervento nelle politiche, mentre il vecchio management continua a fare i suoi interessi e le decisioni sui dividendi, sulle retribuzioni dei dirigenti, sulla politica del credito, sul riconoscimento delle reali perdite di bilancio, continuano ad essere opache. “Troppe banche sono premiate per i loro fallimenti” (Wood, 2009).
Non che la soluzione della nazionalizzazione risolva tutti i problemi. Si pensi soltanto che se la Gran Bretagna si accollasse, come probabilmente sarà costretta a fare, i debiti della sola RBS –pari a circa 2 trilioni di sterline-, il livello complessivo del suo indebitamento aumenterebbe del 370%!
Da qualche parte si calcola che negli Stati Uniti la seconda tranche della Tarp, lo schema da 700 miliardi di dollari ( 350+ 350) messo a suo tempo in piedi dal segretario al Tesoro – dal momento che 30 miliardi di dollari della seconda tranche sono già stati usati, ne restano 320- non sarà assolutamente sufficiente a sanare le ferite e che ce ne possano volere sino a 1000-1400, secondo le ultime stime (Roubini, Parisi-Capone, 2009).
Per altro verso, sempre il caso giapponese ha mostrato che senza la soluzione della crisi bancaria, qualsiasi piano di stimolo fiscale per l’economia reale non funzionerà (Backus, 2009).
E quello dell’economia reale
E veniamo al piano Obama. Le sue linee essenziali, come delineate sulla stampa, mostrano dei punti deboli importanti che molti non hanno mancato di sottolineare.
Il successo del programma dipenderà, per molti aspetti, dalla direzione e qualità delle spese che saranno effettuate. Molte di quelle previste potrebbero poi avere effetto solo ad una certa distanza di tempo. D’altro canto, molti pensano che il pacchetto complessivo, pur nelle sue dimensioni –pari a circa il 5,5% del pil del paese-, non sia sufficiente ad arrestare in maniera adeguata il declino dell’economia del paese e una forte crescita nei livelli della disoccupazione, ma al massimo esso potrebbe ridurre l’impatto delle difficoltà. Peraltro, un pacchetto di molto maggiori dimensioni – qualcuno parla di una spesa di 800 miliardi di dollari all’anno per mantenere sotto controllo la disoccupazione- si scontrerebbe con un problema di sostenibilità finanziaria. C’è, in effetti chi valuta che, pur con gli interventi previsti da Obama, alla fine il tasso di disoccupazione si collocherà, alla fine del 2010, nel migliore dei casi, allo stesso livello del 7% di quello attuale (Krugman, 2009).
Si discute anche su quale rapporto ci dovrebbe essere nel piano tra il livello delle riduzioni fiscali- che attualmente dovrebbero collocarsi intorno al 40% del pacchetto totale- e invece quello delle spese aggiuntive e le opinioni sono molto differenziate in proposito. Così, sempre P. Krugman (Krugman, 2009) valuta che gli interventi fiscali non aiuteranno in nulla l’economia, mentre molti politici repubblicani insistono invece sulla necessità di inserire nel pacchetto un alto importo su tale fronte.
Un aspetto fondamentale delle analisi critiche del piano riguarda poi la previsione che, data la situazione attuale sul fronte interno – con il crollo dei consumi privati e un processo che si annuncia lungo di riduzione dei livelli di indebitamento delle famiglie - ed internazionale –con gli sbilanci commerciali e finanziari del paese con il resto del mondo, che hanno tra le loro conseguenze la necessità di un deficit strutturale del bilancio pubblico per far fronte al problema-, nonché con i programmi di intervento sociale e sanitario annunciati, l’ammontare della spesa pubblica debba restare a livelli altissimi molto a lungo.
Tale piano, insieme alle altre misure già annunciate per quanto riguarda l’area finanziaria –che insieme significano un intervento dalle dimensioni imponenti- , richiederà risorse enormi. La copertura di fondo del pacchetto complessivo dovrà venire nel medio-lungo termine o da un aumento rilevante del prelievo tributario, o da una crescita notevole dei livelli di inflazione, che sembra la cosa più probabile, mentre anche il dollaro potrà passare dei momenti difficili. Si tratta comunque di un percorso di intervento complessivamente molto delicato.
Un’osservazione finale riguarda la necessità di inserire nel piano stesso la considerazione della sua dimensione internazionale; a tale proposito dovrebbe essere avviato un dialogo a livello mondiale per affrontare tale area, non meno importante di quella nazionale e di cui nel piano Obama non sembra esserci traccia, come se le politiche del resto del mondo e le stesse conseguenze delle decisioni statunitensi sul quadro internazionale non avessero alcuna influenza sul destino degli Stati Uniti (Wolf, 2009).
Testi citati nell’articolo
-Backus D., Stimulus ambivalence, www.ft.com, 10 gennaio 2009
-Koo R., The holy Grail of macroeconomics: lessons from Japan’s great recession, Wiley, New York, 2008
-Krugman P., Il piano Obama non basta, la Repubblica, 10 gennaio 2009
-Roach S., US not certain of avoiding Japan-style “lost decade”, The Financial Times, 14 gennaio 2009
-Roubini N., Parisi-Capone E., RGE monitor estimates $3.6 trillion loan and securities losses in the U.S., www.rgemonitor.com, 22 gennaio 2009,
-Stiglitz J., Nous n’avons pas de système économique de recharge, www.lemonde.com, 19 gennaio 2009
-Wood C., Insight: swedish model for western banks, www.ft.com, 19 gennaio 2009
-Wolf M., Why Obama’s plan is still inadeguate and incomplete, www.ft.com, 13 gennaio 2009
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