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"Finanza per lo sviluppo". Di chi?

04/12/2008

La Conferenza di Doha sulla Finanza per lo sviluppo è stata un'occasione mancata. Nessuna svolta sui temi cruciali della crisi attuale: dalla cooperazione internazionale al debito estero, dai rapporti commerciali Nord-Sud ai flussi finanziari. Ma il testo finale lascia aperta la porta all'Onu nella "nuova Bretton Woods"

Si è conclusa martedì la Conferenza sulla finanza per lo Sviluppo di Doha, che a quasi sette anni dal primo incontro di Monterrey doveva fissare le priorità dell’agenda internazionale in materia di lotta alla povertà e riguardo le altre grandi sfide del pianeta. Una conferenza caratterizzata da quattro giorni di negoziati tesi e continui annunci di accordi presunti e poi rimessi in discussione. Le tematiche da affrontare erano diverse: dalla cooperazione internazionale al debito estero, dai rapporti commerciali tra Nord e Sud del mondo al ruolo degli investimenti diretti esteri e degli altri flussi finanziari. Su quasi tutte le questioni in gioco il testo finale della conferenza è apparso come un compromesso al ribasso. Secondo la quasi totalità delle organizzazioni della società civile presenti a Doha, il vertice è stato un’occasione mancata.

Le questioni più spinose e sulle quali l’intera conferenza è sembrata diverse volte sul punto di fallire non hanno però riguardato tanto la sostanza dei diversi capitoli negoziali, quanto la governance. In primo luogo è stato molto difficile trovare un accordo sul meccanismo per assicurare che l’intero processo della finanza per lo Sviluppo abbia un seguito, e che questo seguito si svolga sempre sotto il cappello dell’Onu. In questo senso, il testo finale conferma un generico “ruolo centrale” dell’Onu, senza però fissare in maniera chiara i prossimi passi, gli obiettivi e le scadenze concrete.

Il secondo nodo, ancora più delicato, era legato alla proposta di organizzare a breve una conferenza di alto livello per discutere la riforma della governance e dell’architettura finanziaria internazionale, a partire dal ruolo e dal mandato del Fondo Monetario Internazionale. Una questione ormai non prorogabile, alla luce dell’evidente fallimento del Fmi nel garantire la stabilità finanziaria internazionale, come da suo mandato originale quando era stato creato nel lontano 1944.

Ricordiamo che la nascita di Fmi e Banca mondiale avvenne proprio nel corso di una conferenza delle Nazioni Unite, e in particolare con la “United Nations Monetary and Financial Conference”, oggi nota come “conferenza di Bretton Woods” dal nome della località negli Usa che ospitò i lavori. Alla luce del dibattito attuale su dove e come gestire la necessaria riforma delle istituzioni internazionali, non si tratta di una precisazione superflua: al termine della Seconda Guerra Mondiale, i grandi del mondo riconobbero che solo le Nazioni Unite avevano il mandato per convocare un vertice di tale portata. Una scelta tanto più coraggiosa e lungimirante se si considera che ufficialmente l’Onu vide la luce solo l’anno successivo, nel 1945, quando nacque dalle ceneri della Società delle Nazioni.

A distanza di oltre sessanta anni, tutti concordano sul fatto che una “Bretton Woods II” sia necessaria, per riformare, o meglio per rifondare, il sistema finanziario ed economico internazionale dopo la crisi più pesante della storia recente. Il problema di fondo riguarda il ruolo e il mandato che in questo processo deve giocare l'Onu, rispetto ad altri luoghi, a partire dalle stesse istituzioni finanziarie quali Fmi e Banca Mondiale, fino ad arrivare ai gruppi più o meno informali di Paesi, quali il G8 o il G20.

Le reti della società civile che da tutto il mondo si erano date appuntamento a Doha, chiedevano che proprio la conferenza sulla Finanza per lo Sviluppo potesse essere l’occasione per trovare un accordo sull’organizzazione di tale vertice che desse un ruolo univoco e inequivocabile all'Onu. Un doppio segnale: da una parte si poteva così rilanciare le Nazioni Unite come unica istituzione capace di garantire un approccio realmente democratico e multilaterale. In secondo luogo, questa dichiarazione serviva per legare in maniera forte le questioni della finanza per lo sviluppo, e quindi le esigenze dei più poveri, alla riforma della governance internazionale. Una posizione sostenuta dalla maggioranza dei Paesi del Sud, riuniti nel G77, che vedono nell'ONU l'unico luogo in cui possono portare avanti le proprie istanze.

Dall'altra parte, le economie più importanti del pianeta, che hanno recentemente avviato il processo del G20 per riformare l'economia e la finanza internazionale, erano interessati a difendere i propri privilegi e a limitare al massimo il futuro ruolo dell'ONU.

Lo stesso Presidente francese Nicolas Sarkozy, l’unico leader del G8 ad essere intervenuto a Doha, ha ricordato più volte l’importanza del G20 nel corso del proprio intervento in plenaria. Unica concessione, il Presidente di turno dell’Ue ha affermato di volere invitare, per il prossimo incontro del G20 che si svolgerà a Londra a inizio aprile, anche un rappresentante dell’Unione Africana.

Una concessione che suona come un’elemosina, considerando che l’attuale crisi finanziaria è nata interamente nel Nord del mondo, ma che le conseguenze ricadono su tutti gli abitanti del pianeta, e su quelli più poveri in particolare. Se l’Onu, con tutti i suoi limiti, riesce a dare voce a tutti i 192 Stati che la costituiscono, il processo del G20 escluderebbe 172 di questi Paesi da qualunque possibilità di esprimersi sulle regole che saranno chiamati a seguire nel prossimo futuro.

Su questo contrasto si è giocata gran parte della conferenza di Doha. Gli ultimi due giorni di negoziato sono stati spesi per cercare una mediazione tra il ruolo dell'Onu e quello delle altre istituzioni internazionali, sulla distinzione se il futuro incontro per la riforma dell'architettura internazionale sarebbe stato un “summit”, come voluto dal Sud, o una semplice “conferenza”, come chiesto in particolare dagli Usa. Una situazione surreale, nella quale, a dispetto della situazione internazionale, della profondità della crisi finanziaria, della gravità dei cambiamenti climatici, le delegazioni si opponevano veti incrociati su differenze formali.

Come ha affermato nel suo discorso il Presidente dell’Assemblea Generale dell’Onu, Miguel d'Escoto Brockmann, il metodo del consenso, uno dei pilastri sui quali si fonda la democraticità dell’Onu, è stato troppo spesso capovolto ed utilizzato come un potere di veto, con un solo Paese a bloccare i negoziati. Secondo molti osservatori il riferimento era evidentemente agli Usa della dimissionaria amministrazione Bush, che avrebbero provato a bloccare ogni tentativo di riferirsi al consesso multilaterale nel testo finale di Doha. In questo tentativo, gli Usa avrebbero avuto l’appoggio di molti Paesi europei, più che soddisfatti all’idea di spostare l’intera discussione sulla finanza per lo sviluppo, e più in generale sulla riforma della governance internazionale, dall’Onu al G20 o anche all'Ocse.

Alla fine nel testo finale, un po’ a sorpresa è sopravvissuta una dicitura forte, che lascia aperta la porta a un reale ruolo di primo piano dell’Onu. In uno degli ultimi articoli della dichiarazione finale di Doha si legge infatti che “Le Nazioni Unite terranno una conferenza al più alto livello sulla crisi finanziaria ed economica globale ed i suoi impatti sullo sviluppo. La conferenza sarà organizzata dal Presidente dell’Assemblea Generale e le modalità verranno definite al più tardi entro marzo 2009”.

Al di là del passo in avanti positivo in termini di governance, al momento attuale rimane il fatto che nel testo di Doha non sono state prese decisioni operative sulla sostanza delle diverse questioni in gioco, né scelte concrete che possano imprimere un cambiamento di rotta nelle politiche internazionali sulla finanza per lo sviluppo. Un risultato molto modesto, che di fatto permetterà alle economie più ricche di rilanciare il processo in sede G20.

Un approccio escludente, quello del G20, che sembra essere pienamente sostenuto dall’Italia. Ricordiamo che se il Presidente del Consiglio dei Ministri si è affrettato a recarsi a Washington all’incontro dei G20, la delegazione italiana a Doha ha visto la partecipazione del ministro dello Sviluppo Economico Produttive Claudio Scajola, che si è fermato poco più di 24 ore, e del sottosegretario agli Esteri Scotti, al quale è stato affidato l’intervento in plenaria a nome del governo italiano. E’ da notare che, anche se il sottosegretario Scotti ha la delega per le questioni legate all’Onu, nessuno dei due esponenti del governo ha un mandato riguardo le questioni della cooperazione internazionale o della finanza per lo sviluppo, che sono di diretta pertinenza del Ministro degli Esteri Franco Frattini.

Nel suo intervento, durato come da regolamento meno di cinque minuti, Scotti ha nominato per ben sei volte il G8, in particolare per ricordare ripetutamente la prossima presidenza italiana. Il sottosegretario ha paradossalmente segnalato la volontà di inserire nell’agenda dello stesso G8 “l’Africa, gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio e la lotta contro la povertà”, quando la sede per discutere di queste tematiche doveva essere proprio la conferenza di Doha. Colpisce la decisione di aggrapparsi con tanta forza a un G8 anacronistico e al capolinea, superato dall'emergere di nuove potenze politiche ed economiche, in particolare in Asia.

Che si tratti del G8 o del “nuovo club dei ricchi”, ovvero il G20, che allarga le decisioni a poche grandi economie emergenti, erano in molti a Doha a ricordare che, in ogni caso, la grande maggioranza dei Paesi del mondo è completamente esclusa da questi processi, ma ne deve poi accettare le conseguenze. Per questo, a differenza di quanto provano a sostenere alcuni governi europei o l’amministrazione Bush nei suoi ultimi attacchi al sistema multilaterale, l’unico gruppo di Paesi legittimato a discutere di questioni che riguardano l’intera umanità è e deve rimanere il G192, ovvero l’Onu.

Al di la dei risultati estremamente modesti, la conferenza sulla finanza per lo sviluppo di Doha ha mostrato, tanto nello svolgimento dei negoziati quanto nel risultato finale, una spaccatura tra una minoranza di Paesi che vuole continuare a rimanere aggrappata a vecchi privilegi di stampo neo-colonialista, e la gran parte dei Paesi del mondo, che chiede di potere partecipare al proprio futuro. In questo dibattito, da quale parte vuole schierarsi l’Italia?

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