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Cosa è cambiato quando è cambiato tutto

31/10/2009

L'eredità della crisi/1: disoccupazione in salita, governi in deficit, finanza sregolata. Analisi delle conseguenze economiche e finanziarie dello choc

 

“…la dittatura dei mercati finanziari ha delle magnifiche prospettive davanti a sé…” (P.-A. Delhommais)

 

 

Premessa

 

Le difficoltà dell’economia e della finanza non sono certo terminate, come in molti sembrano credere, o, forse, semplicemente sperare. In realtà ci attende apparentemente, al massimo, un lungo periodo di crescita economica molto debole, senza escludere possibili ricadute anche a breve termine.

 

Nonostante che la crisi incomba quindi ancora sulle nostre teste, sulla base di quanto è accaduto sino ad oggi si può cercare di fare un primo, certamente schematico, provvisorio ed imperfetto, bilancio della stessa, per quanto riguarda le sue conseguenze sul terreno economico, su quello sociale, politico, nonché infine sul fronte della teoria finanziaria e della battaglia delle idee; tali conseguenze ci sembrano molto importanti per diversi aspetti ed esse dovrebbero contribuire non poco a configurare il nostro futuro prossimo e meno prossimo.

 

Questa settimana ci soffermeremo sulle conseguenze economiche e finanziarie della crisi e sulle evidenti criticità in cui è incorsa gran parte della moderna teoria economica.

 

Nella prossima svilupperemo la dimensione politica e sociale della crisi, provando a far luce su quello che, in conclusione, possiamo ragionevolmente attenderci.

 

Le conseguenze economiche e finanziarie

 

Intanto, sul terreno più direttamente economico e finanziario, le eredità lasciate dalla crisi sembrano toccare almeno cinque fronti:

 

1) un grande aumento nei livelli di disoccupazione, aumento che non sembra certo fermarsi in questi mesi e che, secondo quasi tutte le previsioni, dovrebbe trascinarsi ancora almeno per tutto il 2010. All’interno di questa tragedia generale, c’è da considerare poi quella specifica dei giovani. Ad esempio, in Gran Bretagna il numero delle persone in età compresa tra i 16 e i 24 anni che non ha un lavoro sta raggiungendo ormai il milione di unità, un livello persino leggermente superiore a quello del 1997, anno nel quale T. Blair, avendo vinto le elezioni, parlò, a proposito di un fenomeno simile come dimensioni, di “generazione perduta” e promise solennemente di migliorare le cose (Elliott, 2009). Negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione per la stessa classe di età è passato dal 13% del settembre 2008 al 18% un anno dopo (Coy, 2009). In Italia, secondo le cifre Istat, la situazione appare ancora più grave: la cifra corrispondente al giugno del 2009 è del 24%, circa quattro punti percentuali in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. C’è da prevedere, in ogni caso, che anche in presenza di una, peraltro improbabile, ripresa in forze dell’economia, i livelli di occupazione continueranno ad essere piuttosto contenuti, in relazione, tra l’altro, ai forti processi di ristrutturazione in atto nel mondo delle imprese.

 

Va inoltre ricordato che, con la crisi, mentre i salari tendono alla discesa, l’occupazione si è fatta più precaria e complessivamente meno tutelata di prima. Così, ad esempio, chi è uscito o sta uscendo dal mercato del lavoro avendo un contratto a tempo indeterminato, rientrerà in molti casi, se pure ci riesce, con uno temporaneo;

 

2) il secondo problema che abbiamo di fronte è quello relativo al fatto che, per combattere la crisi, i governi hanno dovuto impegnare tutte le risorse finanziarie che avevano a disposizione ed anche quelle che in realtà non avevano. Oggi ci troviamo dunque, in molti casi, con le finanze pubbliche che presentano gravi deficit e altissimi livelli di indebitamento e con la prospettiva di un ulteriore deterioramento della situazione nel 2010. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, poi, nel 2014 il livello totale del debito pubblico nei paesi ricchi dovrebbe raggiungere il 115% del loro pil –più o meno il livello italiano attuale-, contro il 75% del 2008.

 

La conseguenza di questa evoluzione sarà pagata nei prossimi anni nel mondo occidentale in termini di mancati interventi sui tanti fronti che ne avrebbero invece bisogno, anzi con possibili tagli nelle spese sociali, aumenti di imposte, crescita nei livelli di inflazione, rallentamento nei tassi di sviluppo dell’economia. Nessuno osa pensare cosa potrebbe poi accadere alle finanze pubbliche in caso di una nuova crisi a breve-medio termine. Ma torneremo con maggiore dettaglio su questo punto più avanti nel testo.

 

3) si è reso evidente a tutti un gigantesco meccanismo di moral hazard e di ricatto generalizzato nei rapporti tra il sistema finanziario da una parte e i governi e i cittadini dei vari paesi dall’altra. I profitti del settore vengono subito tradotti in dividendi per gli azionisti e in grandi bonus per i manager; questi profitti sono, come è noto, generati da una abnorme presa di rischi da parte del sistema, mentre le inevitabili perdite che prima o poi vengono generate sono invece assorbite dal settore pubblico e quindi da tutti i cittadini. E il meccanismo non sembra dover subire modifiche sostanziali a breve termine, almeno a nostra conoscenza; anzi, la messa a disposizione da parte dei governi e delle banche centrali di grandi livelli di liquidità a costi vicini allo zero, tende ad alimentare i profitti e la presa di rischi del settore. Fare soldi, per le banche superstiti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, è diventato così relativamente semplice. Per altro verso, la crisi ha mostrato che i grandi gruppi bancari non sono gestibili; il totale degli attivi della Bank of America è oggi pari a dieci volte a quello della impresa statunitense di maggior valore, la Exxon Mobil, fenomeno anche tecnicamente inaccettabile.

 

Di fronte a tale quadro desolante, i tentativi delle forze “riformiste”, pure presenti a livello economico e politico, di cambiare le regole del gioco finanziario, si stanno scontrando con una fortissima resistenza da parte delle forze della conservazione, abbarbicate ai loro grandi privilegi. Si veda, ad esempio, il grande ed anche aspro dibattito aperto in queste settimane da una parte tra il governatore della Banca d’Inghilterra e P. Volckler, autorevolissimo consigliere economico di Obama e dall’altra l’establishment politico di Gran Bretagna e Stati Uniti, per quanto riguarda le modalità di una possibile riforma del sistema bancario. Non si sa, in questo momento, quale sarà il risultato finale di tale scontro in atto.

 

4) a livello ancora più generale, la crisi ci lascia in eredità un modello di sviluppo economico che non funziona più, basato come è, nella sostanza, sul pieno dispiegarsi del libero mercato e sul minimo intervento dello stato nell’economia. Tale modello puntava, per andare avanti, sull’effetto trainante dei consumi privati, alimentati dalla droga di un indebitamento crescente, con i collegati squilibri internazionali che ne sono anche all’origine. Su questo ultimo fronte, di nuovo, si registra una grande difficoltà a cambiare un sistema in cui coesistono paesi ad alto surplus commerciale e finanziario (Cina, Germania, Giappone, paesi arabi) e paesi ad altrettanto elevato deficit (Stati Uniti, Gran Bretagna), senza che tali squilibri trovino un qualche meccanismo di coordinamento adeguato.

 

Va parallelamente sottolineato come il modello economico e finanziario di tipo anglosassone abbia resistito complessivamente meno bene alla crisi di quanto abbiano fatto altri modelli, quale quello dell’Europa continentale e, in particolare, quello francese, precedentemente tanto vituperato da molte parti.

 

Su di un altro fronte, le previsioni che con la crisi i processi di globalizzazione avrebbero battuto in ritirata, non ha in realtà trovato sino a questo momento conferme adeguate, al di là di qualche problema, anche di rilievo, presente sul fronte dell’economia reale; si è assistito, comunque, ad un ridimensionamento nei livelli del commercio internazionale ed in quelli degli investimenti esteri ed all’imposizione, qua e la, di qualche dazio in più, in particolare contro i “cattivi” cinesi. Si distinguono su questo fronte i tentativi del governo italiano di prorogare, in sede di Unione Europea, i dazi sulle calzature cinesi e vietnamite. Il fronte della globalizzazione finanziaria ha invece presentato nell’ultimo periodo un profilo più complesso, con la tendenza di molte banche, spinte anche dai propri governi, a concentrare più di prima le proprie attività sui mercati domestici.

 

5) infine, a livello delle imprese, è in atto un ripensamento strategico su molti fronti, dalla redistribuzione delle attività a livello geografico, spingendo in particolare la presenza a livello produttivo, commerciale, di attività di ricerca, nell’area asiatica, al ripensamento dei processi di outsourcing, alla spinta al taglio dei costi, in particolare di quelli del lavoro, ecc..Sono aumentati, nel frattempo, i livelli della concorrenza su molti mercati e diverse produzioni italiane tendono a soffrire più di prima sul fronte internazionale, davanti in particolare ai rinnovati assalti delle imprese cinesi che stanno riuscendo a conquistare a nostre spese delle altre quote di mercato. Si sono inoltre accentuate le difficoltà di alcuni business specifici; tra quelli, anche simbolicamente, più importanti ricordiamo il settore dell’auto e quello della carta stampata.

 

Opzioni ideali e teoria finanziaria

 

Per quanto riguarda tali fronti è certamente entrata in crisi, come già sopra accennato, la visione propria dell’ideologia neo-liberista e che ha i suoi riferimenti lontani in A. Smith e quelli operativi più recenti nella scuola di Chicago e in particolare in M. Friedman. La mistica del libero mercato ha poi trovato una traduzione operativa in tutto il mondo anche attraverso gli interventi delle agenzie internazionali, quali la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, organismi presso i quali il cosiddetto Washington Consensus è diventato un dogma indiscusso. Non a caso tali organismi sono ora profondamente in crisi e stanno cercando affannosamente di ricavarsi un nuovo ruolo, cosa che ci sembra difficile da individuare, di fronte anche alla palese ostilità verso questi enti che viene manifestata da tanti paesi dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina. Mentre la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale per il Commercio mostrano sempre di più la loro sostanziale irrilevanza, è in corso un tentativo di disegnare un fondo monetario alternativo.

 

In termini generali ed in collegamento al fenomeno appena descritto, si è ormai diffusa, come afferma uno studioso britannico, la consapevolezza che gran parte della moderna teoria economica “è un disastro e una disgrazia” (R. Bootle in Seager, 2009).

 

Per quanto riguarda in specifico i mercati finanziari, va registrata la crisi di gran parte delle teorie sviluppate negli ultimi quaranta anni e che sono alla base dell’operare di tali organismi, dall’ipotesi del mercato efficiente, ai modelli relativi alla configurazione del migliore rapporto possibile rischio-rendimento, agli schemi della creazione del valore, ai modelli matematici per il governo del rischio; tali teorie hanno peraltro fruttato negli ultimi decenni tanti premi Nobel per l’economia a diversi tra i loro inventori.

 

A livelli più “costruttivi”, si può sottolineare come le difficoltà recenti abbiano aiutato gli economisti, tra l’altro, a comprendere meglio i rapporti complessi che possono intercorrere tra gli aspetti finanziari e quelli “reali” delle crisi, mentre esse hanno contribuito a confermare il fondamentale ruolo di livelli di indebitamento molto elevati nello scatenarsi dei crack e, inoltre, che non si può sperare troppo nella possibilità che qualche circostanza particolare presente al momento ci permetta di evitare l’inevitabile “redde rationem” che consegue a comportamenti irresponsabili (Reinhart, Rogoff, 2009). Infine, il crack ha forse insegnato a molti economisti una maggiore prudenza ed umiltà nei loro giudizi spesso perentori e, in particolare, a considerare con maggior circospezione la possibilità che certe tendenze favorevoli persistano troppo a lungo.

 

(segue)

 


 


 

Testi citati nell’articolo

 

- Coy P., The lost generation, Business Week, 19 ottobre 2009

 

- Delhommais P.-A., La deuxième mort du socialisme, Le Monde, 12 ottobre 2009

 

- Elliott L., Unemployement among 16 to 24 age group leads above one million barrier, The Observer, 11 ottobre 2009

 

- Lordon F., Jusqu’à quand? Pour en finir avec les crises financières, Raisons d’agir ed., parigi, 2008

 

- Maurin E.,La peur du déclassement. Une sociologie des récessions, ed. du Seuil, Parigi, 2009

 

- Reinhart C. M., Rogoff K. S., This time is different. Eight centuries of financial folly, Princeton University Press, Princeton, 2009

 

- Seager A., Modern economics “a disaster and a disgrace”, says leading analyst, The Observer, 18 ottobre 2009

 

- The Economist, It wasn’t me, 10 ottobre 2009

 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


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