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Dalle tv private al bene pubblico
Il dividendo digitale vale miliardi per lo stato, e l'Italia lo ignora. Ma ha in sé anche un enorme potenziale per tutti: il movimento per l'Open Spectrum si batte per un accesso libero e aperto. Ecco come
La questione delle frequenze sta diventando calda in Italia e in Europa grazie al passaggio dalla televisione analogica a quella digitale. A causa di questa migrazione si libereranno frequenze molto preziose del valore di miliardi. Infatti dove si trasmette un solo canale di tv analogica se ne possono trasmettere sei digitali: con il passaggio alla Tv digitale si liberano insomma 5 frequenze su 6, cioè il cosiddetto “dividendo digitale”. La questione non è però solo tecnica. Come si è scritto in un precedente articolo, le frequenze sono infatti un bene pubblico molto importante, ma il governo italiano ha deciso che questo prezioso dividendo digitale, che vale qualche miliardo, verrà tutto privatizzato a favore delle televisioni. E gratis, senza incassi per lo stato. Infatti, a differenza di quanto avviene in tutta Europa e negli USA, il governo italiano e l’Autorità delle Comunicazioni non hanno fin dall’inizio previsto che una parte dell’etere sia assegnato ai gestori mobili che, grazie alle nuove frequenze lasciate libere dalle tv analogiche, potrebbero offrire in tutto il territorio nazionale servizi a banda larga per l’accesso a Internet a basso costo. Solo recentemente il viceministro Paolo Romani ha promesso che, qualora le tv locali non utilizzassero tutte le frequenze loro assegnate, queste potrebbero essere riprese dallo stato e messe all’asta per i servizi di Internet mobile a banda larga, come avviene in tutta Europa secondo le linee guida della Ue. Sarebbe un passo in avanti, e finalmente le preziose frequenze verrebbero valorizzate a vantaggio delle casse pubbliche e dei cittadini-contribuenti. Tuttavia, anche se le frequenze venissero finalmente valorizzate e non cedute gratis, il governo italiano - a differenza per esempio di quello americano - non intende lasciare neppure una piccola parte dello spettro unlicenced, ovvero libero per tutti senza autorizzazioni. Ma l’accesso libero allo spettro radioelettrico sarebbe molto importante per gli enti locali, per gli enti pubblici e gli organismi no profit che puntano a colmare il digital divide offrendo i servizi Internet nelle zone più disagiate del paese, quelle in cui non è disponibile la banda larga. Viene spontanea una domanda: quando le frequenze verranno finalmente trattate come un bene pubblico e non come bene disponibile solo ed esclusivamente per i (sia pur legittimi) interessi privati? Quando ci sarà spazio anche per l’Open Spectrum? Quando sarà disponibile una parte dello spettro per il libero accesso, a favore della sperimentazione, dell’innovazione libera e della diffusione della banda larga – infatti le frequenze arrivano dappertutto, anche nelle aree meno popolate dove la fibra ottica non ha senso economico -?
Tradizionalmente le frequenze sono sempre state considerate risorse scarse che i governi concedono a un numero limitato di operatori che ne fanno un uso esclusivo per servizi dedicati: le tivù usano le frequenze per trasmettere Tv, i gestori mobili per trasmettere servizi mobili, ecc. Questa risorsa scarsa è storicamente stata distribuita in base a tre modalità: il modo più tradizionale e “statalistico” (adottato però dal nostro governo “liberista”) è di assegnare le frequenze dall’alto: in questa maniera il governo alloca per esempio le frequenze per la difesa (ovviamente) ma anche per le televisioni. Nel caso delle televisioni è chiaro il “do ut des” tra governo e broadcaster: frequenze gratis, o quasi, in cambio del prezioso consenso politico delle Tv, assolutamente determinanti per vincere le elezioni. Il secondo modo, più recente, di allocare le frequenze è quello delle aste, basato sui classici criteri di mercato: chi paga di più (cioè il più ricco) vince e si aggiudica l’uso delle frequenze per fornire un certo servizio per un certo numero di anni. In Germania per esempio il dividendo digitale è stato recentemente messo all’asta per l’offerta di servizi mobili. L’asta si è chiusa a maggio e ha fatto guadagnare allo stato, cioè ai contribuenti tedeschi, ben 4,4 miliardi di euro. Un buon tesoretto in tempo di crisi che il governo italiano si sta invece lasciando (volontariamente) scappare. In Germania le frequenze sono state vinte da giganti come Vodafone, Deutsche Telekom e Telefonica. Il meccanismo dell’asta è, a parte l’Italia, stato adottato da tutti i paesi della Ue per valorizzare le frequenze e assegnare il dividendo digitale. Ed è considerato efficace soprattutto dai “liberisti”: infatti si ritiene che chi paga di più sia anche interessato a utilizzare le frequenze nel modo più efficace. Ma è dimostrato che non è sempre così: per esempio una società può acquistare le frequenze e lasciarle inutilizzate solo per impedirne l’uso ai competitor. Oppure può acquistarle nella previsione di rivenderle poi a un prezzo ancora più caro.
Il terzo metodo, più recente, è quello di lasciare le frequenze unlicenced, ad accesso libero e aperto. L’Open Spectrum è richiesto soprattutto da organizzazioni no profit - come in Italia l’associazione Anti-Digital Divide e in Europa The Open Spectrum Alliance (www.openspectrum.ue), e da alcuni studiosi, prima di tutto Lawrence Lessig, il fondatore di Creative Commons, la fondazione nata per l’accesso libero ai contenuti. Il Free Access allo spettro dovrebbe essere reclamato anche e soprattutto dai comuni e dalle regioni e dalle società più innovatrici che volessero sperimentare nuove soluzioni di comunicazione via etere. Negli Stati Uniti ci sono state timide ma significative aperture allo Spettro Aperto che hanno già prodotto ottimi effetti concreti. Tanto più che tecnicamente l’uso libero di una parte dello spettro non impedisce assolutamente che lo stesso spettro non venga prioritariamente utilizzato dai soggetti già licenziati. Infatti le tecnologie Open Spectrum possono convivere benissimo con le altre, ed eventualmente , se ce ne è bisogno, “cedere il passo” agli operatori autorizzati. La tecnologia unlicenced più interessante e conosciuta è il wi-fi, che agisce in uno spazio radioelettrico aperto e non regolamentato. Uno spazio importante, tanto che, per esempio, più del 40% delle comunicazioni del famoso iPhone passa già per il wi-fi (gratuito) e non per le frequenze consegnate ai gestori mobili. L’opportunità dell’Open Spectrum è nata grazie ai progressi della microelettronica e all’emergenza di tecnologie wireless molto innovative, come le smart radio, le smart antenna, i mesh networks. Per esempio le smart radio sono in grado di utilizzare in maniera flessibile diverse frequenze e differenti standard in modo da sfruttare tutte le bande di frequenza disponibili per comunicare con diversi terminali. Da qui la possibilità di trattare il problema dell’allocazione delle frequenze in un’ottica radicalmente diversa rispetto al passato e al presente. Abbiamo visto che attualmente ogni porzione di spettro viene concesso in esclusiva a pochi operatori e viene dedicata a veicolare un solo servizio, come la televisione o la telefonia mobile. Le frequenze non sono condivise e quindi sono sottoutilizzate, nel tempo e nello spazio. Sarebbe come dare la concessione di un’autostrada con la clausola che su questa possano passare passare solo i veicoli del concessionario. Le autostrade sarebbero sprecate, così come sono attualmente sottoutilizzate le frequenze concesse in esclusiva agli operatori mobili o alle Tv. Per fortuna invece le strade sono ad accesso libero e sono condivise da più veicoli e da più operatori: in questa maniera il loro uso è di gran lunga più efficiente. Se venisse praticata la filosofia delle frequenze condivise, queste verrebbero utilizzate in maniera più razionale, e in tendenza non rappresenterebbero più una risorsa scarsa ma diventerebbero un bene abbondante, e si incentiverebbe lo sviluppo competitivo di servizi innovativi per soddisfare le esigenze sociali e di mercato. La gestione delle frequenze come bene comune aperto stimolerebbe il mercato competitivo dei servizi. Sarebbe un colpo assai poco gradito per i potenti monopoli dell’etere. Ma in Italia pochi vogliono davvero la competizione. E da noi anche il movimento a favore dell’Open Spectrum è solo all’inizio: quindi in Italia non solo niente asta, almeno per ora, ma niente Open Spectrum.
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