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Se le società di capitale producono povertà

04/09/2009

Quasi il 40% di Spa e Srl dichiara un valore netto della produzione negativo. Numeri di un capitale molto povero. Che fa debiti per pagare i dividendi

L’Italia è un paese ben strano, ma la realtà, spesso, supera la fantasia.

 

Sostanzialmente il 40% delle società di capitale (Srl e Spa) dichiara un valore negativo: non solo non pagano le tasse, ma rappresentano un vincolo per il paese in quanto non producono utili. Altro che il vincolo della spesa pubblica: il 40% delle società di capitale produce “povertà”. In qualche modo sarebbe molto più remunerativo chiudere queste società e assegnare ai lavoratori un salario “figurativo” pubblico.

 

L'identikit dei livelli di capitalizzazione di Srl e Spa, ricostruito da Infocamere nel giugno 2009, conferma la fisionomia del sistema produttivo italiano: da un lato centinaia di migliaia di Pmi dotate di un ridotto capitale sociale (spesso ai limiti della sopravvivenza giuridica); dall'altro un valore netto della produzione delle imprese che è negativo o assente per il 37,5% delle Srl e il 35,7% delle Spa.

 

Possono esserci molte spiegazioni. La più probabile ed evidente è che l’elusione-evasione fiscale non appartiene solo alle società soggette agli studi di settore, ma si allarga anche alle società di capitale. Anzi, se nelle società di capitale abbiamo punte cosi alte di valori negativi o assenti, quanto è alto il valore negativo delle società soggette agli studi di settore?

 

In qualche modo si prefigura un sistema economico fondato sull’economia grigia che va ben oltre il luogo comune del dentista che non paga le tasse. Anche nelle società organizzate e strutturate come quelle di capitale si registrano valori almeno incomprensibili. Stando alle informazioni fornite da infocamere, se queste società fallissero non sarebbe un male per l’Italia. Almeno non indebitano il paese.

 

Se dalla contabilità nazionale è possibile imputare parte del valore negativo all’elusione fiscale, è possibile dare un'altra spiegazione.

 

Il nuovo paradigma accumulativo che si delinea per uscire dalla crisi finanziaria ed economica, fondato sulla conoscenza, l’ambiente e l’energia rinnovabile, presuppone uno sforzo finanziario enorme per predisporre beni e servizi che saranno consumati in futuro. Sostanzialmente servono risorse finanziarie per generare innovazione e nuova capacità produttiva al fine di adeguare-incorporare sapere. Già sappiamo che una parte rilevante degli investimenti delle imprese si traducono in importazioni dei beni strumentali ad alto valore aggiunto, ma al netto della specializzazione produttiva, che per il paese è un vincolo di difficile soluzione, qualora volessimo “riconvertire” l’esistente apparato produttivo, potremmo contare solo sul 60% delle società di capitale. Non perché non ci siano delle possibilità industriali, piuttosto per i vincoli di bilancio di queste società. Sostanzialmente non dispongono delle risorse necessarie per sopportare degli investimenti ad alto rendimento differito.

 

Da qualunque parte si analizza la realtà industriale italiana, la possibilità di fare politica industriale è limitata, oppure, ed è la stessa cosa, può fare leva solo un (troppo) ristretto numero di società, sia dal lato della specializzazione e sia dal lato della sostenibilità finanziaria.

 

Ma quante tasse pagano le società? Le aliquote fiscali sono troppo alte? A ben vedere l’aliquota fiscale sulle imprese italiane è tra le più alte di Europa, ma la base imponibile è estremamente “variabile”. La riduzione della base imponibile negli ultimi 2 anni ha nei fatti determinato una diminuzione del 40% degli oneri tributari. Ha concorso la riduzione delle aliquote Ires (dal 33% al 27,5% nel 2008), dell’Irap (aliquota ordinaria dal 4,25% al 3,9% sempre nel 2008), ma l’esito finale è disarmante. Sostanzialmente l’aliquota media delle 2022 società analizzate da Mediobanca passa dal 29,1% al 23,1%. Il tax rate minimo è quello emerso dai bilanci delle società quotate (11,8%), mentre permane la “penalizzazione” delle medie imprese seppur su livelli inferiori del 2007. Certamente la neutralità fiscale è un principio fondamentale per chiunque si occupa di sistema economico e impresa, ma con questi livelli di tassazione “effettiva”, molto distante da quella legale e molto più bassa della media europea, pone degli inquietanti interrogativi sul target del sistema economico nazionale.

 

Sempre nel rapporto Mediobanca sui dati cumulativi di 2022 società italiane (2009) si legge: “I nuovi debiti non hanno finanziato direttamente le acquisizioni, come verificatosi l’anno prima, ma – in ultima analisi – hanno finito per concorrere alla copertura della generalità degli esborsi, tra i quali come detto i dividendi distribuiti”. Estremizzando si può sostenere: i debiti delle imprese non sono più destinati agli investimenti, piuttosto alla remunerazione dei dividendi.

Difficile fare politica economica in queste condizioni. Forse un po’ di sana cultura liberale non guasterebbe, ma in Italia i liberali sono merce troppo rara.

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