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Politica industriale, il topolino di Renzi

29/06/2014

Quali effetti avranno gli aiuti alle imprese varati da Renzi? Secondo Bankitalia questi incentivi raramente hanno portato a investimenti tecnologici aggiuntivi

Il governo Renzi sta adottando i primi provvedimenti che vagamente riprendono i temi di politica economica e industriale, con la pretesa di rilanciare gli investimenti, la Borsa e una qualche semplificazione fiscale. Sono tre i cardini del decreto legge e del decreto attuativo: la così detta semplificazione fiscale (IVA e perdite di esercizio), la finanza a favore delle imprese (azioni con più voti, capitale per le spa, obbligazioni), il rafforzamento della struttura delle imprese (investimenti, energia, capitalizzazione, energia). L’effetto economico sarebbe imponente stando alla bozza della relazione tecnica. Sono numeri da capogiro: gli investimenti dovrebbero crescere per 8,2 mld di euro in ragione di un credito d’imposta del 15%; il sostegno al credito attraverso fonti di finanziamento alternativo alle banche potrebbe muovere risorse per 20 miliardi; la crescita della Borsa e del mercato non regolamentato, via corporate bond, super ACE, nuove obbligazioni e voto plurimo (due voti) per le azioni detenute, facilitazioni per la creazione di Spa, dovrebbe guidare le imprese italiane verso sistemi di governance più coerenti con il mercato internazionale. Sempre dalla relazione tecnica è possibile intravedere qualcosa che più di altre assomiglia ad una bozza di politica industriale. Infatti, il bonus per gli investimenti si applicherà per apparecchiature e macchinari e saranno esclusi i capannoni, i computer come i software e brevetti. Si tratta, sostanzialmente, di incentivi destinati all’acquisto, sottolineo la parola acquisto e non dimenticatela, di macchinari per la manifattura. La stessa soglia degli investimenti agevolati sembra privilegiare le imprese di media dimensione: 10.000 euro. La copertura finanziaria passa attraverso il bancomat del fondo sviluppo e coesione, la riduzione degli incentivi alle energie rinnovabile, su questo punto il governo ha proprio ragione, e la possibilità, dopo il 2019, di aumentare l’accisa su carburanti. La notizia non è banale: per la prima volta la spending review non concorre alla copertura dei provvedimenti.

La semplificazione fiscale sembra più che altro una agevolazione per pagare meno tasse. In particolare trovo ingiustificata la misura (delega fiscale) che punta a estendere da 3 a 5 anni il periodo in cui una società può chiudere in rosso senza rischiare penalizzazioni fiscali come l’aliquota IRES maggiorata al 38%, così come l’agevolazione per facilitare i rimborsi IVA. Le imprese per loro natura devono produrre profitti o al limite avere costi e ricavi in pareggio. Immaginare una impresa che per 5 anni non produce utili è irrealistico, se non nella misura di eludere una parte delle tasse dovute allo Stato. Proprio la crisi intervenuta a partire dal 2007 dovrebbe avere insegnato qualcosa: se le imprese non producono utili chiudono. Il mercato si incarica di escluderle, non per ragioni fiscali, ma perché producono una perdita per tutto il paese. Diversa sarebbe stata una iniziativa che favorisse la riconversione delle imprese via management pubblico verso nuove attività e prodotti. La riduzione del 25% della produzione industriale non ha nulla a che vedere con la possibilità di (non) pagare le tasse, piuttosto con quello che si produce.

La finanza, l’accesso al credito e il ricorso al mercato regolamentato e non regolamentato possono concorrere allo sviluppo di un sistema d’impresa più moderno, ma lo strumento adottato incontra dei vincoli di struttura che la leva fiscale e il diritto (governance) delle imprese con difficoltà possono risolvere. In altri termini, le imprese diventano spa, emettono azioni e obbligazioni in ragione della propria struttura produttiva, non per motivazioni squisitamente fiscali e civilistiche. Certamente abbassare la soglia a 50.000 euro per la costituzione di una spa concorre alla modifica del nanismo industriale italiano, ma il nanismo industriale è figlio della specializzazione produttiva, non del sistema tributario e del diritto d’impresa. Pur con le dovute differenze tra l’Italia e la Germania, la presenza di Spa o meno è data dal che cosa e dal come si produce. Più di tanto il diritto, almeno in Europa, non può differenziarsi. Tecnicamente le imprese che vogliono realizzare profitti, utilizzano gli utili come base per rafforzare gli investimenti, cioè consolidano la propria patrimonializzazione indipendentemente dall’ACE (aiuto alla crescita economica), e si quotano in borsa per anticipare i profitti futuri via ri-valutazione delle proprie azioni. C’è poi un aspetto che dovrebbe interrogare la Ministra Guidi e Padoan. Comprendo la difficoltà delle imprese nell’accesso al credito, ma proprio la relazione della Banca d’Italia ha spiegato chiaramente che la domanda di credito è caduta molto più velocemente dell’offerta di credito. Qualcosa potrebbe suggerire alla Ministra Guidi? La possibilità per assicurazioni e società di cartolarizzazione di finanza e imprese di erogare credito alle imprese rischia di alimentare un mercato non regolato dalla BCE. La BCE usa lo strumento ABS (asset backet securities), che si fonda sullo stesso principio, ma agisce sulla soglia del credito delle banche in sofferenza, lasciando una maggiore libertà. Il sistema è più controllato e comunque legato a credito per nuovo investimento. La BCE usa questo modello perché al momento non ha nessun altro strumento, anche se gli piacerebbe tanto averlo ma la politica è ancora in letargo.

Il rafforzamento della struttura produttiva via nuovi investimenti (agevolati) è un vecchio cavallo di battaglia. Giavazzi con il governo Monti si era impegnato a tagliare queste agevolazioni, in altri periodi sono state proposte delle leggi che finanziavano di tutto (Tremonti). Nessuno si è mai posto la domanda se questi incentivi finanziano investimenti aggiuntivi oppure favoriscono l’elusione fiscale degli investimenti già programmati. Seguendo alcune tesi e osservando alcuni rapporti della Banca d’Italia si evince che questi incentivi non producono nulla di più dell’incentivo stesso. In altre parole non è stato osservato nessun investimento aggiuntivo. Ma la questione è forse più grave. Ricordate quando prestavo attenzione alla parola acquisto dei beni strumentali a favore delle imprese manifatturiere? Questa è la situazione. Durante la crisi il mercato si è incaricato non solo di ridurre la produzione industriale del 25%, con la conseguente chiusura di molte imprese che da tempo erano fuori mercato, ma di spezzare la produzione industriale che più di altre favorisce l’uscita dalla crisi, cioè la produzione di beni strumentali, crollata del quasi 30%, mentre in Germania è aumentata del 3%. Se una impresa realizza un investimento in beni strumentali con difficoltà sarà prodotto da una impresa italiana, cioè questi investimenti produrranno lavoro buono in paesi diversi dall’Italia, senza spezzare il vincolo tecnologico. Solo in Italia l’intensità tecnologica degli investimenti privati è rimasta al livello degli anni ’90 (Lucarelli, Palma, Romano, Moneta e Credito), mentre in tutti i paesi ha raggiunto quasi il 40%. Forse il problema del paese non sono gli investimenti in quanto tale, piuttosto l’impossibilità di generare la conoscenza sufficiente per non importare certi beni strumentali.

Renzi ha prodotto una tempesta in un bicchier d’acqua, ma forse è più pericolosa la complicità di molti opinionisti.

 

 

 

 

 

 

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