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Il paese delle disuguaglianze inaccettabili
Impegnarsi a combattere le disuguaglianze inaccettabili è una battaglia per la modernizzazione. Un estratto dall'ultimo libro di Maurizio Franzini
I vantaggi dei figli dei più ricchi, nel nostro paese, nascono in gran parte in mercati (e in circuiti politici) che non funzionano come dovrebbero, che non riservano a individui “identici” un trattamento uguale, come vorrebbe l’imparzialità. Per questa loro debolezza, essi lasciano il campo aperto alla forza delle relazioni sociali che si concentra nelle mani dei più ricchi.
Le relazioni sociali sembrano essere la risorsa principale che le famiglie mettono a disposizione dei loro figli. Una risorsa anche più importante, nel determinare i vantaggi di questi ultimi, del capitale umano che, invece, ha un ruolo preminente in altri paesi nei quali la trasmissione intergenerazionale è di intensità simile. Mi riferisco soprattutto agli Stati Uniti ove l’alta immobilità – che molti, anche da noi, tendono a sottovalutare, continuando a credere che l’American Dream sia una realtà [1] – è determinata soprattutto dai vantaggi che i ricchi trasmettono ai propri figli consentendo loro di accedere alla formazione universitaria, che in questo paese assicura elevatissimi differenziali retributivi, soprattutto se si frequenta una delle top Universities.
(…) Il capitale umano è, per noi, certamente un problema ma non è il problema principale per la trasmissione delle disuguaglianze. Qui domina, se si può usare questa espressione, il capitale relazionale che, in questa accezione e a differenza del capitale umano, ha valore solo per chi lo possiede e non anche per la società nel suo complesso. È questo capitale che decide a chi attribuire un gran numero delle migliori e delle più retribuite tra le occupazioni disponibili e questo suo potere non si potrebbe manifestare se i mercati (per non parlare dei circuiti politici) fossero più imparziali di quanto in realtà non siano. (…)
In effetti, questo meccanismo di immobilità sociale ha diverse sfumature, e forse anche qualche decisa pennellata, che lo avvicinano più all’ancien règime che non a un sistema sociale ed economico da epoca moderna. Quest’ultima dovrebbe caratterizzarsi perché le posizioni sociali ed economiche vengono assegnate sulla base di meccanismi imparziali e anonimi, di cui un mercato ben funzionante potrebbe essere l’espressione più compiuta. Quando, invece, contano, e non poco, le relazioni sociali si viene proiettati in un meccanismo del tutto diverso, certamente non anonimo e molto spesso non imparziale. In quel meccanismo, come nell’ancien règime, i nomi e i cognomi contano più o almeno quanto le abilità e le competenze. Naturalmente questo non avviene sempre e dappertutto, ma quasi certamente spesso e in molti luoghi.
(…) Non sappiamo abbastanza per ricostruire con precisione la storia del nostro paese dal punto di vista della mobilità e delle disuguaglianze inaccettabili. Ma è probabile che nel corso degli anni ’90 del secolo scorso si sia prodotto un insieme di eventi che hanno rappresentato una svolta.
La disuguaglianza è cresciuta e questo costituisce un fattore che può contribuire, specie quando interessa il top della distribuzione, a rafforzare l’influenza delle relazioni sociali; nel mercato del lavoro sono cresciute le occasioni di “parzialità” con l’introduzione di una varietà di forme contrattuali; i circuiti politici, malgrado alcune speranze di segno opposto, non hanno ridotto la loro esposizione all’influenza, anzi; una crescente discrezionalità si è insinuata nel funzionamento di molti organi di governo, in particolare il centro ha perso progressivamente il controllo degli enti periferici che hanno spesso fatto un uso poco virtuoso della propria discrezionalità; inoltre, anche le innovazioni tecnologiche che hanno creato mercati “immensi” e hanno favorito il diffondersi dei casi in cui “il vincitore prende tutto” possono avere contributo a dare nuove occasioni per affermarsi alle relazioni sociali.
Per tutti questi motivi appare ragionevole sostenere che impegnarsi a combattere le disuguaglianze inaccettabili equivale, nel nostro paese, a intraprendere una battaglia per la modernizzazione.
Modernizzare per combattere le disuguaglianze inaccettabili vuol dire: restringere fortemente la possibilità di retribuzioni differenziate a parità di prestazioni e di requisiti per svolgerle; ridurre i benefici di cui si appropria, nei mercati con queste caratteristiche, il “vincitore che prende tutto”; combattere le rendite che spesso consentono arbitrii nell’uso delle risorse e nella scelta delle persone; ridurre, un po’ ovunque, l’area della decisione discrezionale.
(…) Anche una misura di compensazione ex post delle disuguaglianze inaccettabili, come il reddito di cittadinanza graduato in base alle condizioni di origine e in modo da colmare lo svantaggio di partenza, che è stato proposto nell’ultimo capitolo, può contribuire ad ammodernare il nostro complessivo sistema economico e sociale. Questo dovrebbe, infatti, essere l’effetto dell’introduzione di uno strumento che risponde a un principio chiaro e alto (compensare gli svantaggi familiari) in un Welfare piuttosto disastrato come il nostro, dove prevalgono usi impropri degli strumenti e evidenti parzialità.
(…) Ma, come si è detto, un progetto di questo tipo rischia di trovare nelle alte disuguaglianze correnti un fattore di freno, un ostacolo, anche politico alla sua realizzazione. Per portarlo avanti occorre un soggetto politico determinato, che sappia superare quegli ostacoli che si alimentano della “collaborazione” tra classe politica e avvantaggiati dalle disuguaglianze inaccettabili.
Questo soggetto dovrebbe avere chiaro che una politica per le disuguaglianze accettabili non è, di per sé, una politica per la crescita dei redditi e per la generalizzata mobilità assoluta ascendente. È cosa diversa, e lo è perché la democrazia, l’equità e anche l’efficienza non si alimentano solo di redditi più alti per tutti. Occorre fluidità sociale, occorre facilitare e non ostacolare i “sorpassi”, eventualmente promettendo a tutti che potranno, comunque, accelerare.
(…) Quel soggetto politico dovrebbe, quindi, avere chiaro che – malgrado le diffuse e poco fondate idee di diverso tenore – non è con la crescita che si combattono le disuguaglianze e meno che mai si combattono con essa le disuguaglianze inaccettabili; la crescita, anche se desiderabile di per sè, non può sostituire in alcun senso una specifica e ben articolata politica per le disuguaglianze accettabili. Queste politiche non consistono soltanto di redistribuzione ex post (le sole alle quali normalmente si pensa, e con malcelata preoccupazione, quando si parla di combattere le disuguaglianze), esse contemplano, al contrario, un’ampia gamma di interventi diretti a incidere sul funzionamento delle istituzioni, ed in particolare sui mercati, per renderli più imparziali, che non vuol dire, esattamente o soltanto, più competitivi.
(…) Come è accaduto in altre epoche storiche, potrebbe essere che partendo dalla disuguaglianza si vada molto lontano. Forse più lontano di dove si può andare parlando in modo ossessivo e a ore alterne di austerità e di crescita.
[1] Un esempio, tra gli altri: nell’interessante libro di Ainis sui privilegi nel nostro paese (Ainis 2012) si legge che in termini di disuguaglianza Stati Uniti e Gran Bretagna fanno peggio di noi “però da quelle parti ciascuno ha la possibilità di riscattare la propria condizione perché c’è dinamismo, mobilità sociale. In Italia, viceversa, vieni al mondo con la palla al piede”. I dati che abbiamo esaminato non danno conforto a questa affermazione.
(Il testo pubblicato è un estratto delle conclusioni del volume "Disuguaglianze inaccettabili. L'immobilità economica in Italia" edito da Laterza)
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