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Come siamo diventati diseguali. Un libro
L'aumento delle diseguaglianze nel nostro paese, la loro persistenza. In "Ricchi e poveri", da poco in libreria, un'analisi delle radici dell'Italia ingiusta
Pubblichiamo alcuni stralci dal libro di Maurizio Franzini, “Ricchi e poveri. L'Italia e le disuguaglianze (in)accettabili”. In particolare, anticipiamo una parte del capitolo “La distribuzione del reddito in Italia: i fatti”.
L’alta disuguaglianza è un tratto distintivo del nostro paese oramai da molti anni. Dopo un periodo di tendenziale diminuzione, tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, le distanze nei redditi disponibili delle famiglie italiane, già alte nei confronti internazionali, si sono ulteriormente e repentinamente ampliate tra il 1992 e il 1993. In base ai dati del Luxembourg Income Studies, il coefficiente di Gini era al 29 per cento nel 1991 ed è saltato al 34 per cento nel 1993. Successivamente, si sono avute limitate oscillazioni e questo consente di parlare di una situazione di stazionarietà della disuguaglianza, almeno come rilevata dal coefficiente di Gini, che si è protratta per circa un quindicennio, fino alla crisi del 2008 dei cui effetti è troppo presto per parlare.
Secondo l’Ocse, il coefficiente di Gini in Italia è peggiorato di circa 3 punti tra metà degli anni Ottanta e metà degli anni Novanta e di un ulteriore punto circa nel decennio successivo. Per dare un’idea approssimativa di che cosa questo significhi, si consideri che un peggioramento del Gini del 2 per cento si avrebbe, approssimativamente, se tutti coloro che fanno parte del 50 per cento più povero della popolazione perdessero il 7 per cento del proprio reddito a vantaggio del 50 per cento più ricco. In numerosi altri paesi avanzati la disuguaglianza è cresciuta nel corso degli ultimi due decenni, ma in momenti diversi e attraverso processi differenti per durata e severità. Con riferimento al ventennio iniziato a metà degli anni Ottanta, risulta (in base ai dati Ocse) che in questo periodo la disuguaglianza si è ridotta piuttosto significativamente in Francia, Spagna, Grecia e Irlanda. Mentre, in quegli stessi due decenni, Danimarca e Olanda hanno seguito un andamento alterno, con miglioramenti iniziali a cui ha fatto seguito un peggioramento.
Comunque, negli anni a noi più vicini, la disuguaglianza risulta in aumento anche in molti paesi europei, tra cui Svezia, Norvegia, Finlandia e, in particolare, Germania. Queste tendenze non sono facili da spiegare e, d’altro canto, forze diverse sembrano aver operato in momenti diversi. Ad esempio, secondo la ricostruzione dell’Ocse, tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, in quasi tutti i paesi considerati la disuguaglianza è cresciuta principalmente per effetto di evoluzioni negative dei mercati. Questo peggioramento sarebbe stato parzialmente contrastato dai Welfare State, che hanno accresciuto l’efficacia dei propri interventi ridistributivi. Nel periodo che va da metà degli anni Novanta al Duemila, invece, la tendenza prevalente sembra essere stata verso una riduzione delle disuguaglianze di mercato e i peggioramenti, dove si sono verificati, vanno imputati soprattutto alla ridotta capacità del Welfare di correggere le disuguaglianze.
Guardando all’intero periodo, sembra però di poter dire che gran parte del peggioramento è imputabile all’accresciuto contributo negativo delle disuguaglianze di mercato.
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In Italia, tra i primi anni Ottanta e la fine del secolo, la disuguaglianza di mercato, in linea con le tendenze generali, è cresciuta molto in una situazione di bassa capacità ridistributiva del Welfare che, però, contrariamente a quel che è avvenuto altrove, sarebbe leggermente aumentata a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, cioè dopo il drastico aumento della disuguaglianza del 1992-93. Quest’interpretazione deve essere presa con molta cautela, soprattutto perché la stima della capacità ridistributiva del Welfare è questione estremamente complessa e, quindi, soggetta a non irrilevanti margini di errore. I problemi oltre che dalla confrontabilità dei dati nascono da difficoltà metodologiche definire, in alcuni casi, lo stesso fenomeno da stimare. È questo il caso delle pensioni che hanno una componente attuariale (cioè di trasferimento attraverso forme di risparmio del proprio reddito nel tempo) e una componente puramente ridistributiva.
Le ragioni del drastico peggioramento del 1992-93 sono molteplici, anche se non definitivamente accertate. Uno dei fattori di più lunga durata che vi contribuì fu, probabilmente, l’abolizione della scala mobile avvenuta a metà degli anni Ottanta, fatto che comportò la scomparsa di un meccanismo di compressione delle disuguaglianze salariali quale era stato, negli anni Settanta, il punto unico di contingenza. Una causa più immediata fu certamente la grave crisi valutaria ed economica in cui il paese incappò nel 1992 e che portò il governo Amato ad attuare una manovra restrittiva severissima, il cui impatto sugli strati più deboli della popolazione è stato complessivamente molto marcato e sicuramente più profondo di quanto non si fosse immediatamente considerato, anche a causa della mancanza di ammortizzatori sociali, allora persino più grave di quanto non sia oggi.
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Non meno problematico del peggioramento di circa venti anni fa è un altro aspetto della situazione italiana e cioè l’apparente invarianza che il coefficiente di Gini e altri indicatori segnalano per tutti gli anni successivi, almeno fino alla crisi del 2008. (….)Anche l’invarianza potrebbe essere considerata un problema. Siamo da tempo, anche prima del peggioramento del 1992-1993 un paese a disuguaglianza comparativamente molto alta. Interrogarsi su che cosa renda l’Italia un paese a persistente alta disuguaglianza appare non meno interessante che chiedersi se davvero non ci siano stati peggioramenti negli anni più recenti.
Movimenti nascosti
L’invarianza della disuguaglianza che i principali indicatori rilevano da circa quindici anni non equivale ad assoluta immobilità. (…) Nel corso degli ultimi quindici anni la collocazione delle famiglie nelle varie classi di reddito (normalmente indicate come decili, cioè come gruppi contenenti ciascuno il 10 per cento delle famiglie ordinate in funzione crescente del reddito) è notevolmente cambiata.
In base alle stime effettuate da Massari, Pittau e Zelli (2009) su dati provenienti dall’indagine della Banca d’Italia, tra il 1989 e il 2006 si sono avuti significativi movimenti nella distribuzione degli individui tra i diversi decili di reddito. Le famiglie che nel 1989 avevano un reddito inferiore alla mediana – che, quindi, facevano parte del 50 per cento più povero –, nel 1993 erano retrocesse verso i decili più bassi. Tra il 1993 e il 1998 si è verificato un travaso di famiglie dai decili medio-bassi e medio-alti verso quelli centrali. Successivamente al 1998, invece, ha avuto luogo un fenomeno opposto, di vera e propria polarizzazione, cioè di rigonfiamento dei decili estremi, in alto e in basso, con svuotamento di quelli intermedi. Quando si parla di scomparsa del ceto medio si allude, probabilmente esagerando un po’, a una situazione di questo tipo, almeno con riferimento alla sfera economica. Questo fenomeno di polarizzazione è spesso considerato pericoloso, in quanto segnala un forte scollamento nel grado di coesione sociale e può condurre ad aspri conflitti. Anche al di là di questo timore, la polarizzazione appare ben poco gradevole perché rischia di innescare processi di segregazione che a loro volta alimentano conseguenze la cui accettabilità sotto il profilo della giustizia sociale è davvero scarsa.
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A queste evoluzioni si è accompagnato un significativo cambiamento nelle probabilità che gli individui hanno di restare, nel corso del tempo, nella classe di reddito nella quale vengono originariamente a trovarsi, piuttosto che muoversi verso l’alto o verso il basso. Secondo una stima recente, tra la metà degli anni Novanta e la metà del primo decennio di questo secolo si è avuto un aumento della persistenza degli individui nel quintile (cioè nel 20 per cento della popolazione) più povero (la probabilità di persistenza è passata dal 48,4 per cento al 57,9 per cento). Ciò vuol dire che la probabilità di sfuggire a una condizione vicina a quella di povertà si è ridotta e che molti hanno sperimentato una più lunga permanenza in questo stato. Contemporaneamente si è avuta una riduzione della persistenza nei due quintili più ricchi, mentre la probabilità complessiva di rimanere nei due residui quintili centrali non è molto variata. Pertanto, si è ridotta la persistenza nel quarto quintile (classe medio-alta, che passa dal 47,7 per cento al 33,5 per cento) e, per questa classe, è aumentata la mobilità verso il basso (la probabilità di passare al quintile inferiore è salita dal 22,7 per cento al 30,3 per cento e quella di scendere di due classi è quasi raddoppiata). Infine, se nel primo periodo i flussi in uscita dalla classe intermedia si dirigevano con maggior frequenza verso l’alto, nel secondo essi risultano maggiormente indirizzati verso il basso (la probabilità di salire è passata infatti dal 34,4 per cento al 19,3 per cento, mentre quella di scendere di una classe è aumentata dall’8,9 per cento al 23,4 per cento). I diversi fenomeni di peggioramento hanno riguardato, apparentemente, quasi soltanto i lavoratori dipendenti; quanti, tra costoro, facevano parte della classe media e medio-alta sembrano essere diventati più poveri e, nello stesso tempo, più esposti al rischio di volatilità. La maggiore volatilità dei redditi, principalmente degli operai ma in generale di tutti coloro che percepiscono redditi più bassi, trova conferma in altri studi. Questo fenomeno relativamente nuovo, e piuttosto negativo, coinvolge soprattutto i giovani e si manifesta in modo particolare nel mercato del lavoro. Un fenomeno di questo tipo sembra rientrare in una più generale tendenza di questi ultimi anni: quella, di trasferire molti rischi sociali, e principalmente quelli connessi alla sicurezza del reddito, dalla società ai singoli. Questa tendenza non ha soltanto implicazioni sul terreno dell’equità: infatti, può anche introdurre nel sistema elementi di inefficienza perché porta a rinunciare a vantaggi di una strategia collettiva di riduzione di questi rischi che hanno costituito una delle ragioni di fondo della nascita e dell’affermazione dei Welfare State.
(stralci scelti a cura della redazione. Le parti mancanti sono state evidenziale con (...), e sono state eliminate note e riferimenti bibliografici).
Maurizio Franzini. “Ricchi e poveri. L'Italia e le disuguaglianze (in)accettabili”. Egea ed., aprile 2010. per info:
http://www.egeaonline.it/ITA/Catalogo/Scheda_prodotto.aspx?ISBN=9788883501388
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