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L'auto in riserva e la portiera aperta

24/02/2010

La politica, la scienza, il futuro. Il clima non migliora dopo Flopenaghen. Cosa possiamo cominciare a fare per evitare il peggio

Siete alla guida, di fianco a vostra moglie, dietro di voi il bambino. La radio accesa blatera dei soliti problemi ma voi siete distratti da una questione urgente, l’auto è in riserva da un pezzo e non si vedono stazioni di rifornimento, c’è il rischio di restare a piedi. All’improvviso vostra moglie, dopo aver dato un’occhiata alle sue spalle, esclama: “Oddio, la porta del bimbo è chiusa male!!”. Che fareste? Ovvio, dite voi, accosto più in fretta che posso, scendo dall’auto, chiudo bene la portiera e poi riparto.

E invece no, infastiditi dalla voce di vostra moglie, con cui avete avuto un battibecco qualche minuto prima sulle solite questioni di soldi, non le date retta, allora lei alza la voce e ordina in tono isterico "Fermati, che il bimbo rischia di cadere!". "Ma che dici?", e contorcendo un po' il collo provate a guardare anche voi, senza esito perché siete dalla parte sbagliata. In quell'istante la strada fa una curva stretta e la portiera del bimbo, che era davvero mal chiusa, si apre.

 

Il finale della storia è aperto, non è detto che il bimbo cada, magari si aggrappa istintivamente a una maniglia, oppure se cade non è detto che muoia, magari si fa un po' male e basta, magari invece batte la testa sull'asfalto e tutto termina in un’orribile atmosfera di tragedia.

 

In questa storiaccia il padre che guida rappresenta la politica, la madre è la scienza, il bimbo rappresenta invece ciò che abbiamo di più caro, la vita nostra e delle generazioni future. L'auto in riserva è l'economia in crisi, che tanto preoccupa i governi, la porta che si apre è invece il problema climatico, un'imprevista e potenzialmente funesta conseguenza del nostro viaggio in macchina, che a sua volta rappresenta lo sviluppo economico e tecnologico che caratterizza la nostra civilizzazione occidentale (e da un po’ anche quella orientale).

 

L'ostinazione irritata con cui il guidatore non dà retta alla moglie che strilla equivale al comportamento recente dei governi del mondo a Copenaghen dove, dopo anni di trattative, non si è concluso nulla, anzi peggio, si è detto "sì, vogliamo evitare che il nostro bimbo cada, la portiera è effettivamente aperta, ma per il momento abbiamo altro da pensare che fermarci a richiuderla”.

 

Un comportamento folle, da pazzi irresponsabili. Un rischio insopportabile trascurato con un’alzata di spalle, roba da divorzio non solo tra scienza e politica, ma tra l’umanità e i suoi cosiddetti governanti.

 

Faccio notare che il solo governante occidentale che in questi anni abbia preso davvero sul serio la questione climatica, al punto da produrre una nuova politica e fare una proposta rilevante ai suoi partner internazionali è stata Angela Merkel, donna di formazione scientifica, e non economica o legale, assurta al rango di cancelliere della Germania unita e poi di presidente di turno dell’Unione europea all’epoca del varo della cosiddetta politica europea del 20-20-20. Come ognuno sa questa politica europea prevede il taglio del 20% delle emissioni di anidride carbonica in Europa entro il 2020 e una quota del 20% di fonti rinnovabili, ma il progetto prevedeva di portare il taglio al 30% se altri paesi industrializzati avessero accettato di fare altrettanto. Per restare in Europa, c’è Sarkozy che si dichiara molto preoccupato ed “ecologista” ma poi ha costruito una legge per l’introduzione della “taxe carbone” in Francia talmente mal fatta che la Corte costituzionale gliel’ha bocciata lo scorso 29 dicembre, due giorni prima della sua entrata in vigore.

C’è la Gran Bretagna di Gordon Brown, che anche lui si dichiara molto preoccupato per il clima ma non riesce a varare un serio programma nazionale di energie rinnovabili, al punto che l’estate scorsa la grande azienda danese Vestas, che fa turbine eoliche, ha chiuso il suo stabilimento inglese dell’isola di Wight e spostato la produzione negli Usa e in Cina, paesi dove invece l’eolico cresce a due cifre. Usa e Cina occupano però rispettivamente la seconda e prima piazza mondiale nello sport di emettere CO2 in atmosfera, insieme fanno quasi la metà delle emissioni globali, e quindi hanno il preciso dovere di addivenire ad un accordo vincolante per il taglio delle emissioni stesse. Invece Obama e Hu Jintao, prima di Copenaghen, in un incontro a Singapore, si sono accordati per il nulla di fatto che ha trasformato la conferenza COP15 in quel pessimo risultato che con scherno abbiamo definito, forse primi al mondo, come Flopenaghen.

 

E adesso che si fa? Aspettiamo che il senato americano si decida, previa annacquatura, ad approvare la nuova legge sull’energia? Aspettiamo che i cinesi installino qualche altro gigawatt eolico nella speranza che serva a ridurre la loro insaziabile domanda di carbone? Aspettiamo che tra dieci anni l’Enel attivi in Italia le famose centrali nucleari francesi Areva, quelle simili all’impianto finlandese in costruzione, il cui cantiere subisce continui ritardi e aumento dei costi a causa di ogni sorta di difetti? Continuiamo a fare il tifo per la crisi economica, che sola sembra capace di abbattere davvero le emissioni serra, persino negli Usa (ma non nella Cina)? Non lo so. Quel che è certo sono i 500 miliardi di tonnellate di CO2 che abbiamo già ficcato in atmosfera e che stanno già cambiando il clima, il quale diventa sempre più caldo e instabile, provocando gravissimi danni alle persone, alle cose, e alla sacra economia di mercato. Danni cui si aggiungono quelli indotti da decisioni avventate come quella di combattere le emissioni di CO2 nei trasporti non riducendo dimensioni e percorrenze dei veicoli, ma sostituendo benzina e nafta con carburanti vegetali, con impatti pesantissimi sulla povertà (aumento dei pezzi delle derrate) e sulle foreste tropicali (distrutte per far posto a coltivazioni energetiche). Quel che è certo è che i cambiamenti climatici continueranno anche se Obama e Hu Jintao si ravvedessero e firmassero quest’anno un patto vincolante alla COP16 in Messico, o dove diavolo vogliono loro. Perché un veicolo in corsa, anche se uno frena, per un po’ continua a muoversi. E quindi ha ragione chi dice “concentriamoci sull’adattamento”, cioè facciamo pure quel che possiamo per ridurre le emissioni, ma non trascuriamo la necessità inderogabile di adattare città e campagne al clima che verrà, che sta già arrivando. Alcuni esempi di adattamento si vedono già: dopo la strage dell’estate 2003 molti amministratori sono corsi ai ripari e hanno adottato piani di prevenzione, che si attivano appena si avvicina l’estate. Altre amministrazioni hanno adottato piani di sorveglianza e contenimento del consumo idrico, sia civile che agricolo, o di stoccaggio dell’acqua in bacini artificiali quando c’è, per usarla nei tempi sempre più lunghi in cui non c’è. Si arriverà a fare ben altro, ne vedremo delle belle e delle meno belle, comunque non sarà più lo stesso clima, che lo vogliamo o no.

 

* testo pubblicato anche su Cenerentola, anno 9 n. 121, febbraio 2010 (http://www.cenerentola.info/archivio/numero121/articoli_n.121/att116.html)

 

 

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