Home / Dossier / Verso Copenhagen / Copenhagen: chi rompe paga davvero?

Ultimi link in questa sezione

22/12/2009
Speranze deluse a Copenhagen
20/12/2009
Copenhagen secondo la Cina
14/12/2009
Il piano B di Copenhagen
12/12/2009
Copenhagen: chi rompe paga davvero?
11/12/2009
Non solo soldi. Cronache da Copenhagen
08/12/2009
Guardiamo già al dopo Copenhagen
27/11/2009
Una sfida per l'umanità? Guida informata ai cambiamenti climatici

Copenhagen: chi rompe paga davvero?

12/12/2009

Chi rompe, paga?Copenhagen, 11 dicembre

di Alberto Zoratti*

Come si dice negli Stati Uniti? Chi rompe paga. E’ questo che il capo negoziatore boliviano, e capo delegazione per i Paesi dell'Alleanza bolivariana delle Americhe Pablo Solon, ha mandato a dire al capo negoziatore statunitense Todd Stern. L’americano, infatti, pur ammettendo il debito ecologico che gli Usa hanno con il mondo, ha spiegato a mezzo stampa ai Paesi in via di sviluppo che essi non intendono sostenerlo sulle proprie spalle. Certo che però, aggiungiamo con un adagio più italiano, se si parla del riscaldamento globale i “cocci” sono distribuiti su tutto il pianeta, senza riguardo per le responsabilità diverse di ciascuno.

 

Come dare torto alla Bolivia, infatti, quando contesta al presidente Obama e alla sua folta schiera di negoziatori che ammettere le proprie responsabilità sulla crisi climatica senza assumere le iniziative necessarie ad affrontarla, e' come bruciare una casa e rifiutarsi di ripagarla? Anche se il fuoco non e' stato appiccato a proposito, sostiene Solon, i Paesi industrializzati, a causa della loro inerzia, hanno aggiunto benzina al fuoco. Ha ragione: noi del cosiddetto “primo mondo” abbiamo consumato, così, oltre due terzi dell'atmosfera di tutti, privando tutti gli altri, la maggior parte degli abitanti del Pianeta, dello spazio necessario per il nostro sviluppo e provocando una crisi climatica di proporzioni ingestibili.

 

Ma nel quinto giorno di negoziati della COP15, mentre la plenaria taceva in attesa dell’arrivo dei leaders globali, lo scenario si è ancor più complicato. Cina e India, infatti, sembrano volersi smarcare sempre di più dal pattuglione dei Paesi poveri e giocare una partita propria “nel nome del realismo”, ha sostenuto l’establishment cinese dalle colonne di un lungo editoriale non firmato del China Daily. Il teorema è chiaro: i poveri, come le strapiccole isole Tuvalu che pur rischiano di finire a breve sott’acqua per colpe non proprie, non possono utilizzare la loro localissima situazione per buttare sul tavolo un accordo “su misura” troppo ambizioso, che rischia di far saltare il banco della trattativa. Cina e India, così, sembrano seguire il Brasile in una linea di moderazione che li vedrebbe accettare una proposta abbastanza “al ribasso”. Gli Stati Uniti, infatti, hanno già messo le mani avanti: al Senato americano è stata presentata una bozza bipartisan per legge per arrivare al taglio delle emissioni di gas serra del 17% entro il 2020. E’ certo un po’ pochino rispetto al traguardo di un taglio tra il 25 e il 40% rispetto al livello del 1990 entro il 2020 per i Paesi sviluppati e tra il 15 e il 30% per quelli in via di sviluppo previsti nella bozza presentata ufficialmente da Michael Zammit Cutajar, coordinatore del gruppo di lavoro su Long-Term Cooperative Action (AWG-LCA). Il testo cita anche un obiettivo a lungo termine riguardante tutti i paesi che prevede un taglio del 50-95 per cento entro il 2050. Con queste misure si cercherebbe di evitare un aumento delle temperature medie superiore a 1,5-2 gradi centigradi. Un limite, questo, che però “vuol dire la morte per l’Africa”, hanno ricordato i negoziatori del Gruppo africano.

 

I Paesi africani, le piccole isole, quelli meno sviluppati (LDCs) hanno organizzato ciascuno una propria conferenza stampa, quasi a non voler affidare ai soli “emergenti” l’ultima parola sul loro destino. Testimoni hanno rivelato, per di più, che nella notte il capo negoziatore del gruppo G77+Cina, Lumumba Stanislaus Di-Aiping è uscito contrariato da una sessione di confronto con i tecnici delle Nazioni unite, perché le posizioni dei diversi blocchi negoziali appaiono ancora molto distanti e ignorano le preoccupazioni dei più poveri. ''E' come vivere in una casa di due piani invasa dall'inondazione. C'e' una parte di mondo che vive al piano di sopra che ancora perde tempo con i numeri, e chi come noi vive al piano terra, che sta gia' lottando per soprvvivere". L'immagine è del negoziatore africano della Nigeria, e serve bene per chiarire il concetto. Quello di cui c'e' bisogno adesso ''e' che la trasparenza negoziale sia assoluta, e che i nostri leaders, quando arriveranno per la sessione negoziale vengano trattati al pari degli altri, e che si discuta con loro nelle stesse stanze nelle quali si negozia con gli altri'', hanno chiarito a una voce i negoziatori di Kenya, Nigeria, Senegal e Algeria. Hanno rilevato, infatti, di aver ricevuto dai due chair dei gruppi di lavoro sul Protocollo di Kyoto (KP) e su Mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici (LCA) le bozze di testo in discussione insieme alla stampa. I Paesi sviluppati, secondo il Gruppo Africano ''hanno presentato in questi giorni all'esterno molti elementi filosofici, ma all'interno non hanno fatto seguito elementi concreti. Abbiamo la necessita' di conoscere i numeri del loro impegno - hanno richiamato i negoziatori africani - perche' ci risulta che stiano facendo molti passi indietro in concreto rispetto agli obiettivi concordati a Bali''.

 

L’Europa, come avevamo annunciato ieri, ha tirato fuori dal cappello 2,4 miliardi di euro l’anno fino al 2012 per co-finanziare il pacchetto di “aiuti urgenti” che dovrebbe servire ai Paesi più poveri a coprire le proprie necessità di immediato adattamento e mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici e ad “oliare” il loro consenso ad un accordo finale “realistico” a Copenhagen. 600 milioni di euro in tre anni: è questa la cifra promessa da Berlusconi in questo ambito con una certa spavalderia, che si somma alle sue promesse dell’Aquila e a quelle sul Fondo Globale contro Aids, malaria e tubercolosi che l’Italia bellamente disattende ormai da qualche anno. Senza dimenticare anche che alla cooperazione internazionale il nostro Paese ormai destina appena lo 0,11% del nostro prodotto interno lordo, e che nella prossima Finanziaria il Governo di prepara ad operare un taglio da 402 milioni di euro ai già esigui fondi. Il che vuol dire avere a disposizione in concreto per il 2010 appena 326 milioni di euro per la solidarietà internazionale, di cui 123 milioni sono formalmente allocati a progetti già approvati e 30 milioni che se ne andranno in spese di struttura. Se i Paesi in via di sviluppo dovessero prendere questo nostro curriculum “all’amatriciana” come misura della serietà degli impegni di tutti i Paesi sviluppati, forse la penserebbero come molti dei loro cittadini, che preferiscono non fidarsi di tante promesse e manifestare in tutto il mondo contro questo brutto teatrino, cui una situazione ambientale tanto grave come quella che stiamo vivendo non può permettere a nessuno, né a Nord né a Sud di assistere in silenzio.

 

*biologo, socio fondatore di [Fair]. In diretta da Copenhagen www.faircoop.net/faircoop