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Il mezzogiorno senza capitale

14/07/2010

Il crollo degli investimenti manifatturieri, la generale riduzione della spesa pubblica in conto capitale, i fondi Fas dirottati verso altri scopi: ecco come l'Italia ha rinunciato allo sviluppo del sud

Il mezzogiorno d’Italia, già prima dell’attuale recessione economica, aveva manifestato, ancor più dell’intero paese, una crescente difficoltà nell’affrontare i nodi strutturali di crescita e modernizzazione del proprio sistema produttivo. Nell’ultimo quinquennio, questo ritardo si è ulteriormente accresciuto. Il sud cresce molto meno dell’Europa e molto meno dell’Italia. La persistente debole dinamica del suo pil, il rallentamento della produttività, la bassa partecipazione al mercato del lavoro, la scarsa capacità di competere a livello internazionale, l’inadeguatezza della struttura produttiva, l’ampiezza della sua economia sommersa e il peso di quella criminale, e il ridotto grado di efficienza della pubblica amministrazione ne contraddistinguono il recente sviluppo. Sebbene esistano differenze nella performance economica delle diverse regioni del sud d’Italia, il ritardo nello sviluppo di questa macroarea resta generalizzato sia rispetto alle regioni del centro-nord - che pure hanno evidenziato nel corso dell’ultimo quindicennio un netto rallentamento nella crescita - che rispetto alla media europea e ai territori europei in ritardo di sviluppo, come quelli della Germania e della Spagna, che hanno invece sperimentato progressi del reddito pro capite.

Il mezzogiorno rappresenta il 46 per cento del territorio italiano, vi si forma all’incirca il 25 per cento del pil nazionale, e vi si concentra il 35 per cento della popolazione italiana. Il ristagno nello sviluppo delle regioni meridionali non implica quindi solamente un ridotto tenore di vita, e un basso livello di benessere per i sui residenti, ma è anche un freno complessivo alla crescita dell’intera economia italiana che subisce il peso di questo ritardo. L’obiettivo della politica economica nazionale dovrebbe perciò essere quello di rilanciare l’economia del mezzogiorno. Tentare di elevare stabilmente il tasso di crescita del pil italiano e il suo livello occupazionale, senza assolvere a questo mandato appare francamente velleitario.

 

Si sostiene spesso che la storia del mezzogiorno è storia di sprechi e di clientelismi parassitari. Questa opinione coglie certamente nel molti elementi di verità, ma non esaurisce i fattori e i vincoli che spiegano le attuali difficoltà economiche del sud d’Italia. A guardare bene, i dati più recenti raccontano anche un’altra storia. Per sintetizzare è utile ricordare alcune cifre. Durante l’ultimo decennio, l’accumulazione di capitale nel sud si è manifestata principalmente nei comparti produttiviti meno competitivi. L’analisi settoriale degli investimenti mette difatti in evidenza fenomeni regressivi, manifestazione del crescente disagio dell’economia meridionale. Se calcoliamo il tasso di variazione percentuale annua degli investimenti fissi lordi totali tra il 2001 ed il 2008 emerge che a fronte di un valore cumulato dell’11% nel centro nord, si è registrato un valore di 9,3% per il sud. Tale segnale di scarsa dinamicità, e di divergenza tra le due aree, diviene poi ancora più evidente quando si noti che, sempre tra il 2001 ed il 2008, gli investimenti fissi lordi manufatturieri, a cui è tradizionalmente associato il più alto livello di produttività, hanno sperimentato nel meridione una variazione cumulata negativa pari al -15,7 per cento, contro il -5,1 per cento del centro-nord.

 

E’ bene ricordare che la compressione in atto degli investimenti nel mezzogiorno risente anche dell’indebolimento del processo di accumulazione del capitale pubblico. La spesa complessiva della pubblica amministrazione è oggi nel sud più bassa che nel resto del paese. La quota del mezzogiorno sulla spesa in conto capitale è scesa negli ultimi anni, dal 41,1 per cento del 2001, al 36.8 per cento del 2006, al 35.4 per cento nel 2007. Il valore stimato del 34,9 per cento per il 2008 è ben lontano dall’obiettivo del 40-45 per cento indicato fino allo scorso anno come target minimo per il riequilibrio territoriale e per lo sviluppo delle regioni meridionali, nei documenti governativi.

 

E’ importante ricordare che in Italia oltre alla pubblica amministrazione, operano altri enti pubblici che svolgono attività di gestione e investimento nei servizi di pubblica utilità. Queste aziende a capitale pubblico (o comunque tuttora partecipate, come l’Anas le Ferrovie dello Stato, Enel, Eni, Poste ed Aziende ex-Iri) impiegano risorse finanziarie e tecnologie investendo nei settori produttivi di riferimento, contribuendo alla spesa pubblica in conto capitale. Queste imprese sono però orientate ad una logica di mercato e in tal senso incontrano grandi difficoltà a realizzare un’azione redistributiva tra le aree del paese secondo gli indirizzi del decisore politico. L’insieme della pubblica amministrazione e di queste aziende costituisce il così detto settore pubblico allargato. Dall’analisi dei dati disponibili si evince che la debole spinta riequilibratrice, a favore del mezzogiorno, della spesa in conto capitale, che si era registrata tra il 1996 ed il 2001, è andata via via esaurendosi negli anni più recenti, soprattutto a causa della notevole concentrazione degli investimenti delle imprese pubbliche nazionali nel centro-nord. Dal 2002 l’area centro settentrionale del paese registra infatti una spesa media in conto capitale costantemente superiore rispetto al mezzogiorno (pari rispettivamente a 1.128 e 1.042 euro pro capite). Nell’ottica dello sviluppo, diviene quindi prioritario riflettere sul ruolo delle imprese pubbliche nazionali come attore di sviluppo nel mezzogiorno. Difatti, se la loro azione economica orienta gli investimenti verso quelle regioni del paese, già oggi, più ricche e profittevoli, nel medio periodo tenderanno ad acuirsi ulteriormente le disparità territoriali nord-sud ed il dualismo economico che contraddistingue la nostra economia. In questa prospettiva, diviene inoltre necessario ripensare al ruolo strategico dell’investimento pubblico, e alla necessità di ricostituire le risorse finanziarie atte almeno a compensare la quota decrescente di spesa in conto capitale effettuata dalle imprese pubbliche nazionali nelle regioni meridionali.

 

Questo ultimo punto ci conduce ad un aspetto non eludibile per valutare il mancato sviluppo del mezzogiorno, ossia l’ammontare di risorse stanziate per finanziare i programmi di sviluppo. C’è un problema di quantità della spesa per investimenti. Nel complesso, tra il 2001 ed il 2008 la spesa in conto capitale del settore pubblico allargato nel mezzogiorno è stata in media annua di poco inferiore ai 25 miliardi di euro a prezzi correnti (21 miliardi circa considerando solo la pubblica amministrazione), con una erosione dal punto di vista reale.1 In termini percentuali, la spesa in conto capitale diretta al mezzogiorno della pubblica amministrazione (senza enti pubblici) è stata pari al 37 per cento del totale, con una quota inferiore all’obiettivo programmatico, fissato al 45 per cento. La spesa pubblica in conto capitale destinata al mezzogiorno è stata dunque in tutti questi anni inferiore a quanto programmato, non eguagliando neppure il peso naturale del sud (pari a circa il 38% del rilievo geografico, economico e demografico nazionale). Vi è poi da considerare che la spesa in conto capitale aggiuntiva (nazionale e comunitaria) ha di fatto solo compensato il deficit di spesa ordinaria. Tuttavia, le risorse aggiuntive nazionali stanziate nel “Fondo Aree Sottoutilizzate” (Fas) per il settennio 2007-2013, pari a 64,4 miliardi euro e destinate del l’85 per cento al sud, hanno subito ampie erosioni, finanziando interventi diversi di politica economica attraverso l’utilizzo di disponibilità assegnate al Fas.2 A queste carenze di fondi si è affiancata la dispersione delle risorse aggiuntive per lo sviluppo, in una eccessiva molteplicità di interventi, rispondenti spesso a domande localistiche.

 

Dove ci conduce questo ragionamento? Il mezzogiorno deve tornare al centro dell’interesse nazionale in quanto nel lungo periodo la crescita italiana dipende dalla liberazione della potenzialità del sud. La riqualificazione del modello di specializzazione produttiva, l’innovazione tecnologica, il potenziamento degli investimenti pubblici e privati e il ripensamento sulle politiche per lo sviluppo rappresentano dei passaggi focali senza i quali è difficile immaginare incrementi stabili della produttività e dell’occupazione al sud. I dati che abbiamo ricorcato confermano però il convincimento che non è possibile rilanciare la crescita del mezzogiorno contando soltanto sull’iniziativa dei mercati, delle imprese e del lavoro. Occorre garantire un luogo di elaborazione strategica che indichi obiettivi selettivi di sviluppo favorendo un più forte coordinamento tra le regioni del mezzogiorno e l’amministrazione centrale, in una prospettiva di lungo periodo che valorizzando le risorse del sud rafforzi l’economia dell’intero paese.

 

1 Ministero dello Sviluppo Economico. Rapporto Annuale del DPS 2008.

 

2 Si veda A. Misiani (2009). “Il saccheggio dei Fondi FAS e la finzione dei fondi anti crisi”, working paper NENS, luglio 2009

Quest'articolo sintetizza il saggio "Mezzogiorno e Italia. Produttività, accumulazione e divario territoriale”, pubblicato nel volume Mezzogiorno: Una questione nazionale, a cura di Giovanna Altieri ed Emanuele Galossi dell’Istituto dell’IRES-CGIL, collana Studi & Ricerche, edizioni Ediesse, maggio 2010. (in allegato pdf)

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