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La domanda da fare al sud...Intervista a Carlo Donolo
Carlo Donolo insegna Sociologia delle istituzioni e dei sistemi complessi nella Facoltà di Scienze Statistiche dell’Università La Sapienza di Roma. Si occupa di questione meridionale, istituzioni, sviluppo, politiche pubbliche. Ha pubblicato, tra l’altro, Questioni Meridionali, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 1999, Il distretto sostenibile, Angeli, Milano 2005, Sostenere lo sviluppo, B. Mondatori, Milano 2007.
Nonostante le notizie che arrivano dal Sud siano sempre più allarmanti, la questione meridionale sembra essere uscita dall’agenda culturale e politica del paese.
La questione meridionale è da sempre soggetta ad un andamento ciclico che la porta talora a diventare tema nazionale di primario rilievo, talora ad essere dimenticata. Sono dei cicli che già più volte si sono succeduti.
Per esempio, quando negli anni Ottanta terminò l’intervento straordinario seguì circa un decennio di epoché, di sospensione di ogni idea di sviluppo, come pure di flussi finanziari.
Poi ci fu il rilancio con la nuova programmazione di Ciampi e le operazioni portate avanti da Fabrizio Barca, soprattutto per captare fondi comunitari e canalizzarli in progetti di sviluppo. Questa è un’operazione che ha preso un decennio, forse un po’ di più, che però si è andata esaurendo, di nuovo, alla metà degli anni 2000, intorno al 2005.
Sembra che col nuovo ciclo comunitario, dal 2007 al 2013, in fondo non ci sia per il Sud un’idea progettuale. D’altra parte non c’è più da parte del governo centrale un’attenzione al Meridione come a una questione nazionale, sia perché ha preso abbrivio la questione settentrionale, sia perché da sud, occorre dire, non si sono levate delle voci, non s’è formata la domanda “dateci qualcosa”, oppure “occupatevi di noi”, o ancora “permetteteci di occuparci di noi”.
E’ subentrata una fase di rassegnazione.
Quei progetti di sviluppo su cui tanto si era investito anche concettualmente -c’è tutta una sociologia dell’economia dello sviluppo locale tarata sul Sud- hanno portato a risultati alla fine insoddisfacenti. Lo sforzo non ha prodotto, non dico il risultato atteso, ma nemmeno quei minimi presupposti per un possibile sviluppo futuro. Non ci siamo sfangati. Essenzialmente non c’è stato l’incontro tra la razionalità del piano proposto e anche redatto nei documenti di programmazione, la progettazione integrata tipo i Pit (Programmi integrati territoriali) ed altre esperienze analoghe (che erano molto esigenti in termini di razionalità da parte degli attori) e i risultati effettivamente conseguiti. (In una conversazione come questa ritengo utili valutazioni anche drastiche, che poi nell’analisi distesa andrebbero sfumate e qualificate).
Sicuramente la società locale ha molto traccheggiato, anche per l’esistenza di conflitti tra interessi difficilmente componibili. E’ mancata una visione unitaria dei problemi dello sviluppo locale e di conseguenza si è fatto strada un uso molto strumentale dei programmi, per captare fondi, poi deviati dallo scopo per cui erano destinati.
E’ prevalsa così questa specie di amnesia della questione, sopraffatta dal battage rumoroso della questione settentrionale.
Intanto dal Sud venivano segnali molto problematici. Senza citare i casi estremi della Calabria e della Sicilia, quello che è successo in Campania, quello che recentemente è successo perfino in Puglia, fa pensare molto male.
Diciamo che anche nelle regioni nelle quali si era insediato un governo locale sufficientemente virtuoso, con una prospettiva strategica, che aveva delle idee, poi di fatto le pratiche correnti si sono molto banalizzate per un verso, e per l’altro verso si sono costruiti sistemi di potere locale in cui le transazioni restano molto oscure.
In queste vicende la sanità finisce sempre al centro, ma anche il governo del territorio; in quello che una volta si chiamava il governo delle rendite, resta tutto molto oscuro, molto dubbio, anche a prescindere dai problemi di corruzione nel senso stretto.
Questo modo di governare produce esiti, nel caso più blando, molto insoddisfacenti, ma nei casi più gravi vengono inferte proprio delle ferite sia al corpo sociale che all’apparato istituzionale. Quindi effettivamente brutti segnali di non tenuta: anche le regioni che avevano imparato in qualche modo a partecipare a quella razionalità comunitaria, proprio non ce l’hanno fatta.
Di qui una certa disillusione perché in fondo questo complicatissimo piano dello sviluppo locale sembrava aver partorito un topolino. E allora la reazione è stata: “Torniamo alla normalità”. E qual è la normalità? E’ quella della distribuzione a pioggia, della richiesta di fondi a sanatoria di deficit, della costruzione del consenso attraverso la finanza pubblica. Ancora una volta.
La società locale meridionale sembra non avere sufficienti anticorpi per reagire a questo stato di cose. Se uno va al Sud incontra continuamente soggetti nuovi, giovani ma non solo, che cercano di proporre qualcosa di diverso. Ogni volta che Goffredo Fofi va in giro conferma come al Sud ci siano tante attività culturali, innovative e di resistenza. Però si tratta di minoranze attive che non incidono sul quadro politico locale o meglio sulla selezione della classe dirigente, e che anzi sono sempre a rischio di essere cooptate e riassunte nella vecchia sintesi. C’è un’incapacità di dare a queste esperienze una massa critica tale che possano diventare condizionanti.
Di conseguenza, per concludere, la questione meridionale è scomparsa dall’agenda politica e appare solamente nella categoria della catastrofe. Catastrofe finanziaria, catastrofe del sistema sanitario regionale, catastrofe del territorio, dei rifiuti urbani e via dicendo.
Questa amnesia della questione meridionale ha un’implicazione anche a livello comunitario che aggrava la situazione.
In effetti è come se anche l’Europa si fosse stancata. Intanto c’è l’allargamento a Est, quindi i fondi vanno distribuiti con altri criteri, ma in generale si sta prendendo atto che ci sono delle regioni renitenti, che non aderiscono al modello comunitario, che non ce la fanno o non vogliono. Penso soprattutto a quelle dell’area mediterranea, ma non solo.
Ovviamente questo è un ragionamento che non ha veste ufficiale, anche perché collide coi principi costituzionali dell’Unione Europea (l’integrazione territoriale e sociale), ma de facto con i territori che non si vogliono integrare sembra che l’approccio sia: “Lasciamoli un po’ andare, tanto dal punto di vista dell’economia complessiva sono abbastanza marginali”.
C’è una “questione mediterranea”, certamente, ma per l’Europa non è destinata a diventare centrale. In futuro potrebbe ripresentarsi sotto forme inedite, stravaganti, tipo usare il Sahara come superficie per produrre energia solare (i tedeschi ci stanno pensando), la Libia col petrolio, però non c’è più l’ambizione di applicare il modello europeo di coesione a questi territori così difficili.
Assistiamo pertanto a un declassamento di quella che era una questione regionale di rango europeo a una questione regionale nazionale, il cui corollario è: “Gestitevela come vi pare”. Fermo restando che ancora per un ciclo ci saranno i soldi, ma poi finiranno.
Questa è una situazione terminale, che storicamente non s’era mai data.
Per andare più al nocciolo della questione, storicamente la questione meridionale ha sempre ruotato attorno alla domanda: come facciamo l’unità nazionale date le differenze regionali? Dato che allora non si applicò, come è noto, il modello federalista di Cattaneo, ma ci fu la conquista sabauda, per così dire, questa disunità, questa unità fittizia è rimasta.
Col tempo, quest’aspetto rimase, ma diventò secondario rispetto al problema economico sociale: questi territori apparivano in ritardo di sviluppo, bisognava quindi investire soldi pubblici, costruire infrastrutture. Questa è stata la missione della Cassa del Mezzogiorno ed in generale dell’intervento straordinario: portare le dotazioni di questi territori a livello degli altri, ottenere un’unificazione infrastrutturale del paese. Poi c’era il problema occupazionale: in fondo il Sud era un grande bacino di forza lavoro non qualificata; una parte del problema fu risolta spostando al Nord una quota di questa forza lavoro.
Ci furono poi tentativi testardi di industrializzazione forzata, per così dire, le famose cattedrali nel deserto. Si investì molto, si cercarono nuove strade nei settori della chimica, della siderurgia, del metalmeccanico. Un cimitero degli elefanti, il più emblematico e tragico dei quali è Taranto, il più tragicomico Gioia Tauro, pensato come ennesimo centro siderurgico quando la siderurgia già si stava spostando a Oriente, in Giappone, in Corea, quindi poi riciclato come hub per container, ma questo dopo anni di abbandono.
Poi ci sono i casi “mistico-religiosi” di cattedrali nel deserto come Ottana, un centro della Sardegna, dove nacque un impianto molto raffinato per la realizzazione di fibre artificiali, in un contesto del tutto agro-pastorale, quindi con una forzatura volontaristica e senza creare i presupposti indispensabili.
Certo alla fine queste “bombe” producono qualche effetto, però avrebbero dovuto essere un successo economico perché si potessero produrre contraccolpi sociali tipo la creazione di una classe operaia laddove non c’era. Non è successo.
Questa unificazione della base economica del paese non è riuscita pienamente.
Il Sud si è modernizzato, nel senso che si sono diffusi i modelli di consumo del Nord, ma la base economica è rimasta ristretta: troppo poche occasioni occupazionali, troppo poche imprese serie, produttive, oppure troppo presenti in settori molto tradizionali e poco innovativi, tipo l’edilizia, l’abbigliamento, con qualche eccezione naturalmente, tipo l’elettronica a Catania, ma nulla che possa davvero spostare il baricentro della questione.
La Puglia è forse la regione che più di altre aveva delle chance nell’affacciarsi al moderno, anche nel senso di una capacità di governo autonomo, di sviluppo endogeno: grandissime risorse naturali, paesaggistiche, forza lavoro, turismo, ma anche l’industria, un’agricoltura industrializzata molto fiorente. La zona del Salento, di Lecce e Otranto, è stata rilanciata con un turismo culturale di qualità, con l’agriturismo, l’enogastronomia. Ma complessivamente è difficile parlare di un successo. Andrebbero analizzate le condizioni di questi successi parziali. Queste realtà pur virtuose infatti conservano sempre un carattere eccezionale, nel senso che il contesto, l’acqua in cui crescono, resta fortemente inquinata.
Quando parliamo di “isole di resistenza”, non bisogna pensare solo ai fenomeni giovanili di resistenza culturale, ma anche ai sistemi di impresa virtuosi, alle amministrazioni serie. Sono infatti tutti ugualmente circondati da una situazione caratterizzata da: territorio devastato e non governato, mancanza di servizi e infrastrutture, insicurezza, inquinamento, abusivismo, illegalità, ecc.
La fatica di questa resistenza è ammirevole, ma purtroppo questi soggetti non ce la fanno a sfondare, nel senso di dire alla classe dirigente politica e imprenditoriale: “Insomma, basta!”. Ecco questo “basta” non si sente, è difficilissimo.
Occorre dire che qui il punto non è il coraggio individuale, ma il coraggio associativo: i partiti, i sindacati, la Confindustria, cosa dicono? O, meglio (perché non basta più dire) cosa fanno?
Se la selezione della classe dirigente locale è così problematica, le rappresentanze degli interessi organizzati portano grandi responsabilità. Sono filtri che non funzionano.
Lei sostiene che oggi la questione meridionale sia innanzitutto una questione istituzionale, una questione di rispetto delle regole. Può spiegare?
Anche alla luce dei recenti insuccessi, si sta consolidando l’idea che il Sud da solo non ce la possa fare: con un intervento finanziario nazionale non ce l’ha fatta; con un intervento politico di stampo comunitario, generoso di soldi e di strumenti per agire, non ce la fa. Di qui un certo sentimento che si diffonde: “Se ve la volete cavare, fatelo con le vostre forze”. Arrangiatevi insomma.
In tutto questo però si è trascurato, a mio avviso, il vero cuore del problema. E la sinistra ha delle grandi responsabilità -sul piano culturale- per aver ridotto la questione meridionale a un problema economico.
Ecco, questo vorrei che fosse scritto in grassetto: la questione meridionale non è una questione economica e -voglio esagerare- non è neppure una questione occupazionale. Ci sono evidentemente problemi economici gravissimi, soprattutto per donne e giovani. Ma la vera natura della questione va individuata nei presupposti all’origine del mancato sviluppo meridionale. In questo senso io dichiaro che la questione meridionale è una questione di tipo istituzionale e cerco di spiegarmi.
Le programmazioni di tipo comunitario -e qui voglio ricordare il nome di Fabrizio Barca perché ha avuto un ruolo cruciale- puntavano ad applicare dei modelli razionali ad una società considerata molto irrazionale (sto banalizzando). Come si fa? O si forza, ma poi ci sono le controreazioni, o si punta alla persuasione, magari anche con incentivi, oppure bisogna sollecitare le risorse locali esistenti, perché così si va al cuore della questione, che è istituzionale. In che senso? Precisamente nel senso che è una questione di regole. Quali sono i giochi che si fanno correntemente nei sistemi locali meridionali? Bene, queste sono le regole del gioco che vanno abbandonate, sostituite da altre più socialmente razionali, diciamo brutalmente: più moderne.
Mi riferisco qui alle pratiche della corruttela, dell’abbozzare, del chiudere un occhio, del far sempre finta di fare e non fare, o di sviare i fondi verso scopi, se non illeciti, comunque extra-legem, e poi l’abitudine a dire: “Poi ci spartiamo la torta”, le tante rendite insomma.
Ora le istituzioni sono quelle del governo locale principalmente, ma non solo. A far problema, infatti, sono anche le regole che vigono nel quotidiano, che poi è il discorso del “capitale sociale”: qual è la natura del capitale sociale locale nelle regioni meridionali? Grande punto interrogativo. I progetti di cui ho parlato volevano appunto modificare queste abitudini, anche quelle minime, la piccola mazzetta all’impiegato dell’ufficio urbanistico, il condono, il mettersi d’accordo.
Ecco, questa esperienza di programmazione di stampo comunitario ha provato a far perdere le cattive abitudini, ma c’è riuscita soltanto molto blandamente. Si è detto anche che non ci si poteva aspettare il miracolo dal momento che parliamo di tratti sociali profondi, non antropologici, ma legati alla natura dei processi sociali. Questo ragionamento trova il suo limite nel fatto che un po’ di tempo c’è stato, e non ha dato buoni segnali.
Il cuore del problema sta dunque nelle condotte quotidiane. Ma come si sradicano queste pratiche?
L’affermazione che non c’è sviluppo senza legalità ha ormai assunto una chiarezza abissale.
Per questo ciò che succede nella società è così preoccupante. Il libro di Saviano ha messo a fuoco la gravità del consenso che c’è sulle pratiche illegali.
Ma, attenzione, dire che è una questione di rispetto delle regole non significa che allora la questione meridionale sia una questione criminale. D’altra parte non è nemmeno mera mancanza di cultura civica. E’ qualcosa di più: nei contesti locali si è in qualche modo indotti a non seguire le regole, a non rispettare la legge. Domina il farsi giustizia da sé, che è la prima cosa che andrebbe combattuta. Farsi giustizia da sé significa condannare la società a non svilupparsi, a diventare criminale, perché poi per sopravvivere il singolo deve adottare tutte quelle prassi cui accennavo prima. L’abitudine della raccomandazione viene a seguire, perché in una società molto frammentata, con risorse scarse, tu che fai? Ti appelli a qualche santo. Le cosiddette “isole di resistenza” (di associazioni, imprenditori o amministratori) resistono appunto a questo assedio di un’irrazionalità sregolata che produce dei disagi spesso irreversibili, cioè territori devastati, che dovrebbero avere una vocazione alta e invece ne hanno una bassa, oppure all’abitudine di convivere con la piccola delinquenza, o con la grande, il condizionamento psicologico dello “stai attento”, che è sempre nell’aria. Parliamo anche di una “società della paura” che tiene tutti molto sulla difensiva. Insomma, gli incentivi a praticare le sregolazioni sono molto forti. E questi andavano demoliti.
Quando si va in quei territori, davvero vien da chiedersi: “Come fanno a resistere?”. Io non ne sarei capace. Non dico che siano eroi, ma certamente ci vuole una forma di civismo, anche proprio banale, quotidiano, il mettersi il casco in motorino, il buttare la spazzatura nei luoghi appositi, il parcheggio corretto...
Ai tempi di Barca quei progetti avevano proprio il senso di dire: “E sù, perdete queste vecchie abitudini, cattive anzi perverse, assumete comportamenti più razionali, responsabili e vantaggiosi sul piano del benessere collettivo”. In definitiva il discorso era questo.
Un’ultima amara considerazione è che purtroppo la questione meridionale scompare, diventa invisibile, non soltanto quando i centri di potere (il governo, l’Europa) non vogliono più occuparsene, ma anche se diventa una questione di regolazioni locali che non funzionano o che sono patogene, perché è un problema difficilmente trattabile, quindi si tende a rimuoverlo.
Questa forma di debolezza del civismo meridionale fa parte della storia recente. In particolare di un processo che ha fatto del Sud una contesto postmoderno prima che fosse diventato moderno a tutti gli effetti.
Io mi oppongo al fatalismo del discorso della cultura civica carente: al Nord per motivi storici si è sviluppato il municipalismo, eccetera; al Sud per vari motivi, territori occupati, gli spagnoli, eccetera, non si è sviluppato abbastanza. E questa demarcazione storica rimarrebbe nel lunghissimo periodo.
Al contrario, queste cattive abitudini, a mio avviso, non sono l’esito di questa lunghissima storia (che ne farebbe un dato antropologico, e allora chiudiamo il discorso).
Queste dinamiche hanno a che fare con quello che è successo al Sud a partire dal dopoguerra, o addirittura a partire dagli anni 80, quando è stato completamente risucchiato dal modello consumistico nazionale. Ci vorrebbe Pasolini per descrivere quello che è successo. Cioè al Sud l’impatto della modernità è stato devastante, soprattutto dal punto di vista della dialettica pubblico-privato. Passare dall’etica della “roba” intesa come scarsità del bene essenziale per vivere, per riprodursi, all’idea invece della “roba” come qualcosa che ti ingrandisce, che ti potenzia; passare cioè dall’asino al Suv è una trasformazione -antropologica anche- che ha devastato le coscienze meridionali. E qui non mi riferisco solo alle coscienze individuali, ma più in generale alle coscienze familistiche, familiari.
Il prevalere di un modello in cui il denaro è diventato la chiave di volta di tutto ha fatto sì che il Sud sia stato risucchiato dai modelli postmoderni prima ancora che fosse diventato moderno.
Questo sconquasso resta. Al Sud abbiamo una società che non ha vissuto pienamente la modernizzazione e l’industrializzazione, se non in modo eccezionalistico, e che poi è stata scaraventata dentro quello che è il traffico, la città moderna, i modelli di consumo più avanzati. Di qui quella miscela tra ipermoderno e arcaismo totale che informa anche le coscienze individuali.
Questi fenomeni sono un portato dell’ultimo trentennio, della chiusura dell’intervento straordinario, del fallimento dei tentativi di industrializzazione forzata.
In mancanza d’altro, nel Sud, è il territorio stesso ad essere diventato la fonte di rendita principale. Questo spiega l’abusivismo, e in generale il massacro del territorio perché è da lì che si estraggono le rendite generali: il mercato delle seconde e terze case, le coste così pesantemente urbanizzate. E’ diventato questo il modello di riferimento, più del modello industriale, o moderno, come lo si voglia chiamare, che invece è rimasto l’eccezione. Da qui il rilievo del controllo criminale del territorio.
Come si sradicano questi meccanismi? E’ molto difficile. Quello che è certo è che ogni intervento sul Sud dovrebbe lavorare direttamente e indirettamente sui presupposti istituzionali e normativi che rendono possibile lo sviluppo, quindi lavorare molto sulle routine, sul capitale sociale, sul modo di fare le cose localmente, che va nella maggior parte dei casi radicalmente modificato, altrimenti non è possibile alcuna prospettiva.
O meglio una prospettiva c’è, ed è quella che si sta verificando, e cioè che nel disinteresse generale la società locale si dà le sue proprie regolazioni, che comprendono però un compromesso con le forze criminali; c’è una specie di contratto sociale anomalo, che si fonda anche sul mito di chi fa il furbo.
Ecco, questa cultura dell’essere fesso perché rispetti le regole va distrutta. Forse è questo il tema centrale della faccenda. E questa è una questione politica, perché la prima ad assumere comportamenti virtuosi dovrebbe essere la classe dirigente in tutte le sue articolazioni. Ed intanto è il modello più autorevole dei vizi.
L’idea che solo i fessi seguano le regole non è purtroppo prerogativa del Sud.
Io ho il dubbio che al Sud ci sia un di più, perché chi non segue le regole non costituisce più l’eccezione. Cioè un giovane che si abitua a non seguire le regole, dalla buona educazione al traffico, all’evasione fiscale, e che per questo si ritiene più furbo degli altri, secondo me rischia di farsi l’idea del mondo alla rovescia. Cioè rischia di credere che tutto il mondo funzioni facendosi giustizia da sé, senza rispettare le regole collettivamente condivise.
Nelle zone estreme descritte da Saviano, si arriva al punto che il soggetto -come individuo e come membro di un gruppo familiare, o di un clan- non è più in grado di riconoscere cos’è una regola. Cioè c’è una crisi cognitiva rispetto a che cos’è una regola. Non si tratta più di non seguire, di ignorare una regola, di cui riconosci l’esistenza (un po’ come avviene nel traffico, quando si supera il limite di velocità consapevoli di star commettendo una violazione), ma vige una sorta di inconscio sregolato.
Si può parlare di una specie di incapacitazione cognitiva di riconoscere l’esistenza delle regole e quindi anche di seguirle. Uno che è abituato ad andare in moto senza casco, vive questo obbligo come una violenza estrema. Uno che è abituato all’abusivismo edilizio fa una fatica enorme ad accettare che bisogna chiedere i permessi, che ci sono delle cose che non si possono fare.
Il caso messinese è allucinante da questo punto di vista. Andrebbe esaminato micrologicamente. Non ho alcuna conoscenza specifica, per cui faccio in parte un’astrazione: una popolazione decide di edificare in un territorio che non è adatto all’insediamento umano per il rischio idro-geologico, lo fa sapendo che è una zona a rischio, e costruisce edifici che a loro volta sono a rischio -lo si è visto anche dalle fotografie. Quindi questa popolazione accetta due ordini di rischi. Io mi chiedo: ma perché? Chi glielo fa fare? Tanto più che non mi sembra trattarsi di abusivismo di necessità.
Quello che colpisce è questo: com’è possibile che delle persone si espongano a rischi di questo rilievo pur di avere una casa?
Nel corso di un’intervista ho ascoltato uno scambio inquietante: “Ma la sua casa era stata costruita dove non doveva, era abusiva!”, e quest’uomo che rispondeva non comprendendo la natura della domanda: “Ma no, ma che abusiva! La casa non era abusiva, era stata condonata!”. Come se il condono potesse magicamente rendere sicura una casa oggettivamente insicura. Una totale confusione dei livelli.
Ci vorrebbe forse un socio-psichiatra (capace di analisi tipo J. Elster), più che un politologo, per spiegare perché la gente decida di correre questi pericoli, che sono pesanti, perché poi l’abusivismo vuol dire anche rischiare di entrare in contatto con malavitosi, con fenomeni di corruzione, tutti comportamenti anticivici che producono danni collettivi enormi e alla fine erodono le basi di ogni possibile sviluppo.
Da un certo punto di vista, è più facile resistere ai poteri organizzati e criminali, perché hai un avversario collettivo, quasi un’istituzione. Qui invece hai a che fare con un nemico invisibile perché è interno, per cui, come dire, la vittima e il carnefice coincidono nella stessa figura.
Comunque sono tutte sregolazioni che si sono consolidate in ragione del fatto che le soluzioni tentate non sono andate alla radice del fenomeno, che, ribadisco, non è economica, ma istituzionale.
Resta la domanda iniziale. Mettiamo che la questione meridionale si sia trasformata essenzialmente in una questione istituzionale, cioè di regole del gioco, soprattutto locali, come si può modificare? Abbiamo ancora qualche altra risorsa in mano?
Qui faccio una domanda senza poter fornire una risposta, perché tutto è legato a prospettive più ampie. L’ipotesi che dall’interno la società meridionale sia capace di rigenerarsi e diventare più virtuosa al momento la scartiamo, perché sembra poco plausibile.
Una classe politica nazionale decente insisterebbe molto sul fatto che l’Europa non può permettersi di abbandonare a se stesse regioni così importanti dal punto di vista geografico, storico, culturale, anche economico. Dovrebbe essere una questione europea, occuparsi di queste cose.
Franco Cassano avanza un’altra ipotesi, su cui però lei avanza delle perplessità...
Nella prospettiva di Cassano, queste regioni non vogliono integrarsi con l’Europa, ma con il resto del Mediterraneo. A me personalmente sembra una prospettiva un po’ velleitaria. L’idea in sé potrebbe essere buona ma non ci sono i soggetti protagonisti di questo processo e c’è allora il rischio che il Sud venga risucchiato in un modello levantino-africano, piuttosto che il contrario. I paesi con cui potremmo fare sponda sono molto fragili, con regimi spesso autoritari e democrazie fittizie. E’ difficile immaginare di fare cose serie con questi attori allo stato attuale.
L’ipotesi parzialmente sostenuta da Cassano in Tre modi di leggere il Sud, ma anche nel suo libro precedente, Il pensiero meridiano, è che il Sud, in questa sua renitenza alla modernità manifesti una sua virtù. Ora, quale essa sia, dove si manifesti empiricamente, io francamente fatico a capirlo. Cioè che ci sia una virtù nel non diventare moderni (intendendo con moderni: europei), sinceramente mi sembra poco plausibile. Non trovo argomenti razionali a sostegno di questa possibilità.
Ma in generale non considero praticabile un modello di separatismo economico, di sgancio dal globale, quindi anche dal capitalismo nelle sue forme attuali. Con la morte di Fidel Castro anche Cuba diventerà americana molto velocemente, ma perché così vuole la popolazione.
Allora, di nuovo, perché il Sud non ce l’ha fatta? Perché non voleva farcela? Beh, insomma, mi sembra una risposta molto discutibile. Io penso sia vero il contrario: che la maggioranza di quelli che migrano oggi dal Sud volevano farcela, e non ce l’hanno fatta. Quindi casomai è il registro di una sconfitta.
Resta la pista esilissima indicata dalle teorie della decrescita della scuola francese di Latouche. Si potrebbe cioè ipotizzare che per le regioni meridionali sia possibile un’altra via all’insegna di uno sviluppo moderato, sostenibile, quindi con obiettivi di crescita molto modesti o addirittura negativi.
Si potrebbero quasi immaginare queste regioni che deliberatamente decidono di seguire una propria pista, e addirittura di proporla ad altri paesi della sponda mediterranea. Ma allora vorrebbe dire che il Sud non vuole essere “europeo”? Sono tutte questioni intricate e non facilmente risolvibili, ma forse intrinsecamente aporetiche.
L’obiezione principale che vorrei fare a quest’ipotesi è che al Sud le “preferenze rivelate” -come dicono gli economisti- nei comportamenti pratici della stragrande maggioranza vanno in un’altra direzione.
Non vedo insomma domande di decrescita nelle regioni meridionali.
Anche perché tendenzialmente quella è una domanda che sorge all’apice dello sviluppo, quando una certa elite culturale, che può pure avere una certa diffusione sociale, incomincia a pensare che ci sono anche altre soddisfazioni nella vita. Ma il Sud è come se non avesse ancora vissuto fino in fondo i benefici del benessere da crescita! Questa prospettiva mi resta quindi oscura.
Per concludere, l’impressione è allora che la popolazione del Sud avrebbe voluto diventare “normale” e non c’è riuscita, e che non essendoci riuscita si è data una sua struttura di compromesso, di adattamento al ribasso molto pesante, che è difficile smuovere e che sta distruggendo i presupposti di ogni possibile futuro.
Oggi per i giovani meridionali sembra non resti che la fuga. Io non so chi voglia vivere in un ambiente così inquinato, così condizionato, anche nella libertà personale.
Naturalmente può sempre succedere di tutto. Può emergere un movimento nuovo, può esserci una ripresa di lotte di un certo tipo, un’istituzione che diventa virtuosa.
Sono tutte possibilità aperte. Tuttavia, in una situazione nazionale e comunitaria così incerta, io francamente non vedo i punti archimedici su cui si potrebbe far leva, se non queste minoranze attive, preziosissime, che con il loro lavoro minuto, quotidiano, stanno tenendo in piedi l’idea di un altro modo di vivere la società. Ma da soli nemmeno loro possono farcela, andrebbero aiutati, potenziati, messi in rete, resi più incisivi possibilmente, ma anche sotto questo aspetto la politica è drammaticamente assente.
Mi rendo conto che il messaggio può essere alla fine deprimente. D’altra parte siamo in una di quelle fasi in cui uno dice: “Boh, ho provato di tutto, non mi viene in mente altro”.
Quanto conta la mancanza di una classe dirigente all’altezza?
Molti ne lamentano l’assenza. Stiamo assistendo a una fase di rapido declino della qualità media della classe politica, che è molto provinciale, come la Lega -ci sono leghisti anche al Sud, diciamolo- legata ai localismi, ai regionalismi, agli autonomismi, che sono delle enormi palle al piede per ogni tipo di sviluppo: è la piccola borghesia che è diventata media borghesia e che si vuol fare i fatti propri, che si vuole auto-governare con le sue cattive abitudini, un ceto politico locale essenzialmente incentrato sulla rendita.
Dico solo questo: è concepibile che una regione come la Sardegna, in fondo tra le regioni meno compromesse da questi processi, passi da tre a quattro e poi a otto province? Non ha nessun senso amministrativo, serve soltanto a creare delle prebende, delle situazioni di rendita, ad aumentare la spesa pubblica, a creare posti di lavoro, però non produttivi, fittizi.
Poi, diciamo la verità, ad aggravare la situazione c’è anche l’assenza di una domanda sociale percepibile dal Sud in direzione dello sviluppo. Se poi aggiungiamo una sinistra molto in crisi, una destra rampante che però ripete le forme di insediamento democristiane, quindi i modelli di produzione del consenso vecchio stampo...
Vien da pensare che la questione sia in una situazione di amnesia anche all’interno del Sud stesso. Effettivamente siamo arrivati a un punto estremamente critico, difficilissimo, della storia della questione meridionale.
Semplificando potremmo dire che la domanda rivolta al Sud è diventata: cosa volete fare da grandi, mettervi in condizione di saper rispettare le regole che vi permettono di stare in un gioco globale, nazionale, sovranazionale o in fondo volete il vostro piccolo mondo antico, oggi però fatto di rendite, incapacitazioni e sregolazioni? E’ una domanda grave, terrificante, cui probabilmente nessuno è in grado di rispondere.
Note bibliografiche
F. Barca, Italia frenata, Laterza, Bari 2007
F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari 1996
F. Cassano, Tre modi di vedere il Sud, Il Mulino Bologna 2009
J. Elster, Uva acerba, Feltrinelli, Milano 1989
C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia, Il Mulino, Bologna 1992.