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Quali prospettive per i nostri (pro)nipoti?

12/07/2013

Nell'era della "disoccupazione tecnologica", il reddito di cittadinanza dovrebbe essere quella parte di profitto a cui il capitale rinuncia per garantirsi la domanda di merci

Piuttosto che intervenire sulle condizioni di fattibilità pratica del reddito di cittadinanza, su cui non ho competenza, vorrei interrogarmi sul significato storico che può assumere il dibatterne oggi. Infatti io lo giudico un argomento economico cruciale posto dalla mutazione radicale che sta subendo la “maniera capitalistica del produrre”.

Finalmente, dopo un anno di passione sulla tenuta dei conti pubblici, si è arrivati a discutere della disoccupazione, di cui però si possono dare due tipi. C’è la disoccupazione provocata dalla “insufficienza di domanda effettiva” (ossia dalla domanda assistita da moneta): essendo necessaria manodopera per produrre le merci, se queste non trovano domanda adeguata, l’occupazione necessariamente calerà. Da qui il rimedio a simile disoccupazione - che è detta “keynesiana” perchè riconosciuta magistralmente da J. M. Keynes - che consiste nel rilancio della domanda tramite aumento dei consumi delle famiglie e/o dello Stato.

C’è però anche un altro tipo di disoccupazione, di cui poco si parla e di cui aveva ben detto Giorgio Lunghini oltre un decennio fa quando ha osservato che «la relazione biunivoca e stabile tra produzione di merci e occupazione di lavoro vivo è mutata: è ancora vero che, se la produzione cala l’occupazione cala, ma non è più vero l’inverso, che se la produzione riprende anche l’occupazione riprende» (1). È questa la disoccupazione tecnologica – o “ricardiana” perchè individuata da D. Ricardo fin dal 1821 – che è provocata dalla “sostituzione di macchine a lavoro”, così che anche a rilanciare gli investimenti i disoccupati crescono invece di diminuire perchè i posti di lavoro che si guadagnano dove si producono le “macchine” non compensano quelli che si perdono dove s’introducono le “macchine”.

Per come la giudico io, la disoccupazione attuale è soprattutto “ricardiana”, essendo dovuta al trapasso dal fordismo ad una “maniera post-fordista” del produrre che, se qualcosa vuol dire, può significare soltanto “sostituzione d’informatica al lavoro”. Ne risulta un eccesso di manodopera che viene espulsa dalla produzione e che, non sapendo come gestirla, resta lì (almeno finché sopporta la propria esclusione). Questa disoccupazione ha però origini lontane essendosi presentata in Italia fin dagli scorsi anni ’90, ma allora era stata recuperata mediante la “precarizzazione” del mercato del lavoro giudicandosi che, a salari stracciati, le imprese avrebbero assunto quei lavoratori “usa e getta”. In effetti così è stato, come documentano le statistiche, ma con la brutta conseguenza di un calo storico della produttività del lavoro perchè, se si possono costringere i precari a lavorare di più, non gli si può però imporre di lavorare meglio. Da qui la comparsa di una occupazione flessibile a bassa produttività di cui tutti hanno finito per lamentarsi (2) e contro la quale ha provato a muoversi la cosiddetta “riforma Fornero” imponendo alle imprese l’obbligo di trasformare, dopo un certo tempo, le occupazioni a tempo determinato in posti fissi, così che, gravate da un maggior onere salariale, si decidessero a cavalcare anche la via dello sviluppo tecnologico. Ma le imprese, dovendo passare alle “macchine”, hanno preferito licenziare i precari piuttosto che stabilizzarli e così quella disoccupazione “ricardiana” è tornata sulla scena. E ora come recuperarla?

Non tutti sanno che anche Keynes ha parlato della disoccupazione “ricardiana” in uno scritto del 1930 che, a leggerlo oggi, appare del tutto consono al momento: «l’efficienza tecnica è andata intensificandosi con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a risolvere il problema dell’assorbimento della manodopera ed il sistema bancario e monetario del mondo ha impedito che il tasso d’interesse cadesse con la velocità necessaria al riequilibrio». La conseguenza è «una nuova malattia di cui alcuni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire la “disoccupazione tecnologica”. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera». A rimedio di questa disoccupazione Keynes proponeva di lavorare meno per lavorare tutti: «turni giornalieri di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore» potrebbero essere la soluzione «affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito fra quanta più gente possibile» (3).

Ed invero durante la miglior stagione del fordismo (gli anni ’60-‘70 del Novecento) è stato ridotto il tempo di lavoro calcolato in giornata, settimana, anno e “vita” lavorativa perchè compensato dagli incrementi di produttività consentiti dall’introduzione del “lavoro alla catena”, mentre l’occupazione è cresciuta fino a rasentare il livello del “pieno impiego”. Ma adesso? Intanto quello slogan keynesiano non è più presente nella sua interezza, ma soltanto a metà: si offrono ai disoccupati “lavori socialmente utili” che si aggiungano alla occupazione produttiva delle imprese, in cui si presume che gli orari di lavoro restino invariati. Ciò si deve al fatto che, quando si parla di recupero della disoccupazione, si riconosce che, oltre ai maggiori posti di lavoro, necessita pure un maggior reddito, come peraltro era implicito nello slogan keynesiano se quel “lavorare meno per lavorare tutti” sottintendeva la condizione che ciò avvenisse a parità di salario così da aumentarne la massa complessiva. Ma come evitare che la maggiore occupazione addebiti un maggior onere salariale alle imprese che sono già di per sé in difficoltà? S’immagini che, per dar lavoro a tutti, sullo stesso posto di lavoro si debbano inserire due lavoratori a mezza giornata invece di uno solo a giornata intera. A mantenere lo stesso salario ad entrambi, l’impresa dovrebbe pagare un doppio salario, a meno che il secondo lavoratore non venisse pagato da altri come ad esempio dallo Stato. Il che porterebbe al paradosso di due lavoratori produttivi dentro la stessa impresa, con il primo pagato dal privato ed il secondo dal pubblico (le decontribuzioni annunciate dal “decreto del fare” del governo Letta per i nuovi assunti non si muovono forse in questa direzione?).

Se però oggi siamo alle prese con una disoccupazione tecnologica, quell’impresa non ha affatto bisogno di aggiungere manodopera alle macchine che pur gli si chiede di introdurre. Al contrario, ha bisogno di diminuirla. E allora esageriamo. Immaginiamo che anche il primo lavoratore diventi superfluo perchè la sostituzione di macchine a lavoro ha raggiunto il limite di una produzione di merci a mezzo di sole macchine, come previsto da Ricardo in una straordinaria lettera a McCulloch del 30 giugno 1821: «e se le macchine potessero fare tutto il lavoro che adesso fanno i lavoratori, non ci sarebbe più domanda di manodopera e nessuno avrebbe più titolo a consumare qualcosa a meno che non fosse un capitalista». Evidentemente Ricardo non immaginava che ci potessero essere anche “lavori socialmente utili”, ma non è questo il punto. A metterli in esecuzione non si pone il problema di finanziarli, visto che comunque costano?

La prospettiva teorica necessaria già c’è, depositata nelle pagine di Produzione di merci a mezzo di merci (1960) di Piero Sraffa, come peraltro lucidamente riconosciuto Paolo Sylos Labini in uno scritto dedicato all’ipotesi estrema di una produzione interamente robotizzata (4). Vediamone l’articolazione logica. Se producessero senza più impiegare lavoratori, i capitalisti guadagnerebbero un profitto “massimo” non avendo più salari da pagare. Ma siccome devono vendere le merci prodotte, avrebbero necessità di una domanda effettiva da parte dei “non più lavoratori” e a questo scopo dovrebbero accontentarsi di realizzare in moneta un profitto minore di quello massimo, destinando la differenza a reddito di quei non-lavoratori. Sarebbe questo il reddito di cittadinanza misurato dalla parte di profitto a cui i capitalisti rinuncerebbero per assicurarsi la domanda effettiva adeguata alla vendita delle merci prodotte. Solo successivamente a questa determinazione spetterebbe alla cittadinanza destinataria di quel reddito decidere come spartirlo tra i propri componenti, ad esempio a prescindere oppure in contraccambio di un lavoro “socialmente utile”. Ciò sarebbe comunque una questione politica successiva alla decisione delle imprese di ridursi ad un profitto “normale”, al posto di quello massimo che la produzione di merci a mezzo di sole macchine consentirebbe, per assicurarsi la conversione in moneta delle merci così prodotte.

Se mai questa è la prospettiva economica a venire se non proprio dei nostri nipoti, almeno dei pro-nipoti, allora la discussione attuale sulla “messa in cantiere” fin da subito di una qualche misura di “reddito di cittadinanza” potrebbe essere un utile procedura d’avvicinamento ad una realtà prossima ventura.

 

1) Lunghini G. 1995, L’età dello spreco, Boringhieri, Torino.

2) Cfr. Saltari E. e Travaglini G. 2008, “Il rallentamento della produttività del lavoro e la crescita dell’occupazione. Il ruolo del progresso tecnologico e della flessibilità del lavoro”, Rivista Italiana degli Economisti, 1 pp. 3-38.

3) Keynes J. M. 1991, “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, in La fine del laissez-faire e altri scritti, Boringhieri, Torino.

4) Sylos Labini P. 1989, “Valore e distribuzione in un’economia robotizzata”, in Nuove tecnologie e disoccupazione, Laterza, Bari.

 

 

 

 

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