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La corsa all'oro delle infermiere
Al Nord è straniera un'infermiera su cinque, in Lombardia una su tre. Come interagiscono nel sistema sanitario i subappalti e l’immigrazione
Gli infermieri – per lo più donne – sono i primi lavoratori specializzati importati in numero significativo in Italia dall’estero, soprattutto dall’Europa orientale, ma anche dall’America latina. Ci sono anche artigiani e tecnici tra gli immigrati, ma non hanno avuto canali preferenziali ed agenzie dedicate.
In Italia settentrionale, secondo un rapporto Ires Piemonte del 2008, le infermiere straniere erano il 20% del totale, una su cinque; ma con differenze regionali forti. In Lombardia, dove sono importanti le cliniche private, che possono assumerle direttamente, le infermiere straniere sono una su tre. In Piemonte, dove gli ospedali pubblici resistono, le straniere sono più o meno il 12%. Per la maggior parte lavorano nelle cliniche e nelle case di cura private o, in subappalto, negli ospedali pubblici e nell’assistenza pubblica a domicilio. Dal 2007 però, in quanto cittadine europee, le polacche, le rumene, le bulgare possono concorrere per l’assunzione diretta anche da parte delle Asl e nel 2008 hanno vinto il concorso in 250. Del resto, anche prima del 2007, la denuncia sindacale di una cooperativa importante, “Vita serena”, per intermediazione di manodopera e l’iniziativa dell’assessore regionale Mario Valpreda di indire un bando per l’assunzione a tempo determinato degli stranieri negli ospedali pubblici, hanno scoraggiato l’intermediazione anche per gli extracomunitari.
La corsa agli infermieri stranieri, comunque assunti, nasce da una generale carenza di infermieri, che fanno un lavoro duro e non molto retribuito, difficile soprattutto a fine carriera, quando sono frequenti le invalidità parziali e le malattie professionali. La prima emergenza nasce dalla creazione degli infermieri laureati, con laurea triennale. Per tre anni almeno non ci sono stati nuovi ingressi. Poi gli ingressi sono avvenuti non più a 18 anni ma a più di 21, in media molto di più, perché non sempre la laurea in scienze infermieristiche è la prima scelta di lavoro. La carenza si accentuerà tra qualche anno perché raggiungeranno l’età di pensione, tutte insieme, le infermiere che sono state mantenute in servizio dall’aumento dell’età pensionabile nel pubblico impiego. Salvo ulteriori aumenti, s’intende, che però non faranno che ritardare l’emergenza.
Alla carenza ha fatto fronte l’aumento dei formati – in Piemonte gli infermieri laureati ogni anno quadruplicano, da 170 a 700, tra il 2003 e il 2007 – e l’importazione di infermieri laureati stranieri.
Perciò il Sistema sanitario nazionale, che non è un luogo di lavoro particolarmente atroce, è un buon punto di osservazione per capire i meccanismi attraverso cui si spostano soldi dai salari ai profitti, dal lavoro all’intermediazione, dai lavoratori a tempo indeterminato a quelli variamente precari e senza la pienezza dei diritti. Gli appalti, la intermediazione e l’immigrazione si intrecciano e consentono di abbassare i costi e accrescere i ricavi, qualche volta, ma non necessariamente, a danno dei malati.
A parte la carenza di infermieri laureati, la spinta ad appaltare servizi viene dalla pressione per ridurre i costi, dalla ideologia dominante che considera i dipendenti diretti costi ma gli appalti investimenti, dal, convergente, blocco delle assunzioni nel Pubblico impiego. L’infermiere della cooperativa che lavora in subappalto è un investimento; il pubblico dipendente è un costo. Anche a parità di spesa si subappalta. La Gabanelli, in una puntata di Report ci ha spiegato che il costo dell’infermiere in subappalto al Policlinico di Roma è maggiore del costo del dipendente diretto. A Torino il costo di una cooperativa è di 23 euro l’ora. Il costo del dipendente di 19,50. Ha ragione la Gabanelli. E l’infermiere straniero dalla cooperativa prende intorno ai 7,50 euro. La cooperativa dovrebbe coprire l’organizzazione del lavoro, la formazione, la garanzia – non il costo vivo – dell’alloggio. Se in realtà fa intermediazione di manodopera, stabilizza i dipendenti e perciò non ha né costi di formazione né di garanzia dell’alloggio, ha un ricarico enorme.
Ma, a parte il blocco delle assunzioni, che è una decisione politica e può essere rimosso, perché gli ospedali subappaltano? Probabilmente perché se si sommano al costo del lavoro prestato i giorni di malattia, la maternità, il diritto al part-time, che aumenta la media, i permessi sindacali, il costo sale a 27 euro. Poi gli appalti possono essere parte di uno scambio, come qualcuno pensa.
Il subappalto sostituisce lavoro garantito, stabile, con lavoro precario, senza diritti, pagato solo se viene prestato, e pagato una frazione del netto del pubblico dipendente. Anche solo il passaggio da dipendente di una cooperativa a interinale comporta un aumento del netto percepito.
Gli immigrati mettono a disposizione una quantità al momento illimitata di lavoratori disposti a prendere una frazione del pubblico dipendente italiano. Sono indispensabili, perché altrimenti tutto si bloccherebbe, in particolare le case di cura e le cliniche private, ma consentono di tagliare i costi.
La situazione è mutata nel tempo. A fine secolo, quando le agenzie non avevano ancora aperto filiali estere e le infermiere si confondevano con il flusso della migrazione generica, come avviene ancora per le russe e le moldave, le infermiere pagavano anche 2.000 euro per essere prese in carico da un mediatore che le portava in Italia e le passava a una cooperativa o a una agenzia. E le agenzie arrivavano a pagare 4.000 euro un curriculum. Ora tutto sembra più normale, per chi è entrato nell’Unione. Non si pagano più tangenti, le agenzie serie fanno formazione, c’è una stabilità relativa. Cioè, la stabilità consentita dal mercato e dal mutare delle norme. Se le rumene vincono il concorso, le serbe, che magari hanno ricongiunto la famiglia e hanno le figlie a scuola, devono fare le valige o arrangiarsi a cambiare mestiere.
C’erano e ci sono eccezioni. Ci sono cliniche torinesi che hanno cominciato ad assumere infermiere polacche subito dopo la caduta del muro e le trattano come le italiane. Ci possono essere stati svantaggi di carriera ed attriti ma è roba minore, in questo mondo libero.
Ma ci sono state truffe atroci, come quella, per cui c’è un processo in corso a Torino, ai danni di decine di infermiere rumene usate con varie forme contrattuali contemporaneamente, inclusa la costituzione di uno studio infermieristico, di cui i truffatori tenevano la contabilità. I truffatori trattenevano le quote per l’Irpef, per le assicurazioni, per l’iscrizione all’ordine, ma non pagavano. Siccome uno studio infermieristico è uno studio professionale, con responsabilità individuale, negli anni le infermiere hanno accumulato debiti di decine di migliaia di euro, senza contare le irregolarità per le ore prestate extra studio, e, con i tempi del processo civile italiano, i soldi non li rivedranno mai. Ma possono anche non essere in grado di dimostrare di non aver capito ciò che succedeva.
Intanto sembrano diffusi, tra le dipendenti dirette, l’uso del part-time per fare il doppio lavoro in nero e le trasferte in Svizzera per fare gli straordinari lì nei week end.
C’è sempre nelle migrazioni un elemento di crumiraggio, che del resto c’è anche nelle dislocazioni. I poveri fanno concorrenza perché esistono e sono disposti a lavorare per poco. L’unico modo per venirne a capo è l’estensione concordata della sfera dei diritti almeno ai paesi con cui c’è uno scambio importante di merci e lavoro. Sarebbe anche un modo per invertire il flusso di risorse dai salari ai profitti, dai poveri a i ricchi, un rimedio vero alla crisi. Basta riuscirci.
A proposito di crumiraggio oggettivo, che non sempre è soggettivo, c’è un racconto tristissimo nell’ultimo libro (L’ombra del dubbio), pubblicato postumo, di Renzo Tomatis, grande medico torinese, a lungo a capo della organizzazione mondiale della sanità.
Il narratore, che fa ricerca all’Università di Chicago, racconta del mancato incontro con un vecchio minatore italiano in pensione, con la silicosi, che voleva dire qualcosa di importante, a lui che scrive, perché lo dicesse al mondo. Lui non è andato quel giorno perché ha pensato di avere qualcosa di più importante e divertente da fare ed ha un gran senso di colpa perché il vecchio è introvabile. Poi qualcuno gli racconta la storia del vecchio.
Lui faceva parte di un gruppo di pugliesi e abruzzesi importati subito dopo la guerra per rompere un lunghissimo sciopero in una miniera e per questo diventati leggenda. Cosa aveva da dire? Che li avevano portati direttamente dalla nave al treno e dal treno in miniera, da un ingresso secondario, senza neppure passare nel dormitorio a lasciare la valigia di cartone. Non sapevano che c’era lo sciopero. Non avevano incontrato un solo compagno. “Noi non eravamo crumiri”, aveva da dire. “Non eravamo crumiri”.