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Bilanci pubblici, da salvatori a vittime
Dopo salvataggio statale dei bilanci privati della finanza, torna l'ortodossia del risanamento, ai danni di pensioni e salari: i pagatori di ultima istanza
A quasi due anni dalla sua esplosione, la crisi è tutt’altro che risolta; adesso si sta concentrando sull’area dell’euro, sulla valuta e sullo stesso progetto d’unificazione europeo, confermandosi di natura strutturale e non puramente finanziaria. Tuttavia, le politiche che anche in Italia si stanno delineano per contrastarla confermano lo stesso approccio analitico che ha seriamente contribuito al suo maturare e alla sua esplosione. Procedendo in tal modo è difficile che dalla crisi si possa uscire poggiando su basi migliori e più stabili il sentiero dello sviluppo.
La cause di fondo della crisi hanno natura “reale” e affondano le radici in misura rilevante nei nuovi equilibri distributivi affermatisi a partire dagli anni ’80, quando le dinamiche retributive sul mercato del lavoro e il nuovo corso delle politiche economiche e sociali hanno ridotto significativamente i salari reali e la partecipazione dei lavoratori al Pil. La continua crescita della capacità d’offerta del sistema produttivo non è stata più accompagnata da una adeguata evoluzione della domanda alimentata dai redditi da lavoro e dalla spesa sociale, come era avvenuto nei tre decenni successivi al dopoguerra (“l’età dell’oro”). Questo squilibrio ha trovato una parziale compensazione nel nuovo finanziamento della domanda generato dall’intreccio tra la finanziarizzazione dell’economia, le bolle speculative, la diffusione del credito al consumo e l’offerta di risparmio proveniente dai paesi emergenti e produttori di petrolio. Naturalmente, oltre che socialmente iniquo, questo modo di sostenere la domanda era anche molto fragile, come è stato appunto dimostrato prima dalle numerose crisi parziali e poi da quella globale.
La visione neoliberista ha favorito la crisi anche indebolendo il ruolo economico delle istituzioni e la loro capacità di compensare l’instabilità dei mercati che, peraltro, anche a seguito della globalizzazione, andava aumentando. Mentre i bilanci delle imprese, delle banche e delle famiglie erano stimolati all’indebitamento, per i bilanci pubblici si affermava l’ortodossia del rigore; le stesse istituzioni finanziarie che alimentavano il debito privato (lucrandoci, anche con speculazioni disinvolte a danno dei loro clienti), criticavano i disavanzi pubblici con conseguenze concrete rilevanti per le politiche economiche e gli equilibri sociali e politici.
Tuttavia, quando la crisi è esplosa evidenziando la fragilità dei bilanci privati, da parte dei loro titolari non c’è più stata nessuna remora a chiedere (ed ottenere) il loro ripianamento alle autorità monetarie e ai bilanci pubblici. Ciò è avvenuto, specialmente negli Usa, subito dopo il fallimento della Lehman Brothers e riaccade adesso, particolarmente in Europa, dopo il dispiegarsi della “tragedia greca”.
In quest’ultimo caso l’ortodossia rigorista punta il dito sul fatto che l’intervento della Banca Centrale Europea sarebbe reso necessario da politiche fiscali lassiste che hanno deprecabilmente spinto ad intaccare anche l’autonomia della Bce.
Che il passato governo greco abbia operato con disinvoltura, (peraltro aiutato da qualche prestigioso istituto finanziario internazionale che ci guadagnava e contribuiva a truccare anche i dati) è vero. Ma altrettanto vero è che il sostegno alla solvibilità del debito pubblico greco va incontro anche alle esigenze dei bilanci delle banche private che detengono buona parte di quel debito; e l’aspetto paradossale ( ma non sorprendente) è che le banche private hanno acquistato titoli del debito pubblico greco (e di altri paesi) utilizzando anche a tal fine (anziché per dare crediti alle imprese) l’ingente massa di liquidità immessa sul mercato dalle banche centrali (inclusa la Bce della cui intaccata autonomia ci si lamenta).
Dunque, schematicamente: il salvataggio dei bilanci privati (arricchiti e allo stesso tempo resi fragili dall’iniquità distributiva e dalle speculazioni) è stato ottenuto trasferendone i disavanzi sui bilanci pubblici; per contribuire a questo obiettivo, le banche centrali sono state spinte anche a contravvenire all’ortodossia monetarista (ma con preoccupazione, naturalmente); le banche private hanno utilizzato la liquidità ricevuta per finanziare non tanto la ripresa produttiva quanto le attività speculative (nel 2009, i profitti delle banche sono fortemente migliorati grazie alle ripresa delle operazioni sui derivati il cui ammontare nei loro bilanci ha superato il livello ante crisi); in particolare, le banche private hanno acquistato titoli del debito pubblico a tassi attivi superiori a quelli pagati alle banche centrali cui adesso si chiede l’intervento a garanzia di quei titoli, con ulteriori effetti negativi sui bilanci pubblici. Contemporaneamente viene riproposta con forza l’ortodossia del risanamento dei bilanci pubblici, obiettivo che verrà perseguito riducendo le pensioni e i salari (oltre che con nuovi condoni che, però, per i loro beneficiari sarà un premio all’abusivismo e all’evasione fiscale) e così si arriva ai veri pagatori d’ultima istanza.
Oltre alla sua evidente iniquità (perfino imbarazzante se non vigesse l’attuale egemonia culturale) questa combinazione opportunistica di rapporti asimmetrici tra bilanci pubblici e privati è anche controproducente. La logica che continua a riaffermarsi è quella dei profitti finanziari a discapito di una ripresa del settore reale dell’economia e dell’alimentazione di una domanda più stabile, consistente e legata ai bisogni reali delle imprese, dei lavoratori e, in generale, delle popolazioni. La crisi, dunque, anziché rimuovere le circostanze che l’hanno provocata, le sta riproponendo, salvaguardando gli interessi di chi le ha generate e continuando a penalizzare chi le ha subite.
* Quest'articolo è stato pubblicato anche sul manifesto del 19-05-2010
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