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Donne, andate in pensione. Anzi no
Paradossi di governo: fa i pensionamenti coatti e allunga l'età pensionabile delle lavoratrici pubbliche. Ma ritirarsi a 60 anni aiuta davvero le donne?
Anche le donne in pensione a 65 anni? Magari, risponderebbero molte delle ragazze che già da anni lavorano a cococo, part time, partita Iva e altre modalità a scarsissimo tasso di contribuzione previdenziale. E' di loro – e dei loro colleghi maschi – che si parlerà a proposito della prossima emergenza pensioni. Per adesso invece il dibattito pubblico e l'iniziativa di legge si concentra sulle pubbliche dipendenti, che entro il 2018 il governo vuole parificare ai maschi, con graduale innalzamento dell'età pensionabile a 65 anni. Recependo così le richieste della Corte di Giustizia europea, che aveva censurato il doppio binario italiano, e allo stesso tempo re-intervenendo sulla riforma delle pensioni, in progress sin dal '95, con un'ulteriore stretta al sistema.
E' giusta una scelta del genere? Che conseguenze comporta per le donne? La prima critica è facile: in un mercato del lavoro come quello italiano caratterizzato da una fortissima disparità di genere – nel tasso di attività, di occupazione, di disoccupazione, nelle carriere, nei tempi e nei salari – unificare l'età della pensione è come cominciare a costruire una casa dal tetto. La parità forzata al punto di arrivo, anziché le pari opportunità alla partenza. Ma è una critica monca. Manca un pezzo di verità, la cui affermazione non andrebbe lasciata al ministro Brunetta e alla destra: la possibilità di andare in pensione a 60 anni, età in cui si è ancora abbastanza attive e con una certa aspettativa di vita davanti, “libera” le donne per un lavoro di cura (genitori anziani, nipotini) che copre la mancanza di strutture e investimenti pubblici (assistenza domiciliare, asili nido). Un lavoro di cura che spesso non è scelto, ma subìto. Dunque c'è anche un'ipocrisia familistica, nella rivendicazione aprioristica del diritto delle donne di andare in pensione prima degli uomini, a prescindere dal settore (pubblico o privato), dal tipo di lavoro (manuale o intellettuale), dalle modalità dell'impiego (orario pieno o part-time, presenza o meno di turni di notte, ecc.). E può esserci anche – è successo sicuramente nel passato, all'epoca delle pensioni-baby – una svalutazione del lavoro femminile: quanto poteva valere, per sé e per gli altri, una carriera dalla durata di 15 anni, sei mesi e un giorno? Dunque sarebbe bene uscire da un'ottica tutta difensiva, e ragionare sui cambiamenti che possano ribaltare il sistema passando a una libertà di scelta effettiva e non indotta dalle esigenze della famiglia o dell'azienda o della pubblica amministrazione.
A tal proposito, appare invece evidente che tutti i cambiamenti finora imposti o programmati derivano da esigenze che nulla hanno a che fare con il riequilibrio della disparità tra i generi, e che spesso danno luogo a spinte contraddittorie. Basti pensare alla vicenda dei “pensionamenti coatti”: in sostanza, lo stesso governo che adesso alza l'età pensionabile delle donne sta provando da circa un anno a mandare in pensione svariate decine di migliaia di dipendenti pubblici. E' una delle novità della onnicomprensiva legge 133 del 2008: i dipendenti pubblici che abbiano raggiunto i 40 anni di contributi devono andare in pensione, salvo eccezioni discrezionalmente ammesse. Norma che ha causato caos e proteste ovunque, dai dirigenti della sanità e della scuola, ai ricercatori delle università, ai comuni; e che sta manifestando i suoi effetti nel già tormentato mondo della scuola, a stragrande prevalenza femminile: molte professoresse e maestre si sono viste recapitare all'inizio di quest'anno una lettera di “pensionamento coatto” dall'ufficio scolastico regionale, che diceva più o meno: lei ha i requisiti per andare in pensione, nel nostro distretto c'è esubero di personale, dunque lei deve andare in pensione. Solo un cambiamento delle modalità di calcolo in extremis (nei 40 anni non va calcolato il riscatto della laurea, devono essere tutti anni di servizio effettivo) ha impedito un effetto a valanga di questa norma e ne ha ridimensionato un po' l'effetto sull'organizzazione scolastica. Proteste, rivolte e ricorsi al Tar anche nell'università, dove la legge sui 40 anni si è sposata con l'entrata in vigore di nuove regole sul biennio aggiuntivo, che di fatto accorciavano un po' la lunghissima età di servizio dei professori universitari (dai 75 ai 70-72 anni), mandando via qualcosa come 4.000 ordinari in tre anni: anche in questo caso, il “pensionamento coatto” del governo non appare affatto gradito, anzi viene vissuto come un'ingiustizia (1).
Va da sé che in tutti questi casi gli effettivi e giganteschi problemi di invecchiamento del corpo docente (dalla scuola elementare all'università) non erano presi in considerazione dai provvedimenti d'urgenza e coatti: tutti motivati, invece, dalla necessità di rappezzare qua e là il bilancio – più qua che là, visto che ogni euro in meno speso dalle scuole per gli stipendi è un euro in più speso dall'Inpdap per le pensioni. E che il potenziale lato positivo del “pensionamento coatto”, ossia l'apertura al ricambio generazionale, è negato in partenza dal blocco totale o parziale del turn over. Resta il paradosso di un governo che allo stesso tempo alza e abbassa d'autorità l'età della pensione. Che allunga d'autorità alle donne gli anni di lavoro, e allo stesso tempo manda in pensione per forza e senza nessuna valutazione del suo operato una maestra, una professoressa o un'impiegata Asl che non ci vuole andare.
(1) Mentre gran parte del mondo universitario vive come un'ingiustizia l'inamovibilità di un corpo docente tra i più vecchi del mondo, che con la nuova normativa mantiene funzioni e poteri in tema di reclutamento anche oltre il pensionamento: si veda su La Stampa, La cacciata dei baroni e per un riepilogo della discussione http://pil.phys.uniroma1.it/~sylos/Tsunami/discussioni.html
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