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L'impresa che non c'è più: il caso Olivetti

29/06/2010

Una breve parentesi di storia nella serie "grandi imprese". Una rassegna che si propone di aiutare a capire com'è fatto il nostro sistema imprenditoriale, deve prendere in considerazione, oltre a quello che esiste, anche quello che non c’è più. L'Olivetti, per esempio

“…le grandi imprese italiane di livello internazionale si possono contare sulla punta delle dita di due mani amputate…” (Alessandro Profumo)

“…pensiamo veramente che con la ‘mucillagine’ descritta da De Rita manteniamo 60 milioni di abitanti?..." (Giuseppe Berta)

I settori e le imprese che mancano

La presenza di grandi imprese nel nostro paese appare debole sin dalla fine della seconda guerra mondiale. Se fissiamo l’attenzione iniziale sulla metà degli anni sessanta del Novecento, la scarsa presenza di grandi imprese italiane può essere confrontata con la situazione francese, che appariva allora abbastanza simile. Ma, da allora in poi, mentre nel paese transalpino si è registrata una importante riscossa, cosicché oggi la Francia possiede diverse decine di grandi strutture di qualità internazionale, in Italia la situazione è invece molto regredita (si veda in merito, ad esempio, un testo di L. Gallino, 2003).

Si è mortificata la nostra presenza nella chimica, in particolare con la pratica scomparsa della Montedison; non c’è più nella sostanza l’Olivetti; è venuta a mancare la Ferruzzi, si è molto indebolita la Pirelli. Il grande polo siderurgico rappresentato dalla Italsider si è ridotto a ben poca cosa. Non siamo riusciti a costruire qualche grande presenza nella moda e nel design, attività peraltro nelle quali eccelliamo; i tentativi di Benetton e di Marzotto di costruire delle grandi unità nel settore del tessile-abbigliamento sono falliti. Per non parlare dei servizi- un grande paese turistico che non riesce ad avere una catena alberghiera di dimensioni dignitose, un popolo sempre attaccato al telefono che non riesce a produrre neanche un telefonino o del software per gli stessi, sottolineando anche lo stato in cui è ridotta Telecom Italia. Siamo poi del tutto emarginati nelle tecnologie avanzate, dall’elettronica al business ambientale e così via.

Come è noto, molta dell’accumulazione primaria di profitti viene generata da noi attraverso la rendita fondiaria e le correlate attività edilizie, attività in cui basta la familiarità con i politici per guadagnare molti soldi, distruggendo nel contempo le città e il territorio. Anche in questo settore non si è riusciti a creare nel tempo delle medie-grandi imprese, ad eccezione, con molti limiti, della sola Impregilo, società che, peraltro, deve essere periodicamente soccorsa dall’intervento pubblico sotto varie forme.

La carenza di grandi gruppi tende a indebolire il nostro sistema economico su molti fronti, da quello della mancanza di adeguate strutture di riferimento per l’innovazione tecnologica ed organizzativa, alla scarsa fertilizzazione dello stesso sistema attraverso la formazione di tecnici e manager in grado di trasferirsi poi nelle altre imprese dando così una spinta qualificata alla crescita.

Nelle classifiche delle principali imprese del mondo, il numero di quelle del nostro paese appare sempre come molto limitato. Una, pubblicata relativamente di recente dal Financial Times (The Financial Times, 2009), elenca le prime 500 imprese globali classificate secondo il loro valore di borsa; al 31 marzo del 2009 quelle italiane sono soltanto 7 in tutto, molto meno ad esempio di quelle spagnole (12) o anche di quelle olandesi (9).

Per ogni episodio di fallimento che si potrebbe indicare troveremmo comunque sia delle ragioni legate alla gestione interna della singola iniziativa, sia invece riferibili al sistema Italia (carattere spesso perverso dell’intervento pubblico nell’economia, mancanza in specifico di una politica industriale, carenze di formazione e di strutture di ricerca, cultura delle imprese non orientata alla gestione, storiche carenze del sistema finanziario, ecc.).

Vogliamo, in ogni caso, nell’impossibilità di farlo con tutte, ricordare almeno la vicenda del gruppo Olivetti.

 

Alcuni caratteri singolari dell’esperienza Olivetti

La società era cresciuta molto nel dopoguerra e nel 1963 produceva circa il 23% di tutte le macchine da scrivere del mondo e più di un terzo delle calcolatrici (Learned ed altri, 1969). L’azienda era all’avanguardia per livello tecnologico, capacità di innovazione, presenza multinazionale, con stabilimenti in Scozia, Spagna, Argentina, Brasile, Messico, Colombia, Sud-Africa, Singapore, Stati Uniti e Canada.

Il caso Olivetti appare uno degli esempi - si possono ancora citare, tra gli altri, quelli della Italsider di Oscar Sinigaglia e dell’Eni di Enrico Mattei -, di iniziative che nel dopoguerra hanno cercato di spingere in avanti con forza il livello di qualificazione del nostro apparato produttivo.

La gestione della società di Ivrea presentava certamente, a suo tempo, dei caratteri positivi non riscontrabili presso altre strutture.

Le fabbriche erano pulite, luminose, piene d’aria. I dipendenti beneficiavano di servizi sociali senza equivalenti. In fabbrica tutti –dai dirigenti agli operai- prendevano lo stesso pasto. I salari e gli stipendi erano superiori a quelli medi dell’area. I dipendenti che incorrevano in qualche forma di disabilità venivano assistiti con cura e poi riallocati nella produzione. Su di un altro piano, molti tra i più importanti intellettuali italiani sono passati a suo tempo per quell’esperienza.

Adriano Olivetti si rifiutò sempre di aderire alla Confindustria, mentre comunque gli imprenditori italiani lo consideravano un pericoloso sovversivo o, almeno, un matto.

Ricordiamo come venne risolta una crisi sopravvenuta nei primi anni cinquanta, in coincidenza con una temporanea difficoltà di mercato. Si registrano sovrapproduzione e magazzini pieni. Olivetti reagisce in maniera inconsueta: mentre due dirigenti gli suggeriscono di licenziare 500 operai, egli invece licenzia i due dirigenti, raddoppia il numero dei venditori in Italia, il prezzo delle macchine viene ribassato, si aprono nuove filiali commerciali in Italia e all’estero. Per quanto riguarda la produzione, si decide soltanto una riduzione degli orari.

La situazione sopra descritta era il frutto di una precisa visione di Olivetti, che vedeva l’impresa come strettamente integrata nella società, di cui doveva contribuire ad elevare il benessere materiale e civile; ma tali politiche erano rese anche possibili dai grandi profitti –indotti anche da posizioni sostanzialmente monopolistiche in alcuni comparti- che l’impresa riusciva a generare.

L’ingresso nel settore dei calcolatori e le vicende successive

Non abbiamo spazio per coprire tutta la storia dell’azienda. Per capire le sue difficoltà ci limiteremo ad esaminare soprattutto il periodo degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta che appaiono quelli decisivi.

I nodi del problema all’epoca saranno essenzialmente due, l’acquisto della Underwood statunitense e l’ingresso nei calcolatori elettronici.

Per quanto riguarda la seconda questione, l’azienda entra nel settore negli anni cinquanta e raggiunge presto un livello tecnologico d’avanguardia. Ma la presenza dell’azienda nel business era limitata al mercato italiano, dato che le risorse necessarie per espandersi all’estero eccedevano le capacità della società, già in difficoltà per gli investimenti nel settore che impegnavano una parte importante delle finanze aziendali.

Parallelamente, in Francia e in Gran Bretagna si consumava un’esperienza analoga, con la Bull e con la Icl. Si sarebbe dovuti arrivare ad un’integrazione tra le tre realtà, ma così non fu. Nel caso francese e britannico, le due società saranno assistite a lungo dai propri stati, mentre nel nostro caso i politici, che si mostreranno disposti ad accollarsi i panettoni Motta e Alemagna, si rifiuteranno di intervenire nel settore. Sono mancati anche, sempre da parte dello stato, adeguati sostegni alla ricerca.

Quando, poi, nel 1964 ci sarà un salvataggio dell’impresa da parte di un gruppo di intervento, la prima decisione che verrà presa sarà di chiudere il comparto. Le cronache registrano a questo proposito le dichiarazioni sprezzanti di Vittorio Valletta in merito alle prospettive del settore.

Era molto in ritardo, più in generale, una sensibilità adeguata da parte delle aziende italiane, ciò che rendeva poco richiesti i prodotti dell’azienda, mentre le imprese Usa potevano contare su di una domanda nazionale molto larga e sofisticata.

Quindi, si può registrare insieme la mancanza di una politica a livello europeo, la miopia della politica nazionale e anche la scarsa lungimiranza dell’industria privata.

Chiusa l’avventura nei grandi calcolatori, verso la metà degli anni sessanta nei laboratori della società viene messo a punto, quasi in segreto, un nuovo prodotto elettronico, la P101, in sostanza il primo personal computer della storia. Ma l’azienda era rimasta traumatizzata dall’esperienza precedente, la rete distributiva non era preparata a trattare il tema, il prodotto non ebbe un seguito convincente.

Ancora negli anni settanta l’azienda aveva capito il delinearsi di quella che allora veniva chiamata “elettronica distribuita”, la diffusione cioè a livello sempre più vasto sul mercato dei piccoli apparati elettronici. Cambiando anche il gruppo dirigente, si porta avanti in maniera dignitosa un tentativo di adeguare l’impresa alle nuove realtà del mercato. Si registra così qualche successo sul campo, ma il tentativo alla fine non da i risultati sperati sul piano economico; sul fronte finanziario il persistente blocco all’aumento di capitale, in ragione dell’opposizione della famiglia Olivetti - che non voleva perdere il controllo dell’azienda-, frena comunque la possibilità di giocare un ruolo adeguato dell’impresa sul mercato. Nella sostanza, alla fine, la società non aveva le risorse sufficienti e tutte le capacità gestionali necessarie per andare avanti in modo plausibile nel settore. Ne seguirà, a partire dalla fine del decennio, l’ingresso nella società di De Benedetti, iniziativa rivelatasi nel medio termine un’avventura disastrosa, che metterà il suggello finale alla vicenda.

E’ peraltro nostra opinione, in modo a questo proposito diverso da quanto hanno teso a pensare alcuni studiosi e molti manager dell’azienda (si veda ad esempio, in proposito, il bel libro a cura di Novara, Rozzi, Garruccio, 2005), che in realtà De Benedetti non sia stato il solo responsabile del crollo dell’azienda, ma che egli non sia semplicemente riuscito ad invertire una tendenza - anzi magari che abbia contribuito a rafforzarla con i suoi molti errori anche gravi-, che andava già prima di lui verso direzioni senza sbocco.

Il caso dell’Underwood

Ma torniamo un poco indietro. Nel 1960 moriva Adriano Olivetti, poco dopo aver acquisito la Underwood americana.

L’acquisto dell’azienda permette alla società di Ivrea di allargare fortemente la sua rete distributiva, in particolare negli Stati Uniti e di arrivare ad una presenza commerciale e produttiva molto articolata a livello mondiale, tanto che a metà degli anni sessanta ormai l’azienda vendeva in Italia solo il 20% della sua produzione. Ma la società Usa, al di là del prezzo di acquisto, ha bisogno di rilevanti investimenti ulteriori per l’adeguamento degli impianti e la ristrutturazione della rete distributiva. Ivrea non ha poi uomini adeguati a gestire la partita e la Olivetti non capisce bene come trattare il difficile mercato statunitense.

Le finanze della società erano state messe in grandi difficoltà da una parte per l’acquisizione della Underwood, che alla fine era costata circa 100 milioni di dollari, molto più del previsto (Learned e altri, 1969), dall’altra per l’impegno nel settore dei calcolatori. A questa situazione si era in parte risposto con un aumento di capitale. Ma i problemi non sono risolti. Nei primi anni sessanta scoppia la crisi. Essa si manifesta in prima evidenza come crisi finanziaria. Così la famiglia Olivetti venderà la metà delle azioni in suo possesso ad un gruppo che cercherà di rimettere in sesto l’azienda. Del gruppo di intervento faranno parte Mediobanca, Imi, Fiat, Pirelli, La Centrale.

 

Va detto che Olivetti, nel suo anche generoso tentativo di spingere fortemente in avanti i confini dell’azienda, non aveva tenuto in grande conto il problema delle risorse finanziarie; anzi egli coltivava in generale il disprezzo per la finanza e concepiva grandi piani senza tenere in molta considerazione i conti.

 

La morte di Olivetti mette peraltro in luce un altro, forse più rilevante, problema della sua successione. Come le vicende successive mostreranno, l’azienda non ha un gruppo dirigente di ricambio adeguato e nessuno aveva provveduto a formarlo. Certo non mancavano degli ottimi tecnici e manager di tipo specialistico –come non ricordare, ad esempio, il livello culturale di un Momigliano, di un Volponi, di uno Zorzi, o le elevate capacità professionali di alcuni responsabili della produzione o della ricerca, o ancora l’estrosità di un uomo di marketing come Piol-, ma faceva difetto la capacità di coniugare complessivamente i vari e complessi aspetti del business, dalla finanza al mercato, dalle tecnologie alla produzione. Dai primi anni sessanta sino alla fine questo si rivelerà, con qualche limitata eccezione, forse il punto critico più importante delle vicende dell’azienda.

 

Vista la questione in altro modo, dopo la morte di Adriano la sua visione dell’impresa verrà progressivamente meno, senza essere mai sostituita da un qualche convincente modello alternativo e così l’azienda si spegnerà lentamente, sia pure con qualche sussulto temporaneo.

Conclusioni

Il caso Olivetti mostra come alle radici della nostra scarsa capacità ad allineare un numero adeguato di grandi strutture aziendali stia un elenco abbastanza lungo di ragioni, di tipo interno alle imprese ed invece anche proprie del sistema imprenditoriale e politico nazionale. Tali ragioni non sono certo scomparse dagli anni sessanta ad oggi, ma esse stanno, in gran parte, ancora lì, come macigni, a testimoniare di una debolezza strutturale del nostro paese, debolezza che non appare facilmente removibile e al cui superamento, comunque, non sembrano lavorare forze sufficienti.

Testi citati nell’articolo

 

-Gallino L., La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino, 2003

-Learned E., Christensen C. R., Andrews K. R., Guth W. D., Business policy, Irwin, Homewood, Ill., 1969

-Novara F., Rozzi R., Garruccio R., Uomini e lavoro alla Olivetti, Bruno Mondadori, Milano, 2005

-Financial Times, FT global 500 2009, Financial Times, 30/31 maggio 2009

 

 


 


 


 

 

 


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