Home / Archivio / Inchieste / Le grandi imprese italiane / Finmeccanica, le armi come impresa

Ultimi articoli nella sezione

08/12/2015
COP21, secondo round
di Lorenzo Ciccarese
03/12/2015
Lavoro, la fotografia impietosa dell'Istat
di Marta Fana
01/12/2015
La crisi dell’università italiana
di Francesco Sinopoli
01/12/2015
Parigi, una guerra a pezzi
di Emilio Molinari
01/12/2015
Non ho l'età
di Loris Campetti
30/11/2015
La sfida del clima
di Gianni Silvestrini
30/11/2015
Il governo Renzi "salva" quattro istituti di credito
di Vincenzo Comito

Finmeccanica, le armi come impresa

22/06/2010

Finmeccanica è oggi la più importante impresa industriale italiana dopo la Fiat. Il suo business, triplicato dal 2000 al 2009, è concentrato al 75% nel settore militare. Società a controllo pubblico, quotata in borsa, è all'ottavo posto tra i produttori mondiali di armamenti. Produce solo il 30% del fatturato in Italia, il 23% negli Stati Uniti

La Finmeccanica è oggi la più importante impresa industriale italiana dopo la Fiat; essa è inoltre il primo gruppo italiano operante nel settore delle tecnologie avanzate.

Eppure, per diversi decenni essa ha dovuto affrontare continui problemi, complicate ristrutturazioni, permanenti carenze di risorse finanziarie, rapporti difficili al suo interno e con il potere politico. Dopo molte crisi e diversi cambiamenti di orizzonte strategico, che la hanno anche portata a un processo di parziale privatizzazione – oggi il potere pubblico controlla all’incirca il 30% del suo capitale, mentre l’azienda è quotata in Borsa –, essa ha apparentemente trovato un suo equilibrio strategico, organizzativo ed economico ormai da diversi anni, avendo puntato praticamente tutte le sue carte sul business militare e attività collegate, con un gruppo dirigente che viene per una buona parte proprio da quel settore. Si tratta, peraltro, di un equilibrio non molto positivo socialmente.

L’andamento del mercato militare

Il crollo dell’Unione Sovietica aveva portato per un certo periodo alla riduzione delle spese militari nei principali paesi sviluppati. Poi la spesa ha ricominciato a correre. Gli Stati Uniti sono stati il principale paese all’origine di questa tendenza, anche se va segnalato, negli ultimi anni, il forte incremento di impieghi che si va registrando in diverse nazioni emergenti. Comunque la quota degli Stati Uniti nella produzione mondiale si può stimare ancora oggi intorno al 42%.

Come documentato dalle ricerche Sipri (Sipri, 2009, 2010), la spesa militare a livello globale ha raggiunto nel 2008 i 1.464 miliardi di dollari, con un incremento del 4% in termini reali sull’anno precedente – nonostante la crisi - e del 45% sul 1999.

Da sottolineare che quello degli armamenti è stato nel dopoguerra e in larga parte continua ad essere ancora oggi un settore chiave per l’innovazione tecnologica delle varie economie, in particolare di quelle più avanzate.

Alcune caratteristiche del settore

L’industria aereonautica, spaziale e militare presenta almeno tre caratteristiche strutturanti di base (Checidi, Talbot, 2006):

  • è legata strettamente e in tutti i paesi alle questioni di sicurezza nazionale;
  • mostra una stretta correlazione-dualità tra prodotti civili e militari;
  • intrattiene dei rapporti molto particolari con i governi.

Le regole tradizionali del settore sono passate nell’ultimo periodo (Khecidi, Talbot, 2006) da una logica che possiamo chiamare di “arsenale” ad una di tipo commerciale. Nella prima fase, gli stati erano l’attore principale su molti fronti, da quello delle commesse, a quello della stessa produzione, a quello del finanziamento della ricerca. Ma le imprese tendono da tempo a rendersi progressivamente autonome e le nozioni di costo, successo commerciale, redditività dei progetti, assumono un’importanza prima sconosciuta, mentre il ruolo dello stato si riduce, tranne che ovviamente per quanto riguarda le commesse.

Si è così messo in opera nel settore, anche in Europa, un nuovo rapporto di forza tra lo stato e il capitale privato. Questo ultimo nuovo protagonista trova degli apparati pubblici in una posizione condiscendente al suo sviluppo. Più in generale, come mostra anche il caso Finmeccanica, tra le imprese, le gerarchie militari, le burocrazie ministeriali, si registra un intreccio intenso e permanente. Tale intreccio riguarda anche, naturalmente, diffusi episodi di corruzione “commerciale”, sui quali il nostro paese ha peraltro da lungo tempo delle importanti tradizioni e come anche i recenti casi giudiziari che sembrano poter toccare la società potrebbero mostrare.

In ogni caso, l’industria degli armamenti diviene la locomotiva delle politiche europee nel comparto: l’economia sembra governare la politica anche in tale attività.

L’industria del settore tende intanto anche a globalizzarsi, attraverso l’insediamento delle singole società nelle principali regioni produttive del mondo.

Negli Stati Uniti le grandi imprese dell’armamento sono tutte quotate in borsa e controllate di fatto dai grandi investitori istituzionali. In Europa, invece, si registra un intreccio complesso di partecipazioni incrociate, joint-ventures, collaborazioni su progetti specifici, nelle quali di frequente sembra difficile capire chi controlla chi. E’ ancora significativa, nonostante i processi di privatizzazione, la presenza dell’operatore pubblico nel capitale delle imprese del settore.

Secondo l’indagine Sipri già citata, con dei dati che si riferiscono al 2007, sui primi dieci principali produttori di armi sei sono statunitensi – con le società Usa che occupano 5 dei primi sei posti – e quattro europei; la Finmeccanica si colloca al nono posto, ma diventerà ottava nell’anno successivo.

Strategie di sviluppo dell’impresa

Il pieno dispiegarsi dei processi di globalizzazione e di innovazione tecnologica, con l’impossibilità che essi hanno comportato di continuare a competere efficacemente in molti business, hanno spinto le imprese di tutto il mondo a ridurre il loro livello di diversificazione. La Finmeccanica ha scelto di concentrarsi sul business delle armi.

La società opera oggi nei comparti degli elicotteri, dell’elettronica per la difesa, dei velivoli civili e militari – questi sono anche i suoi business prioritari –, dei satelliti e delle infrastrutture spaziali, dei sistemi di difesa; un posto marginale rivestono i trasporti e l’energia. Il settore militare copre circa il 75% dell’ attività, mentre quello civile, almeno in parte peraltro tecnologicamente legato al precedente, il 25%.

Negli ultimi anni il gruppo ha molto investito nei processi di internazionalizzazione. Questo è avvenuto in particolare con una serie di acquisizioni di imprese in Gran Bretagna e negli stessi Stati Uniti. Così il fatturato in Italia si colloca oggi a meno del 30% del totale, mentre quello statunitense dovrebbe aggirarsi ormai intorno al 23%. Assistiamo, più in generale, alla marginalizzazione crescente del nostro paese nelle strategie del gruppo, come del resto succede parallelamente in quelle di altri grandi gruppi nazionali, dalla Fiat all’Eni, alle Generali. Ma questo deriva in parte, oltre che dalle spinte indotte dai processi di globalizzazione, anche dalle relativamente limitate dimensioni del nostro mercato e dalla scarsa capacità di attrazione “politica” del nostro paese.

L’altro aspetto dei processi di internazionalizzazione riguarda per la Finmeccanica la creazione di una fitta rete di joint-ventures, messe a punto con altre grandi imprese soprattutto francesi, britanniche, statunitensi, ma ora anche russe, africane, medio- orientali, asiatiche. Tale tendenza indica la credibilità crescente del gruppo, collegata anche alla presenza di atout tecnologici e di mercato non trascurabili.

Rilevanti appaiono ora i programmi di espansione verso l’area del Mediterraneo, del Nord Africa e del Medio Oriente, nonché la Russia, il Brasile ed ora anche la Cina e l’India.

A proposito di collaborazioni con altri partner in business non militari due questioni di rilievo sembrano terminate in maniera poco convincente.

Appare intanto negativa l’avvenuta decisione presa qualche anno fa di sbarazzarsi, a favore del Tesoro, della partecipazione nella STMicroelectronics – la più rilevante presenza italiana nei settori delle altre tecnologie sia pure in condominio con i francesi –, che poteva forse essere un punto di attacco significativo per una diversificazione molto qualificata e lontana dalle attività militari.

La seconda questione riguarda il consorzio Airbus, che vede la partecipazione al capitale di tutte le principali nazioni europee, esclusa proprio l’Italia. Ma il gruppo italiano – sostenuto dai vari governi che si sono succeduti nel tempo – ha sempre preferito l’accordo con gli americani e la Boeing, che peraltro ha risolto in passato dei rilevanti problemi di sbocchi produttivi per alcuni degli impianti del gruppo.

Produzione, occupazione, rapporti sindacali, risultati economici e finanziari

I ricavi del gruppo Finmeccanica sono stati pari nel 2009 a circa 18,2 miliardi di euro, contro i 6,8 del 2001 e i 15,0 circa del 2008. Si tratta, complessivamente, di un aumento della cifra d’affari di quasi tre volte in otto anni.

Per quanto riguarda la situazione economica e finanziaria, l’utile netto ha teso a crescere negli ultimi sette-otto anni, collocandosi quindi la società, in quest’area, comunque meglio che nel periodo precedente, che registrava risultati spesso deprimenti. La situazione finanziaria, in presenza di rilevanti investimenti, in particolare per le acquisizioni, nonché di una crescita della redditività comunque non sufficiente, ha teso negli ultimi anni ad appesantirsi un poco, ma non sembra che ci sia motivo di allarme e il 2009 vede apparentemente un leggero miglioramento della situazione. Ma la società non sembra ormai potersi peraltro permettere altri rilevanti impegni sul fronte dell’espansione esterna.

Le minacce rappresentate dalla crisi potrebbero comportare qualche difficoltà aggiuntiva al gruppo proprio nel momento in cui l’espansione del fatturato dell’ultimo periodo avrebbe dovuto tradursi in risultati reddituali e finanziari più soddisfacenti. Così, il ritorno economico degli ultimi rilevanti investimenti legati ai processi di internazionalizzazione potrebbe dimostrarsi molto inferiore alle attese.

Il gruppo contava al dicembre del 2009 circa 73.000 addetti, rispetto ai 56.600 del 2005, con una crescita dovuta anch’essa essenzialmente all’espansione all’estero. Invece l’occupazione in Italia sembra essere in leggero, costante calo, anche se nel nostro paese si concentra ancora il 59% dell’occupazione totale. Anche la produzione nel nostro paese è ancora percentualmente maggioritaria, anche se in diminuzione, mentre è relativamente importante in Gran Bretagna, il secondo polo di insediamento del gruppo, negli Stati Uniti, in Francia, in Polonia. Dal 2000 ad oggi non si registrano rilevanti processi di ristrutturazione che tocchino in maniera importante l’occupazione del gruppo e in particolare nessun significativo processo di decentramento produttivo, al contrario che nel caso di altre realtà produttive, salvo alcuni fatti degli ultimi mesi, ai quali si fa cenno più avanti.

Per quanto riguarda la politica sindacale (Comito, 2009), le relazioni tra l’impresa e le rappresentanze dei lavoratori appaiono nel complesso abbastanza buone. Questo fatto può essere spiegato da una parte con la storia; la Finmeccanica faceva parte del gruppo Iri, godeva di un sistema di relazioni sostanzialmente centralizzato e in qualche modo controllato dalla politica, che imponeva su quel fronte una linea morbida. Inoltre, pensiamo che tale carattere pacifico venga mantenuto anche per la presenza piuttosto ingombrante di un grande cliente pubblico. Ma qualche ombra si va ora profilando con i primi segni di difficoltà di mercato in Italia.

Quale strategia per il futuro

Il carattere di controllo pubblico dell’azionariato non ha impedito certo nel tempo alla società di ottenere rilevanti successi di mercato nel mondo; la formula di una rilevante presenza pubblica nel capitale, insieme alla quotazione in borsa delle azioni, sembra, in questo caso come anche in quello dell’Eni, in qualche modo poter funzionare bene.

Peccato che tali successi vengano ottenuti, nel caso specifico, in un settore, quello delle armi, che è portatore di lutti e sciagure per il mondo. Da segnalare, a questo proposito, un fatto persino sorprendente: tra il 2008 e il 2009, mentre in tutti i settori produttivi le esportazioni italiane cadevano più o meno pesantemente, quelle degli armamenti aumentavano del 74%.

Peraltro, la strategia della società appare almeno in parte minacciata, in una prospettiva anche prossima, da possibili tagli al mercato della difesa da parte almeno dei paesi occidentali.

Tali timori si materializzano, per il momento, soprattutto in Europa; nel nostro paese il gruppo ha previsto di dover mettere in cassa integrazione quest’anno 1500 persone nei settori aereonautica, difesa e spazio; la Alenia Aereonautica annuncia poi la chiusura del sito di Brindisi e il ridimensionamento di quello di Venezia, con numerosi esuberi. Anche la Gran Bretagna presenta problemi di budget rilevanti e le prospettive del settore elicotteristico del gruppo appaiono quindi incerte.

Si ha, in ogni caso, la netta sensazione che la forte crescita dimensionale ottenuta nell’ultimo decennio dalla società sia ormai arrivata ad un sostanziale punto di arresto. Intanto si vanno scatenando delle lotte sorde per il rinnovo dei vertici della società, che scadono nel 2011 e in particolare Guarguaglini, che ha guidato così “brillantemente” l’azienda nell’ultimo periodo, rischia di essere sostituito.

Si pone, a nostro parere, il problema di individuare una strategia di riconversione delle produzioni dell’impresa verso impieghi pacifici (Comito, 2009). Non si può certo domandare una chiusura rapida delle attività nel settore bellico, ciò che sarebbe del tutto irrealistico. Si può però auspicare una graduale riconversione delle sue strategie, indirizzandole nel tempo prevalentemente verso impieghi pacifici, partendo dal know-how attuale e potenziale della società, che appare rilevante in diversi domini.

Bisogna intanto considerare che, per quanto riguarda i suoi business a tecnologia duale, appare importante l’idea di accentuare gli sforzi verso il settore dell’aeronautica civile e di quello spaziale. Pensando poi anche alle necessità dell’Italia, si può valutare che un campo di intervento prioritario debba essere quello dell’energia –purtroppo in questi mesi la società è coinvolta invece nel progetto della costruzione delle nuove centrali nucleari nel nostro paese-, in specifico nelle aree del risparmio energetico e delle energie rinnovabili, settori nei quali sarebbe auspicabile un più generale maggiore impegno del nostro paese e di altre importanti società, dall’Enel all’Eni; la almeno relativa e ottusa indifferenza di tali gruppi, dietro dichiarazioni e decisioni contrarie di pura facciata -tale politica riflette peraltro le scelte governative-, sta contribuendo a rendere il nostro paese relativamente marginale in un comparto invece a fortissima crescita mondiale. Infine, l’altro settore su cui si potrebbe insistere appare quello dei trasporti di massa, attualmente in pieno boom in tutto il mondo, a partire dall’ Asia.

Testi utilizzati nell’articolo

Comito V., Le armi come impresa. Il business militare e il caso Finmeccanica, Edizioni dell’asino, Roma, 2009

Khecidi M., Talbot D., L’industrie aéronautique et spatiale: d’une logique d’arsenal à une logique commercial, in (a cura di) G. Colletis e Y. Lung, La France industrielle en question, analyses sectorielles, la Documentation Francaise, Parigi, 2006

Sipri, Sipri yearbook 2009 e 2010, Oxford University Press, Oxford, 2009 e 2010

Bilanci e comunicazioni ufficiali aziendali

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui

Commenti