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Che razza di imprese
I risultati dell'inchiesta di sbilanciamoci.info sulle grandi imprese italiane. Sotto la lente: Alitalia, Autostrade, Benetton, Cir, Coop, Enel, Eni, Ferrero, Fiat, Fininvest, Fs, Generali, Ligresti, Mediaset, Mediobanca, Mondadori, Olivetti, Pirelli, Rai, STMicroelectronics, Telecom, Unicredit
Alitalia, Autostrade, Benetton, Cir, , Enel, Eni, Ferrero, Fiat (1) (2) (3), Fininvest, Fs, Generali, Ligresti, Mediaset, Mediobanca, Mondadori, Olivetti, Pirelli, Rai, STMicroelectronics, Telecom, UnicreditCoop
Premessa
Giunti alla fine del lungo viaggio nel mondo delle grandi imprese italiane che abbiamo effettuato nei mesi scorsi con gli articoli pubblicati sull’argomento su questo stesso sito cerchiamo di trarre alcune considerazioni di tipo generale da tale avventura.
Ricordiamo soltanto preliminarmente che abbiamo passato in rassegna, per necessità di spazio in maniera abbastanza sintetica, venti gruppi d’impresa in totale e che hanno collaborato alla stesura dei singoli pezzi sei autori diversi.
Le carenze del nostro sistema di grandi imprese
Intanto, persino ovviamente, la prima constatazione che si può fare appare quella che il numero complessivo delle grandi imprese del nostro paese appare piuttosto esiguo e che sono anche rilevabili nel nostro caso dei rilevanti vuoti di presenza, in particolare in diversi tra i settori industriali e in quelli dei servizi più avanzati.
Viene inoltre anche abbastanza confermata dalla rassegna la debolezza strutturale complessiva di molte di quelle oggi operanti sul mercato e comunque una specializzazione produttiva orientata prevalentemente verso i settori a bassa e medio-bassa tecnologia. Si tratta peraltro di considerazioni già avanzate da molto tempo da diversi studiosi e analisti.
Merita comunque sottolineare una caratteristica particolare che emerge dall’analisi di diverse delle imprese considerate, quella cioè della tendenza a spostare il centro delle loro strategie dai business aperti al mercato e nei quali si registra una più o meno vivace concorrenza, verso invece attività di concessionarie pubbliche di servizi o comunque di attività soggette ad autorizzazioni statali di vario tipo; con l’entità pubblica appare evidentemente comodo intendersi e raggiungere così obiettivi di redditività rilevanti con relativamente poco sforzo.
Alla fine, nonostante qualche progresso recente sul fronte strategico, organizzativo, dei processi di internazionalizzazione, nonché su quello della qualità del management, resta forse l’amaro in bocca per quello che le grandi imprese italiane avrebbero potuto essere e non sono state, per quello che avrebbero potuto fare e non hanno fatto, in tempi lontani come in quelli più recenti.
Ci troviamo di fronte a un corpo sostanzialmente debilitato. Non deve certo meravigliare a questo punto che si vada registrando in questi mesi un assalto importante a diverse delle nostre società da parte dei capitali francesi, mentre si sussurra anche di una cessione di pezzi del gruppo Fiat a imprese tedesche.
I processi di internazionalizzazione
Per quanto riguarda più in generale i processi di internazionalizzazione, negli ultimi anni essi sono stati indubbiamente al centro delle riflessioni e delle strategie della gran parte delle imprese considerate, comunque con alcune rimarchevoli eccezioni – quali i casi del gruppo Ligresti, delle Coop, della Cir, in parte della stessa Mediobanca, che peraltro negli ultimi anni comincia ad affacciarsi anch’essa sui mercati esteri –; l’elenco si allungherebbe se prendessimo in considerazione tutte le grandi imprese nazionali non comprese specificamente nella rassegna.
A oggi risulta, in ogni caso, almeno per le imprese italiane che hanno puntato molte delle loro carte sullo sviluppo internazionale, soprattutto una rilevante presenza nell’area europea. Più in dettaglio, nel nostro continente gli insediamenti delle grandi imprese italiane sono in qualche modo visibili soprattutto nell’Europa occidentale, area nella quale essi appaiono motivati soprattutto dalla ricerca di mercati di sbocco, ma essi sono abbastanza vivaci anche nella parte centro-orientale dell’area, dove, accanto all’obiettivo di tipo commerciale, si registra quello della ricerca di un più basso costo dei fattori produttivi, in particolare del lavoro, una vera ossessione quest’ultima, almeno in tutta la storia recente, del nostro sistema imprenditoriale.
Alla fine, le grandi imprese italiane appaiono, comunque e complessivamente, come un attore, tutto sommato, poco importante della scena economica europea.
Molto meno rilevante è in ogni caso il loro insediamento nel resto del mondo.
Visibile comunque per alcuni gruppi un’accresciuta presenza recente negli Stati Uniti. Si pensi ai casi di Finmeccanica e della stessa Fiat, mentre il tentativo di sbarco massiccio nello stesso paese da parte di Benetton si è a suo tempo risolto in uno scacco almeno relativo.
In America Latina il tradizionale presidio rilevabile localmente di alcune nostre grandi imprese ha subìto negli ultimi decenni un ridimensionamento almeno relativo, parallelamente all’avanzare invece di altri paesi europei, in particolare della Spagna; si manifesta ora invece, in alcuni casi almeno, un rinnovato interesse per l’area da parte di alcuni soggetti, quali la Fiat, la Pirelli, Telecom Italia.
Trascurabile, anche se in crescita, la presenza invece in quella che appare la parte più dinamica dell’economia mondiale, l’Asia e in particolare in tutti e tre i paesi chiave dell’area, Giappone, Cina, India.
Questo, insieme agli scarsi sforzi diretti verso l’America del Nord, indica una debolezza fondamentale del nostro sistema industriale, che non sarà facile colmare.
Ridotta appare anche la presenza nell’area africana e mediorientale, anche in questo caso con qualche limitata eccezione.
Le tendenze sopra delineate trovano piena conferma in uno studio recente, più onnicomprensivo e più quantitativo, dell’Ice (1). Da tale ricerca si rileva che il numero delle imprese partecipate da società italiane nei paesi dell’Unione europea è uguale complessivamente al 41% del totale, quello nell’Europa centro-orientale al 17%, in America latina all’8,8% e quello verso il Nord America all’11,4%, mentre viene ribadita la ridotta presenza in Africa e in Asia. Da tale studio appare inoltre che nel 2009 gli investimenti diretti italiani all’estero erano pari al 27,4% del nostro pil, contro il 76% della Gran Bretagna, il 64,9% della Francia, il 44,2% della Spagna, il 41,2% della Germania.
L’aumento dell’attenzione ai processi di internazionalizzazione da parte della grande impresa comporta ovviamente che una quota crescente dell’attenzione strategica delle aziende considerate, dei suoi investimenti, dei suoi livelli occupazionali, sia rivolta verso i paesi esteri. Naturalmente questa tendenza può comportare il pericolo concreto di una marginalizzazione crescente del nostro paese nelle strategie dei grandi gruppi nazionali, fenomeno riscontrabile ad esempio e per lungo tempo se si analizzano i processi storici della grande impresa britannica.
A questo punto quello che potrebbe fare la differenza e convincere le nostre imprese a mantenere una parte consistente, e si spera la più qualificata, delle loro attività da noi, appare il ruolo che potrebbero giocare le politiche pubbliche; esse dovrebbero incoraggiare e stimolare tale indirizzo con un adeguato sistema di incentivazioni su vari fronti, dalla politica per la ricerca a quella del lavoro, nonché con un sostanziale miglioramento nell’operare delle burocrazie pubbliche. Ma è noto che questo non è avvenuto e continua a non avvenire, e ciò comporta in prospettiva delle rilevanti minacce.
Comunque, almeno sino a oggi, la spinta verso processi di delocalizzazione produttiva nei confronti dei paesi esteri appare, per quanto riguarda almeno le imprese esaminate e con l’attuale possibile eccezione pur molto rilevante del gruppo Fiat, piuttosto limitata.
L’influenza della crisi
Le difficoltà degli ultimi anni hanno avuto indubbiamente un’importanza rilevante sia sui risultati economici e finanziari recenti delle imprese considerate che per quanto riguarda alcuni mutamenti nelle loro scelte strategiche.
Mentre un numero ridotto delle società analizzate – Generali, Ferrero, Enel, Finmeccanica – non hanno sofferto molto con la crisi, anzi in qualche caso si è assistito persino, nell’ultimo periodo, a un aumento degli utili, la maggior parte di esse hanno registrato invece una riduzione sensibile dei loro profitti e, in diversi casi, si è assistito a un drastico ridimensionamento degli stessi o, peggio ancora, a un passaggio da una situazione di utili a una di perdite, ciò che ha portato poi a un quadro di difficoltà molto rilevanti per qualcuno.
Tali conclusioni sono confortate dalle analisi quantitativamente molto precise portate avanti di recente dal servizio studi di Mediobanca (2), analisi che mostrano, tra l’altro, come il roi (ritorno sugli investimenti) delle grandi imprese italiane – calcolate complessivamente in numero di 25 unità – sia passato in media dal 12,8% del 2007 al 4,6% del 2009, mentre il valore aggiunto dello stesso campione di imprese sia diminuito del 20% tra il 2000 e lo stesso 2009.
Va comunque ricordato che i dati di bilancio relativi al 2010 mostrano, tranne che in qualche caso come quello del gruppo Ligresti, un certo miglioramento dei risultati economici.
Peraltro, la crisi ha peggiorato le prospettive future di diverse imprese, anche tra quelle sino a ora poco toccate dalla stessa – si pensi, ad esempio, sempre al caso della Finmeccanica, che deve ora far fronte alla riduzione degli stanziamenti per il settore militare un po’ in tutti i paesi occidentali nell’ambito dei programmi di contenimento della spesa pubblica – e ha comunque indotto la gran parte delle stesse a ripensare almeno in parte le proprie strategie.
Tra le varie dimensioni di tale ripensamento appare, tra l’altro, evidente una spinta ancora maggiore di prima a indirizzare molti sforzi verso i mercati e gli insediamenti esteri, ora anche verso quelli più lontani, alla ricerca di una maggiore diversificazione degli sbocchi e di una parallela riduzione dei rischi della gestione operativa; si assiste, inoltre, a una revisione delle strutture organizzative e a una ricerca di riduzione dei costi – e tra questi in particolare quelli relativi alla manodopera.
In alcuni casi in particolare – come in quelli di Unicredit, di STMicroelectronics, di Telecom Italia – l’attenzione al ridimensionamento degli organici si è fatta di recente molto accentuata, mentre anche in un gruppo in rilevante sviluppo da tempo come la Finmeccanica si sono verificati negli ultimi anni riduzioni, sia pur modeste, dell’occupazione nel nostro paese. È ben nota, peraltro, la persistente e continua perdita di posti di lavoro in Italia che si verifica ormai da decenni in un gruppo come la Fiat.
Più in generale, le periodiche rilevazioni dell’Istat certificano ormai da molti anni una rilevante e continua riduzione nel numero degli occupati nel sistema complessivo delle grandi imprese nazionali, mentre dalla già citata ricerca Ice appare una crescita abbastanza importante, anche se non enorme, dei dipendenti esteri, almeno per il complesso delle nostre imprese.
Sul fronte finanziario, è noto come la situazione delle grandi imprese italiane sia tradizionalmente caratterizzata, in media, da un importante livello di indebitamento, fenomeno confermato anche dall’analisi delle imprese del campione – naturalmente con qualche eccezione. La crisi ha in diversi casi aggravato la situazione; tra i gruppi che sembrano presentare importanti problemi su questo fronte ricordiamo, tra gli altri, Ligresti, Benetton, la Pirelli, l’Enel, Telecom Italia, la Rai. In almeno due casi –Ligresti e Pirelli – questo ha, tra l’altro, portato recentemente all’ingresso di altri importanti soci, portatori di capitali freschi, nella compagine societaria e di controllo del gruppo, scompaginandone forse in prospettiva i tradizionali equilibri interni che la stessa Mediobanca non sembra apparentemente più in grado di tutelare adeguatamente come riusciva a fare in passato.
Le strutture societarie
Bisogna premettere che, a livello della struttura del capitale delle imprese considerate, siamo di fronte a un quadro che, esclusi i pochi casi di controllo pubblico, fa riferimento esclusivamente ad aziende a controllo familiare o, comunque, di ristretti gruppi di comando.
Una caratteristica importante che emerge immediatamente dalle analisi appare quella relativa alla permanenza nel tempo e nella gran parte dei casi di strutture societarie di tipo molto, a volte troppo, complesso.
Tale fatto è da porre in relazione a considerazioni che riguardano la necessità del mantenimento del controllo delle imprese da parte dei suoi azionisti di riferimento; è molto importante a questo proposito la persistenza, sia pure con qualche crepa, del tradizionale e arcaico “sistema Mediobanca”, che permette alle grandi famiglie di governare spesso vasti imperi con scarsi capitali propri. Tale preoccupazione fa gonfiare, tra l’altro, il numero delle cosiddette scatole cinesi.
Sono molto importanti anche i sempre rinnovati patti di sindacato collegati alla partecipazione al capitale di imprese amiche in funzione di sostegno al gruppo di controllo. Questo contribuisce a spiegare, tra l’altro, il fatto che i protagonisti della scena presenti nel nostro sistema imprenditoriale siano pochi e quasi sempre gli stessi.
Peraltro, è noto, come a suo tempo sottolineato da qualcuno, che il nostro appare “un capitalismo senza capitale” e quindi la fantasia mostrata in diversi casi nel mettere in piedi articolate strutture societarie dipende molto dal tentativo di far fronte a tale questione.
Inoltre, bisogna certamente fare riferimento anche a considerazioni di tipo tributario – è molto frequente a questo proposito la presenza di finanziarie collocate in Lussemburgo e in altri paradisi fiscali, entità posizionate a volte in cima alla piramide societaria o anche a livelli intermedi, secondo le necessità contingenti.
Infine, come la letteratura ha mostrato già da molto tempo, strutture organizzative così complesse sono spesso il veicolo per sottrarre risorse agli azionisti di minoranza e concentrarle invece nel cuore del sistema; tutto mostra la persistenza di questa modalità di gestione.
L’attenzione molto importante rivolta alle architetture e ai giochi societari rischia di frequente di sovrastare quella verso le attività operative; così ci si concentra troppo spesso sugli aspetti finanziari della gestione piuttosto che su quelli industriali e commerciali, sull’estrazione di risorse dal sistema piuttosto che sulla loro creazione, come mostrerebbe facilmente anche un’analisi dei dati relativi alle imprese quotate in borsa; essa indicherebbe in effetti che, almeno nell’ultimo periodo, gli importi che nelle società quotate vengono annualmente distribuiti agli azionisti sotto forma di dividendi superano in misura rilevante quelli immessi nel sistema come aumenti di capitale.
I rapporti con i pubblici poteri
Negli ultimi anni la presa dei pubblici poteri sulle grandi imprese non solo non è diminuita ma ha teso anzi ad accrescersi, soprattutto per via indiretta.
Intanto alcune grandi imprese vedono comunque, ancora oggi, la loro quota di controllo azionario permanere nelle mani pubbliche.
Una novità degli ultimi anni che occorre ricordare riguarda invece la tendenza al delinearsi di intrecci perversi e in parte oscuri tra le imprese e il governo italiano almeno in un alcuni paesi, dalla Russia alla Libia, al Kazakistan, all’Egitto, come anche le cronache giornalistiche, sino alle rivelazioni di Wikileaks e ai recenti casi della stessa Libia, non hanno mancato di sottolineare.
Oltre alla presenza diretta dei pubblici poteri nel mondo delle imprese va registrata anche quella indiretta – e questa appare una novità –, che tende a essere piuttosto rilevante nell’ultimo periodo per il fatto che – in particolare attraverso il sistema Mediobanca-Generali e l’influenza che su tale sistema tendono ad avere oggi gli uomini di governo o quelli da loro sostenuti– dall’attuale potere pubblico tende a partire una serie di impulsi decisionali a cui appare difficile resistere – si veda, a questo proposito, il recente caso della privatizzazione di Alitalia, per la quale il governo è riuscito a mobilitare rapidamente intorno a un progetto perlomeno molto discutibile molti gruppi imprenditoriali. L’estromissione di Geronzi da Mediobanca potrebbe però contribuire ora a mutare almeno in parte il quadro.
Appaiono fuori in senso lato dal circuito “pubblico” poche imprese, tra le quali segnaliamo il gruppo Fiat – che peraltro sino a pochi anni fa appariva invece pienamente coinvolto nel gioco –, quello Ferrero, quello Cir-De Benedetti.
Per quanto riguarda ancora l’intervento pubblico da un altro punto di vista, sostanzialmente ognuno dei venti casi descritti nel testo pone in evidenza lo scarso adeguamento su vari fronti delle politiche in senso lato industriali rispetto a quanto sarebbe richiesto. Così, gli esempi di Eni e di Enel indicano la necessità di un mutamento delle politiche energetiche del nostro paese, quelli relativi a Mediobanca e Generali mostrano l’esigenza di un diverso diritto societario e di un migliore funzionamento dei nostri organi di controllo istituzionali, mentre pongono anche gravi interrogativi sulla possibile indebita ingerenza dell’attuale governo sugli affari del settore finanziario – ingerenza che di nuovo il recentissimo cambiamento negli assetti di potere nella società di Trieste sembra mettere peraltro in difficoltà –, il caso Benetton-Autostrade punta all’esigenza di una diversa gestione della politica delle concessioni, quello Ferrero e di altri gruppi alla evidenza dei troppi gradi di libertà lasciati ai paradisi fiscali anche in Europa, quello Finmeccanica alla necessità di una politica di riconversione per il settore degli armamenti, quello Stm e quello Telecom Italia all’urgenza di adeguate misure per le tecnologie avanzate, quello Fiat, infine, di nuovo e forse più in generale, all’urgenza di una politica industriale e di una politica del lavoro degne di questo nome.
Insomma, un lavoro immane che bisognerà pur avviare prima che sia troppo tardi.
Note
(1) Ice, Rapporto 2009-2010, l’Italia nell’economia internazionale, Roma 2010, ricerca reperibile sul sito www.ice.gov.it
(2) Si veda in proposito di F. Coltorti, capo del suddetto servizio studi, Competitività dell’industria italiana. Dati recenti e prospettive, Fondazione Ugo La Malfa, Roma, 12 ottobre 2010, intervento disponibile sul sito della Fondazione
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