Regole fiscali, austerity, pareggio di bilancio in Costituzione. E, dopo l’Ecofin di Milano, arriva un diretto controllo europeo sull’attuazione delle riforme su giustizia, mercato del lavoro e burocrazia. Un continuo rialzo della posta a cui non corrisponde alcuna proposta politica di rilancio e integrazione dell'Europa
Forse è giunto il momento di lasciare euro ed Europa. Da europeista ultra convinto arrivare a questo dubbio mi costa davvero molto. È che a indurmi in tentazione non è un episodio specifico ma una sequenza perversa di cessioni di sovranità.
Non sono bastate le regole di bilancio e le imposte pratiche di austerity, né la richiesta europea di costituzionalizzare il vincolo di bilancio, strampalatissima e miope (bastava vedere i guai che procura una regola molto più debole negli Usa). L’Ecofin di Milano di questa settimana pare si sia chiuso con l’intenzione (a quanto riferisce Andrea Bonanni su La Repubblica del 13 settembre) di rafforzare il controllo europeo sul progredire effettivo dell’attuazione delle riforme fatte dai singoli stati (in particolare Italia e Francia), in particolare quelle riguardanti la giustizia, il mercato del lavoro e la burocrazia.
Il problema, a ben vedere, non sono i vincoli e la richiesta di controlli. È in primo luogo il fatto che a questi continui rialzi della posta non corrisponda, da parte di istanze politiche europee, la minima offerta costruttiva per arrivare ad una Europa realmente federale, con un bilancio e una costituzione federali e con una sovranità istituzionale della Confederazione non basata solo sulla forza e sulla cultura dell’eurocrazia. Il problema è, in secondo luogo, che si continui a negoziare su questi temi da parte di ministri senza che una voce realmente “politica” si levi, in questi consessi, per rivendicare un protagonismo della politica; in altri termini che i vari ministri dell’economia europei non si rendano conto di essere dei veri e propri burattini nelle mani degli eurocrati (o forse se ne rendono conto ma non se la sentono di venir meno al bon ton degli ambienti europei). In terzo luogo è lecito chiedersi: supponiamo che i ministri europei siano d’accordo; saranno loro a valutare lo stato di attuazione delle riforme ovvero non saranno ispezioni e documenti predisposti dai tecnici della Commissione? Possibile che non ci si renda conto di quali inaudite cessioni di potere siano in ballo?
E qui veniamo al dunque. Quale riforma del mercato del lavoro? Sappiamo che quel che si vuole sono flessibilità e riduzioni della garanzie, citando il successo di chi ha fatto riforme così delineate. Ma si tratta di un successo molto discutibile, debole ed effimero, comunque molto distante dallo spessore e dalla solidità che le stesse caratteristiche hanno in Germania e nei paesi che hanno avuto una forte e precoce influenza da parte della Germania. Ed infatti solo apparentemente si tratta delle stesse caratteristiche. Pochi sanno, ad esempio, che il tanto citato modello di formazione duale tedesco (che secondo il ministro Giannini è in vigore da una trentina di anni) è qualcosa i cui capisaldi risalgono al disegno dirigistico e lungimirante di Bismarck, che, in reazione alla devastazione del mercato del lavoro prussiano provocato dallo scioglimento delle gilde (riforma voluta dai liberali di qualche tempo prima), volle innestare la cultura professionale e di formazione professionale che era stata delle gilde nel sistema delle medie e grandi imprese. Pochi sanno che si è trattato di un processo consolidato e ammodernato nel tempo ma solo e sempre d’intesa tra länder, sindacati operai e associazioni industriali, divenendo anche un perno del modello organizzativo e di relazioni industriali tedesche (sicché è difficile guardare al mercato del lavoro tedesco senza capire a fondo anche il sistema formativo, quello educativo, nonché quello della formazione tecnica superiore e della ricerca). Come pensare allora a dei controlli, addirittura “semestrali”, sul processo di “implementazione” di riforme così profonde, direi esistenziali, per qualsiasi paese, come quelli che riguardano la burocrazia (che dipende altamente dal deterioramento della capacità di “normare” in funzione della effettiva fattibilità delle leggi), per non parlare della “giustizia”.
Ed infine, come non vedere come, in tutto ciò, vi sia una doppia delega: quella agli eurocrati e quella al (mito del) “mercato”? Mariana Mazzucato ha chiarito nei suoi scritti come il progresso tecnico, quello dal quale produttività e competitività dipendono, è sempre il frutto di sforzi congiunti di spesa e iniziative pubbliche e di imprese. Ed in fondo questo è stato il cosiddetto “mercato” nel periodo in cui esso ha dato i maggiori frutti a partire dalla fine dell’Ottocento, negli Stati Uniti come in Gran Bretagna, in Francia come in Italia o in Giappone. Ma nelle richieste degli eurocrati qui non stiamo parlando del mercato, ma solo dei vagiti delle borse che “gradiscono” o “non gradiscono” questo o quello, vagiti valutativi che spesso è arduo separare dall’innesco di giochi speculativi. Ma si tratta solo, a ben vedere, degli slogan degli schieramenti conservatori da una parte e dall’altra dell’Atlantico, come indicato con chiarezza dagli scritti più recenti di Stiglitz e da quelli ben più precoci di Krugman; slogan che suonano bene tanto che in taluni casi i conservatori li adottano anche quando non servono i loro immediati interessi. Tanto infatti basterebbe quando sono gli slogan a fare le coscienze e la politica, senza alcun approfondimento analitico (è carino notare che la riforma Bismarck è tuttora ritenuta conservatrice “perché restaurò le gilde” in opposizione al pensiero liberale dell’epoca; cosa che è profondamente falsa perché, anche ad una analisi appena appena approfondita, si trattò dell’esatto opposto).
Sono passati tre anni da quando, su queste pagine, denunciai in un articolo su Sbilanciamoci.info (http://sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Tra-tecnocrazie-monetarie-e-speculazione-10191) come una profonda violazione della sovranità politica l’imposizione da parte di Trichet ai premier di Italia e Spagna di predisporre una lettera di intenti sulle politiche di austerità da seguire, controfirmate dai governatori delle relative banche centrali. All’epoca ero stato in ottima compagnia (Roberto Esposito e Barbara Spinelli, su la Repubblica rispettivamente del 12 e del 17 agosto 2011), ma la verità è stata che solo a partire da un anno dopo è emersa e si è maggiormente diffusa la consapevolezza del carattere strategico dello strappo istituzionale compiuto.
Ricordo qui solo una frase dell’articolo del 2011: “Ci siamo assuefatti, assuefatti al punto che non ci interroghiamo sull’uso che è stato fatto del potere ceduto”. E purtroppo l’assuefazione continua. Se infatti da parte delle minoranze qualcosa si è mosso, è invece appena il caso di notare come al livello dei governi si continui a far finta di niente (la riforma costituzionale sul bilancio, che ora si tenta di abolire per referendum, ne è purtroppo la prova), tanto che, a detta di Bonanni, sulle questioni qui sollevate i ministri economici europei, che dovrebbero rappresentare la voce della politica, esprimono consenso.
Di qui la mia perplessità iniziale: forse è giunto il momento di lasciare euro ed Europa. Siamo in presenza di una escalation, cha cambia continuamente il terreno di confronto chiamando in causa ora il bilancio, ora i comportamenti della Bce, ora le riforme, ma che persegue una costante strategia di fondo. Perché questa deriva dovrebbe arrestarsi, visto che non vi è stato neanche un momento di breve pausa in questi tre anni? Non è quindi l’oggi a preoccuparmi (per ora gliela facciamo ancora a sopportare euro e questa Europa), ma il domani. Nessuno che cominci a dare garanzie che si possa costruire un’Europa in cui io voglia vivere e far vivere i miei nipoti, che assomigli a ciò che concepirono i padri fondatori. Non si può continuare a sopravvivere nella paura del passo successivo degli eurocrati e dei falsi politici. E non è forse l’ora di cominciare a prepararsi ad una uscita ordinata e controllata, visto il tempo che ci vuole a preparare queste cose? E non è forse questa la strada per cominciare a costruire una minaccia credibile, la sola arma che può convincere i politici ad un radicale cambiamento di rotta?
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