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Bankitalia

Privatizzare il signoraggio?

04/02/2014

Rivalutare le quote delle banche private, così come previsto dal decreto Bankitalia, significa sottrarre al Tesoro parte di questi introiti di natura pubblica. Siamo in presenza di un processo di privatizzazione del signoraggio che, a danno della collettività, avvantaggia alcuni privati

In un lucido fondo su Affari&Finanza di lunedì 3 febbraio, Massimo Giannini elenca i punti che i “grillini” hanno frainteso (veramente parla di “falsificazione”) nella loro opposizione al “decreto Bankitalia”. Per dimostrare che non vi è stato “un altro regalo alle banche” (in linea con quanto affermato dal Ministero del Tesoro e commentato su questo sito da Andrea Baranes http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/capitali/Bankitalia-una-toppa-peggiore-del-buco-22000) Giannini sostiene che la Banca d’Italia è, e rimane, un istituto di diritto pubblico e che non potrà mai essere privatizzata; che le quote di capitale possono appartenere solo a banche nazionali; che l’aumento di capitale (da 156.000 euro a 7,5 miliardi) è una semplice rivalutazione delle quote già esistenti nel bilancio di (alcune) banche nazionali: “nessuno sborsa un euro, né Via Nazionale, né il Tesoro” ed è quindi solo un “vantaggio virtuale”. Ma questo è vero? Non manca ancora un tassello alle considerazioni fin qui ineccepibili del vicedirettore de La Repubblica?

Perché le quote di capitale (nelle mani delle banche) abbiano un valore reale, tanto da poter essere alienate come previsto se superano la quota del 3%, esse devono fornire un rendimento. È proprio su questo rendimento atteso che Giannini si dimentica di renderci edotti. Senza farla troppo lunga, rivalutare il valore delle quote di partecipazione delle banche in Bankitalia significa anche rivalutare il loro reddito in occasione della distribuzione annuale degli utili. Se, nel 2012, le banche partecipanti hanno ricevuto tra dividenti e loro integrazione, poco più di 15.000 euro, sostanzialmente il 10% del valore capitale delle loro quote, quali saranno gli utili che verranno stornati alle banche partecipanti quando il valore delle loro quote è stato rivalutato a 7 miliardi e mezzo di euro? Se si assume un tasso del 4%, le banche private otterranno d’ora in poi 400 milioni di euro all’anno. Si può considerare questo un “vantaggio (solo) virtuale”?

Ma per giustificare una tale decisione occorre farsi alcune domande. Ad esempio, quale apporto hanno dato le banche private al capitale della banca centrale per garantirsi una rendita sicura vita natural durante? Direi nulla; come giustamente precisa Giannini: si tratta di una semplice colpo di penna, una rivalutazione che si dice inevitabile per aggiornare dati storici ormai altamente svalutati ma non si dice che la rivalutazione contabile di quote di capitale relative a una realtà bancaria storica priva di alcun legame con la situazione odierna, non ha alcun fondamento economico: è la brutale concessione di una ingiustificata situazione di rendita per quelle banche. Non mi si risponda che quelle banche saranno in prospettiva costrette a vendere parte di queste quote (che eccedano il 3%) poiché, da un lato, i ricavi che così otterrebbero non ci sarebbero in assenza di questa posizione di rendita e, dall’altro lato, sempreché il settore pubblico non sia costretto a riacquistare parte di queste quote (indebitandosi per riavere ciò che era suo), le quote che rimangono in mani private saranno comunque remunerate a carico degli utili della Banca d’Italia.

E questo solleva un’ulteriore perplessità. Da dove provengono gli utili della Banca d’Italia? In estrema sintesi, essi rappresentano il “signoraggio” dovuto all’emissione della moneta cartacea. Il signoraggio, come noto, esprime il valore del conio apposto dal Signore sulla moneta circolante che eccede il valore intrinseco della moneta-merce e che costituiva un’entrata per le finanze pubbliche. In presenza di moneta-carta, il signoraggio è la differenza tra il costo della moneta-carta (quasi-nullo) e il rendimento degli investimenti finanziari (in genere titoli di stato e valuta estera) che forniscono un reddito alla banca centrale. Il reddito dovuto all’emissione monetaria è, comunque la si metta, un reddito della collettività tanto che, nei fatti, gli utili realizzati dalla banca centrale vengono retrocessi al Tesoro (un miliardo e mezzo di euro nel 2012). La rivalutazione pretestuosa delle quote capitale delle banche private in Bankitalia significa sottrarre al Tesoro parte di questo signoraggio: siamo in presenza di un processo di privatizzazione del signoraggio che, di pertinenza collettiva, avvantaggia (alcuni) privati.

Se le mie considerazioni sono corrette, con questa operazione il Tesoro rinuncia per tutto l’avvenire a parte di questi introiti di natura pubblica e, temo, sia difficile giustificare la correttezza di una tale decisione. Si può certamente dire che l’attuale situazione delle banche è così grave da rendere necessario un intervento straordinario per evitare il dissesto dell’intero sistema. Non vi è dubbio che la situazione appare pesante, ma di fronte a questi pericoli aver accettato questa soluzione solleva almeno due questioni. La prima; se la questione era il salvataggio del sistema bancario (o di alcune delle banche principali), l’operazione avrebbe dovuto essere più trasparente definendo esplicitamente l’apporto, ma anche gli obblighi cui le banche beneficiarie avrebbero dovuto sottostare per garantire una più adeguata gestione dei fondi (penso al credito alle attività produttive). La seconda; se l’operazione aveva il senso di affrontare un problema “congiunturale”, ovvero le difficoltà di (alcune) banche, non ha alcuna logica adottare un intervento che avvantaggia tali banche in un orizzonte indefinito, molto oltre alla data entro la quale si auspica il risanamento dalla situazione creata dalla crisi finanziaria. Sono queste discrepanze tra il problema da affrontare e lo strumento adottato che rende perplessi sulle affermazioni che “non è stato fatto alcun regalo alle banche” o che l’operazione ha creato solo dei “vantaggi virtuali” per le (poche) banche private interessate.

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Commenti

Gnesutta: Privatizzare il signoraggio.

A sostegno delle convincenti argomentazioni di Gnesutta, sottopongo la seguente riflessione sul rilevato contrasto tra l'aspetto formale (quote di partecipazione storicamente rimaste in mano alle banche) e quello sostanziale (funzione pubblica della BI sulla cui gestione le stesse banche non hanno alcun potere di incidenza).
Se per assurdo ( ma forse è più corretto parlare di ipotesi poco realistica) la BI dovesse registrare una perdita di esercizio - per errori gestionali, negative evoluzioni di mercato anche per superiori esigenze di politica monetaria - sarebbe possibile chiamare le banche partecipanti alla copertura di tali perdite oppure, com'è più probabile, le stesse opporrebbero in questo caso la loro completa estraneità ai fatti gestionali di BI? Grazie.

Articolo sul signoraggio privatizzato

Leggo: "In presenza di moneta-carta, il signoraggio è la differenza tra il costo della moneta-carta (quasi-nullo) e il rendimento degli investimenti finanziari (in genere titoli di stato e valuta estera) che forniscono un reddito alla banca centrale."
Questa definizione - inventata dalle banche - è falsa. Si pensi solo di sostituire la cartamoneta col termine "monete metalliche" e si capirà il trucco... Con quella definizione si NASCONDE il guadagno del 100% del nuovo CAPITALE CREATO !

Dividendi

Caro Gnesutta,
prendo atto della tua risposta. Se così è, come pare, allora concordo. In questo caso non si tratta più di un dividendo, quanto di una rendita assicurata su un capitale non versato, che francamente mi sembra assurdo.
Sembra quasi uno scambio: care banche pagatemi un pò di imposte adesso che poi ve le restituisco sotto forma di dividendo!
E' chiaro che le banche si avvantaggiano anche in termini di patrimonio di vigilanza, ma questo non mi sembra negativo.

bankitalia spa

"""il Consiglio Superiore della Banca vigilerà sul rispetto dei requisiti di onorabilità in capo agli esponenti aziendali e ai partecipanti dei soggetti acquirenti previsti dalla rilevante disciplina normativa e statutaria.""" bellissima questa! il consiglio, che è nominato dall'assemblea degli azionisti che vigila sulle banche sue azioniste!! siete mitici!! praticamente come l'operaio che vigila sul suo datore di lavoro e proprietario dell'azienda, cazziandolo ferocemente se arriva in ufficio in ritardo....

banca d'italia

che la banca d'italia sia pubblica fa ridere più di una barzelletta... un ente pubblico di proprietà di banche e assicurazioni private che:
1.si ripartiscono i suoi utili a centinaia di milioni di euro l'anno ...
2. si portano nei bilanci le quote come rivalutate a suon di miliardi.

signoraggio lo male dello monno

> La domanda cruciale è quindi: perché? La questione che mi piacerebbe venisse risolta è chi ha diritto al “signoraggio” dell’emissione di carta moneta? Se esso è cosa pubblica o è cosa privata? Se il vantaggio collettivo di utilizzare fiduciaramente un pezzo di carta per le nostre transazioni deve andare a vantaggio della collettività o di (alcuni) privati?

e fuochino fuochino pian piano m'avvicino..

Il decreto legge era lo strumento più opportuno?

La contestazione del decreto è stata opportuna e necessaria oppure no?

Sentiamo tutte le campane.

Caro Zanotti, la cosa è pacifica (vedi anche il comunicato stampa della Banca d'Italia). L'aumento del dividendo alle banche partecipanti deriva dal fatto che esso è calcolato come una tasso percentuale sul valore (nominale) delle quote; l'aumento del valore comporta un aumento dei dividendi. Nel tuo caso il 10% su 1000 è 100, il 10% su 10.000 è 1.000.

Più complessa è la riflessione che comporta la sollecitazione di Tullio Marra, che ringrazio, per aver girato su questo sito il comunicato della Banca d’Italia sulle conseguenze della legge 29.01.2014 n. 5, perché, come dice e come condivido, “è bene sentire tutte le campane”. Le “campane" della Banca d’Italia hanno suonato a lungo, anche se il nostro sistema informativo non ne ha fatto sufficiente eco. Il documento del nostro Istituto centrale è, come d’so, ben articolato e, dai suoi assunti, anche esauriente. Non dimentichiamoci però che il problema non riguarda la posizione dell’organo tecnico, ma del Governo che ha presentato il decreto, sempreché si ritenga ancora valida una tale separazione in un mondo in cui alla tecnocrazia vengono sempre più devolute le scelte istituzionali.
Scorrendo comunque il comunicato-stampa, la questione che ho tentato di sollevare con il mio intervento non appare affrontata e risolta. Non è difficile essere d’accordo che “la Banca d'Italia era e resta un istituto di diritto pubblico” perché svolge funzioni pubbliche (primo punto del comunicato). Le banche (ora) private hanno una partecipazione in Banca d’Italia solo “per ragioni storiche”; va ricordato che queste banche sono nel tempo prima diventate pubbliche (come la banca centrale anche se con funzioni diverse) e poi privatizzate. In questa seconda fase sarebbe stato logico non "riprivatizzare” le loro quote di capitale di un istituto con funzioni pubbliche quale è la banca centrale. È stato un errore? una dimenticanza? un aspetto a quel tempo ritenuto irrilevante tanto da non doverlo prendere in esplicite correzione? Che questo sia un problema è evidente dalla considerazione sottolineata dallo stesso comunicato che l’indipendenza dell’Istituto (dal governo, ma anche dai privati) è sancita dalla normativa che ha dato origine al Sistema europeo delle banche centrali.
Rimane allora la domanda: su quale base di merito, per quale apporto sostanziale, le banche (ri)privatizzate possono vantare un diritto sugli utili della banca centrale? Il fatto che negli anni Trenta avessero una partecipazione in una (allora) banca privata alla quale sarebbe stato poi affidato una funzione pubblica con una trasformazione profonda dell’assetto normativo dell’intero sistema bancario? Quasi un secolo di cambiamenti istituzionali epocali e ci troviamo a vantare questo “diritto”, questa posizione di rendita? Un vincolo così cogente da ritenere, come dice il comunicato, che in caso di “statalizzazione” ciò avrebbe comportato un esborso “a carico del bilancio pubblico”?
La domanda cruciale è quindi: perché? La questione che mi piacerebbe venisse risolta è chi ha diritto al “signoraggio” dell’emissione di carta moneta? Se esso è cosa pubblica o è cosa privata? Se il vantaggio collettivo di utilizzare fiduciaramente un pezzo di carta per le nostre transazioni deve andare a vantaggio della collettività o di (alcuni) privati? In effetti, nel secondo punto del comunicato, la questione sembra avere una risposta precisa: “[i] proventi dell'attività classica di una banca centrale, il "battere moneta", [derivano] da una tipica attività di interesse pubblico” e pertanto gli attivi della Banca “non sono di proprietà dei partecipanti” e quindi su di essi le banche private non possono vantare diritti. Ma da questa premesse è arduo giungere alla conclusione - contabilmente bizzarra - che un simile diritto le stesse banche lo possono vantare sul capitale, quasi si potesse ritenere che la posta contabile “capitale sociale più riserve” non sia nella sostanza il riflesso dell’attivo e il passivo di bilancio. I 450 milioni annui che il comunicato prevede andranno a remunerare le quote capitale sono la remunerazione di quale risorsa produttiva utilizzata dalla banca centrale? Le pur interessanti considerazioni sul calcolo di questi dividendi e sulle implicazioni della regolamentazione europea mi appaiono pertanto del tutto secondarie rispetto a questa questione di sostanza.
Se è facile concordare (terzo punto) anche sul fatto che per il bilancio della Banca centrale la rivalutazione delle quote è una semplice scrittura che non cambia contabilmente il suo patrimonio, non risolve, al di là degli artifici formali, la questione che è da una tale “scrittura” che si modifica economicamente la destinazione degli utili (che merita ricordare sono il frutto del signoraggio). Anche qui la Banca è trasparente. La risposta è: “essa implicherà presumibilmente per i partecipanti un dividendo accresciuto […] rispetto a quello percepito negli anni recenti”. Se si accetta questo, non si comprende tuttavia la conclusione é infondato "che lo Stato comunque ci rimetterà", che non è vero che "incasserà meno soldi ogni anno dalla Banca d'Italia”. Mi sembra molto difficile far conciliare questa affermazione con il fatto assodato che, in ogni anno futuro, una consistente parte degli utili (i maggiori 450 milioni citati) NON vanno allo Stato, ma alle banche private. Per quanto apprezzabili siano gli sforzi fatti per convincere che maggiori fondi affluiranno (contabilmente) allo Stato, non sembrano riescano a risolvere questo mistero.
Ma è il quarto punto che rende tutta la questione quasi surreale se si parte, come penso si debba fare, dall’assunto che non vi sia giustificazione economica alcuna alla partecipazione delle banche private al capitale della Banca centrale. Le quote di partecipazione vengono rivalutate (e questo è un puro fatto contabile) e nel caso esse eccedano il limite del 3% la Banca centrale potrà essere costretta a riacquistarle (temporaneamente) al prezzo rivalutato con un esborso effettivo di fondi per essere “ricollocate al più presto sul mercato”. Ma a quale prezzo se il "mercato" per le quote della Banca d'Italia “dipende dalla percezione della "qualità " dell'investimento”? Poiché quel capitale non si accompagna ad alcun diritto di incidenza sulla gestione della Banca centrale, è escluso che si si renderà necessario calibrare (in aumento) i dividendi a favore dei privati affinché il valore di mercato delle quote non si svalutino facendo realizzare delle minusvalenze nel bilancio del nostro Istituto centrale?

Bankitalia

Confesso di non avere capito l'articolo di Gnesutta (nè tanto meno le tesi dei grillini). Perché la rivalutazione delle quote di partecipazione in Bankitalia (che è un fatto puramente contabile) dovrebbe modificare il sistema di distribuzione dei dividendi a favore dei soci privati?
Supponiamo che i soci di Bankitalia siano 100 banche private, ognuna con una quota di partecipazioen dell'1%. Le banche socie sino ad ora avevano iscritto a bilancio il valore di questa partecipazione per, esempio, 1.000 euro; dopo il decreto devono invece iscriverla per 10.000 euro (pagando le imposte dulla plusvalenza contabile di 9.000 euro).
Se prima Bankitalia distribuiva un dividendo di 10 euro ad ogni socio, per quale motivo dovrebbe ora distribuirne per 1.000 euro (per mantenere lo stesso tasso di rendimento), come mi pare sostenga Gnesutta?
Se gli utili (che sono in gran parte il frutto del signoraggio) restano costanti, il dividendo distribuito resterà pari a 1.000.
Francamente non capisco dove starebbe questo regalo.

La valutazione delle quote della Banca d'Italia: che cosa non torna?

interessante articolo di Daniela Venanzi (Uni Roma Tre)

http://www.ilrisparmiotradito.it/news/189/la-valutazione-delle-quote-della-banca-d-italia-che-cosa-non-torna

x RIDERE DEI NEGAZIONISTI :D

LA CONTROBUFALA DEL SIGNORAGGIO BANCARIO,
ovvero il manuale per ridere di chi ride..

cap. 07. Bankitalia è un ente di diritto pubblico..
http://www.primit.it/forum/phpBB3/viewtopic.php?f=78&t=2151#p42012

RIDICOLI

>> La Banca d'Italia era e resta un istituto di diritto pubblico, che svolge funzioni pubbliche su cui nessun soggetto privato mai ha potuto, nè mai potrà, esercitare alcuna influenza. Su questo i Trattati europei e le norme italiane sono tassativi, lo erano in passato, lo rimangono oggi.

• CHE RIDERE!! e quando una BC (ieri Bankitalia SpA, oggi BCE/FED) decide, ad esempio, il tasso di sconto e/o il coefficiente di riserva frazionaria e/o l'emissione si o emisisone no di MONETA LEGALE (tra cui LA BANCONOTA e ripeto "tra cui") non sta "ESERCITANDO INFLUENZA", no?

SIETE RIDICOLI!!

:D :D :D

Comunicato della Banca d'Italia

E' BENE SENTIRE TUTTE LE CAMPANE:

Conseguenze per la Banca d'Italia della legge 29 gennaio 2014, n. 5

1. Natura e proprietà della Banca d'Italia (E' vero che la Banca d'Italia viene privatizzata?)

La Banca d'Italia era e resta un istituto di diritto pubblico, che svolge funzioni pubbliche su cui nessun soggetto privato mai ha potuto, nè mai potrà, esercitare alcuna influenza. Su questo i Trattati europei e le norme italiane sono tassativi, lo erano in passato, lo rimangono oggi. Per ragioni storiche che risalgono agli anni Trenta del secolo scorso, la Banca d'Italia già aveva una forma giuridica associativa, che ricordava quella di una società per azioni; le quote di partecipazione al capitale erano distribuite tra banche ed enti di assicurazione e previdenza, per la maggior parte divenuti dagli anni Novanta di natura privata. La riforma crea le condizioni perché i partecipanti al capitale non siano più in pochi, come oggi, ma in tanti; non solo banche e compagnie assicurative, ma anche fondi pensione e fondazioni. E'un modello non dissimile da quello delle banche centrali di due tra i maggiori paesi del mondo avanzato, gli Stati Uniti e il Giappone. Nessuno mai penserebbe di considerare "private" la Federal Reserve americana o la Banca del Giappone.

La "Legge sul risparmio" del 2005 prevedeva, tra l'altro, il passaggio del capitale sociale della Banca allo Stato. Negli anni seguenti questa previsione non é stata attuata. In primo luogo, il mantenimento dell'indipendenza della Banca d'Italia, sancita e tutelata dal Trattato europeo sull'Unione economica e monetaria, avrebbe
richiesto la predisposizione di un complesso intervento legislativo a protezione di tale indipendenza. Questa, come é stato più volte riconosciuto dalla Banca centrale europea, non é stata in alcun modo compromessa dall'assetto a partecipazione privata. In secondo luogo, lo Stato avrebbe dovuto indennizzare i partecipanti, i quali vantavano diritti legalmente protetti. La misura dell'indennizzo era incerta e ardua da determinare. Si é arrivati oggi a stimare il valore delle quote attraverso un calcolo complesso e con la consulenza di esperti nazionali e internazionali (da 5 a 7,5 miliardi di euro; cfr. il documento Aggiornamento del valore delle quote di capitale della Banca d'Italia). In caso di statalizzazione della Banca una tale somma sarebbe stata a carico del bilancio pubblico, cioé del contribuente.

2. Effetti sui bilanci dei partecipanti al capitale (Questa riforma non si risolve in un regalo alle banche?)

La riforma ha due effetti fondamentali: il primo é quello di allargare la platea dei partecipanti al capitale della Banca, in modo che ciascuno ne detenga una quota piccola (non superiore al 3%, dice ora la legge; questo consente di eliminare qualsivoglia dubbio, anche formale, che una concentrazione di quote in capo a un singolo partecipante possa condizionare in qualche modo l'azione della banca centrale); il secondo é quello di risolvere definitivamente un'ambiguità presente nello statuto della Banca d'Italia fin dal 1948: i dividendi per i partecipanti erano fissati in un modo complicato che li legava alle riserve patrimoniali della Banca, come se tali riserve fossero di proprietà dei partecipanti stessi. Secondo il vecchio statuto, ai partecipanti potevano essere assegnati dividendi fino al 4% delle riserve complessive; queste erano pari a circa 15 miliardi nell'ultimo bilancio, quindi i partecipanti avrebbero potuto ricevere l'anno scorso fino a 600 milioni in dividendi, anche se ne hanno ottenuti solo 70, pari allo 0,5%. Ma le riserve nel patrimonio della Banca si accumulano anno dopo anno grazie ai proventi dell'attività classica di una banca
centrale, il "battere moneta". In quanto derivanti da una tipica attività di interesse pubblico, queste riserve (così come le altre poste patrimoniali presenti nei conti della Banca d'Italia, incluso ovviamente l'oro) non sono di proprietà dei partecipanti, i quali possono vantare diritti solo in relazione al capitale in senso stretto della Banca, diritti assegnati loro dalla Legge Bancaria del 1936 e ora rivalutati. Questo viene chiarito con la riforma.

Allo stesso tempo viene affrontato un altro problema posto dal vecchio statuto: la possibilità che i dividendi per i partecipanti, essendo fissati come quota delle riserve, potessero crescere indefinitamente in cifra nominale al crescere delle stesse. Dieci anni fa erano stati pagati dividendi per 45 milioni, lo scorso anno per 70, con una progressione potenzialmente infinita. Con la riforma, i dividendi sono ora una quota (non più del 6%) del capitale in senso stretto, il quale é espresso in cifra fissa (7,5 miliardi): quindi, i dividendi non potranno mai eccedere i 450 milioni. Quelli che saranno effettivamente pagati dipenderanno ovviamente ogni anno dalle condizioni del bilancio; tuttavia, l'intero esercizio é costruito in modo che vi sia equivalenza tra i flussi complessivi di dividendi calcolati con i criteri pre e post riforma.

Quanto all'osservazione da più parti avanzata che la rivalutazione delle quote aumenterebbe "artificialmente" i patrimoni delle banche partecipanti, va notato che essa consente di riportare il valore di bilancio della partecipazione su livelli più coerenti con la realtà dei fatti. Ai fini della valutazione dei rapporti di capitale che le banche devono rispettare come requisiti di vigilanza, il patrimonio cosiddetto "di migliore qualità" potrà in effetti aumentare in relazione alla disciplina del Regolamento europeo; da quest'anno, tali requisiti non sono più oggetto di norme nazionali; questo è coerente con il fatto che la riforma rimuove le caratteristiche di immobilizzo permanente delle quote. L'aumento sarebbe di circa 40 punti base per la media delle banche partecipanti oggi al capitale. Questo incremento non é un artificio, ma dipenderà dall'applicazione delle norme contabili internazionali.
Comunque, non potrà essere incluso nel capitale iniziale valido ai fini dell'asset quality review delle maggiori banche europee condotto dall'Eurosistema in vista del lancio del Meccanismo unico di vigilanza, in quanto a tal fine si applicano i filtri prudenziali previsti nelle norme della Banca d'Italia.

3. Effetti per lo Stato e i contribuenti (Chi tirerà fuori i 7,5 miliardi della rivalutazione? E lo Stato non finirà per rimetterci, incassando dalla Banca d'Italia meno soldi ogni anno?)

I 7,5 miliardi della rivalutazione sono già nel bilancio della Banca d'Italia. Erano iscritti come fondi di riserva, ora entrano nel capitale sociale e servono a delimitare i diritti dei partecipanti. Il capitale della Banca viene rivalutato a 7,5 miliardi, secondo un criterio che tiene conto del flusso storico di dividendi pagati e della sua evoluzione nel tempo. nèlo Stato nèi contribuenti sborsano alcunché per questa riforma. Il patrimonio della Banca (capitale + riserve) resta inalterato.

Il timore che lo Stato comunque ci rimetterà, perché incasserà meno soldi ogni anno dalla Banca d'Italia, é infondato; nasce dal non prendere in considerazione tutte le variabili in gioco. La Banca d'Italia chiude ogni anno con un risultato d'esercizio che, in linea di principio, può essere sia positivo (profitto) sia negativo (perdita). Di fatto, negli ultimi decenni si é trattato sempre di un profitto, variabile a seconda degli anni. Il risultato discende dallo svolgimento delle attività istituzionali della Banca, che implicano costi e ricavi. Sull'utile lordo la Banca paga allo Stato innanzitutto le imposte. Dall'utile al netto delle imposte la Banca preleva i dividendi per i partecipanti, alimenta le riserve statutarie nella misura massima del 40 per cento e retrocede quel che residua allo Stato. Ad esempio, nel 2013, con riferimento all'esercizio 2012, la Banca ha versato allo Stato un totale di 3,4 miliardi, di cui 1,9 per imposte e 1,5 per retrocessione del residuo finale.

Che fa la riforma? Da un lato, é vero, essa implicherà presumibilmente per i partecipanti un dividendo accresciuto nell'immediato (ma non nel tempo) rispetto a quello percepito negli anni recenti; dall'altro lato, c'é una novità . Il vecchio statuto prevedeva, infatti, che il rendimento delle riserve statutarie venisse ogni anno riversato a incrementare le riserve stesse, per cui non concorreva alla formazione di quanto retrocesso allo Stato. Con il nuovo statuto questa alimentazione automatica delle riserve é stata eliminata, in modo da poter meglio commisurare l'entità delle riserve all'evoluzione dei rischi dell'Istituto. Ne potrà derivare un ampliamento dell'utile di esercizio che alimenterà la retrocessione allo Stato. I risultati di una simulazione di quanto la Banca avrebbe dovuto riconoscere complessivamente allo Stato nei passati dieci anni se fosse stato in vigore il nuovo statuto, tenendo conto di entrambi gli effetti, indicano che si sarebbe potuto mantenere sostanzialmente invariato il flusso di risorse trasferito alle casse dello Stato.

4. Il possibile riacquisto delle quote da parte della Banca d'Italia (Se nessuno comprerà le quote in eccesso, il "riacquisto" da parte della Banca d'Italia non costituisce un trasferimento di soldi pubblici alle banche venditrici?)

La legge di riforma considera il caso in cui il processo di redistribuzione e diffusione delle quote su una platea più ampia di partecipanti, che deve compiersi entro tre anni, incontri difficoltà: la Banca può acquistare essa stessa, temporaneamente, parte delle quote in mano ai partecipanti che ne posseggono più del limite del 3 per cento e non riescano a scendere in tempo utile al di sotto di tale limite. In ogni caso le quote non resterebbero in capo alla Banca ma sarebbero ricollocate al più presto sul mercato. La Banca d'Italia si limiterebbe quindi a esercitare un ruolo di intermediazione. Si tratta di una cautela che il legislatore ha voluto introdurre, ma si può confidare che la probabilità di ricorrere a questo meccanismo sia resa bassa da due ordini di considerazioni.

Anzitutto, in caso di riacquisto non solo sarebbero congelati i diritti di voto, ma i dividendi corrispondenti sarebbero riversati nei fondi di riserva, sui quali i partecipanti non hanno diritti. Inoltre, l'affermazione di un "mercato" per le quote della Banca d'Italia dipende dalla percezione della "qualità " dell'investimento. Ora, é presumibile che le quote avranno un rendimento non inferiore a quello di strumenti analoghi a parità di rischiosità (rendimento che dipende sostanzialmente dagli utili generati nelle attività investite, a fronte delle passività accese per svolgere le sue funzioni); inoltre, andrà considerato il valore simbolico dell'essere "partecipante al capitale della Banca d'Italia". Il numero di potenziali acquirenti é alto, l'investimento di ciascuno puಠessere relativamente limitato. In ogni caso, il Consiglio Superiore della Banca vigilerà sul rispetto dei requisiti di onorabilità in capo agli esponenti aziendali e ai partecipanti dei soggetti acquirenti previsti dalla rilevante disciplina normativa e statutaria.

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