La rotta d’Italia. In campagna elettorale l’obiettivo di tutti è la crescita. Ma che cosa vuol dire? Quali meccanismi portano alla crescita nel capitalismo? E siamo sicuri che è proprio quello che vogliamo?
I programmi, le varie agende, le interviste, le proposte politiche di tutti i partiti o gruppi che si presentano alle elezioni auspicano la crescita, alcuni la crescita sostenibile, ma sempre di aumento della produzione, del reddito e dell’occupazione si tratta. Sembra quindi che sia un’ottima idea, anzi l’idea base su cui si dovranno misurare le attività del nuovo parlamento e del prossimo governo.
Ma quando veniamo alle misure da adottare emerge immediatamente la genericità e la scarsa chiarezza su quali misure, normative o di intervento pubblico diretto possano aiutare la crescita.
In questo scritto cercherò di illustrare alcuni aspetti di base che a mio avviso caratterizzano in un sistema capitalistico i meccanismi della crescita. Credo che ricordarlo possa aiutare a valutare e selezionare le generiche proposte dei vari gruppi politici.
Ho l'impressione che prima si debba partire da una banalità: in un sistema capitalistico non si fanno investimenti privati aggiuntivi e non si produce di più se non ci sono aspettative di aumento di vendite con un qualche profitto. Credo su questo si sia tutti d'accordo, anche se spesso lo si scorda quando si propongono politiche per la crescita.
Credo che si debba partire da un’ipotesi, forse pessimistica, ma che ci può aiutare a capire meglio i problemi: l’ipotesi è che la situazione che caratterizzerà per alcuni anni lo sviluppo capitalistico nei paesi avanzati è la stagnazione della domanda internazionale e della domanda pubblica in deficit. Ne deriva che bisogna analizzare quali siano le possibilità di crescita, e cioè di allargamento della produzione e dell‘occupazione da parte delle imprese a parità di domanda internazionale e a parità di deficit della spesa pubblica.
Possiamo individuare tre possibilità:
1) Una prima possibilità è quella innescare un meccanismo competitivo che riesca ad allargare il mercato interno attraverso una diminuzione dei prezzi.
2) Una seconda alternativa è quella di aumentare le vendite all’estero e/o di sostituire le importazioni con produzione interna.
3) Ultima possibilità è quella di intervento, a parità di deficit, sulla struttura della spesa pubblica e delle entrate fiscali.
Il passo successivo da fare è quello di individuare quali siano gli strumenti di politica economica in grado di far sì che qualcuna delle tre alternative si concretizzi. Analizzeremo qui quali possano essere gli interventi di politica economica in grado di attuare i tre obiettivi che porterebbero a una crescita economica in Italia.
Più concorrenza?
Il primo punto può essere semplicemente trattato valutando l’effetto che avrebbero sulla crescita eventuali interventi normativi sulla concorrenza interna. La competizione fra produttori in genere spinge a una maggiore qualità ed efficienza del processo produttivo, i cui effetti sulla crescita hanno la possibilità di dispiegarsi nel lungo periodo anche attraverso la maggiore forza nel mercato estero (lo riprenderemo nel secondo punto). In realtà dal punto di vista normativo una politica pubblica volta a far aumentare la concorrenza ha sempre trovato ostacoli, ma tali ostacoli in genere riguardavano attività produttive non sottoposte a concorrenza estera. Infatti, in un mercato ormai globalizzato la concorrenza internazionale è notevolmente aumentata e un aiuto alle nostre imprese dovrebbe essere, al contrario, di tipo protezionista, cosa molto difficile da farsi. Quindi, interventi di liberalizzazione del mercato interno, in modo particolare nel settore dei servizi pubblici e privati, avrebbe qualche effetto sul costo e l’efficienza del servizio e quindi sul reddito reale del consumatore e delle imprese. Dal dal punto di vista della crescita però gli effetti risulterebbero dubbi, in quanto una diminuzione del prezzo del servizio spesso avrebbe solo un effetto di spiazzamento di reddito e inoltre un aumento della concorrenza porterebbe a inserire nella competizione internazionale servizi sinora protetti, con effetti negativi sull’occupazione. Un effetto sul costo di produzione delle imprese potrebbe essere quello di una diminuzione di costi di utilizzo dei servizi. Concludendo, una maggiore concorrenza sul mercato interno, pur potendo portare probabilmente a una più equa distribuzione del reddito, potrà avere effetti sulla crescita attraverso una diminuzione di costi per le imprese, tema di cui trattiamo nel punto seguente.
Nuovi mercati?
Più interessante è il secondo punto, relativo alla conquista di nuovi mercati internazionali o di espansione di quelli esistenti. Quello della concorrenza internazionale è un fenomeno molto complesso, qui mi limito esclusivamente a discutere su come possano aumentare, a parità di domanda mondiale, delle quote di mercato estero tali da influenzare la crescita interna. I punti chiave mi sembrano tre: i prezzi, i costi di produzione e la qualità del prodotto.
a) I prezzi. Le prime informazioni che si dovrebbero avere o cercare sono quelle relative alle elasticità del profitto, della domanda e della produzione rispetto ai prezzi. Queste informazioni permetterebbero di valutare l’efficacia o meno sulla crescita economica di un rallentamento della dinamica dei costi variabili o di un aumento della dinamica della produttività; queste informazioni infatti determinano la convenienza e la misura di un loro trasferimento sui prezzi e/o sui profitti. Per quanto riguarda il profitto il meccanismo è da manuale di economia del primo anno, una diminuzione di costi variabili si riverserà in tutto o in parte sui prezzi soltanto nel caso di un mercato concorrenziale basato sui prezzi, invece in un mercato oligopolistico una diminuzione di costi può portare solamente ad un aumento dei profitti e, nel caso di diminuzione dei salari, solo di una redistribuzione del reddito tra salari e profitti. La chiave sta nell’elasticità della domanda rispetto al prezzo, l’aumento di domanda, causato da una una riduzione di prezzo, verrà soddisfatto da un aumento di produzione soltanto se è valutato dalle singole imprese come aumento di profitto, solo in questo caso le singole imprese adegueranno la produzione al nuovo livello di domanda. L’effetto sulla crescita si avrà se tale aumento di domanda è relativo a beni esportati, molto meno sicuro, e comunque sicuramente minore, sarà l’effetto sui settori con mercato interno. Infatti a livello aggregato, specialmente in un mercato molto differenziato, solo se la diminuzione di prezzi si incontrerà con una domanda totale, cioè non riferita a singole imprese, molto elastica, avremo un effetto positivo sulla crescita, altrimenti si avrà una redistribuzione di mercato e di reddito fra imprese.
b) I costi di produzione. Dal punto precedente si ricava che un intervento normativo mirante a ridurre i costi di produzione sarà utile soltanto se si prevedono effetti positivi sulla crescita. Un’analisi dei costi di produzione e di come intervenire su di essi è difficilissima. Infatti uno dei segreti più inviolabili è il livello e la struttura dei costi di produzione, più un’impresa è grande e importante, più il segreto è inviolabile. Pur partendo da questa ignoranza sulla struttura dei costi di produzione alcune semplici cose si possono dire, innanzitutto una diminuzione dei costi di produzione può avvenire, una tantum, ma un intervento una tantum sui salari o sulla produttività avrebbe solamente un effetto di redistribuzione del reddito a favore delle imprese, con effetti nulli o negativi sulla domanda e quindi sulla crescita. Infatti avrebbe effetti minimi e temporanei sui miglioramenti nelle vendite in concorrenza internazionale, concorrenza che invece richiede continui progressi nella produttività e nella qualità del prodotto. Sul mercato interno, una diminuzione del costo di produzione tramite interventi diretti e indiretti una tantum sul salario, avrebbe invece un effetto depressivo sulla domanda e quindi sulla produzione per il mercato interno. Niente crescita, anzi recessione. Ma anche interventi una tantum sulla produttività, ammesso che siano possibili, avrebbero comunque un effetto temporaneo sulla crescita e quindi trascurabile.
Il vero obiettivo dovrebbe quello di diminuire il tasso di crescita dei costi di produzione, o addirittura innescare un processo di diminuzione nel tempo. Una diminuzione della dinamica dei costi può avvenire solo quando il ritmo di aumento dei costi variabili sia inferiore alla dinamica della produttività. La discussione deve quindi basarsi sulla possibilità che interventi normativi possano incidere negativamente sul tasso di crescita dei costi variabili e/o positivamente sul tasso di incremento della produttività. Analizziamoli separatamente:
i) I costi variabili. Interventi pubblici tendenti a limitare la dinamica dei salari sono possibili solo limitando la possibilità di contrattazione salariale da parte dei sindacati, tale limitazione potrebbe portare addirittura a una diminuzione reale del salario e quindi della sua partecipazione ai costi variabili. Per quanto riguarda gli altri costi variabili, alcuni di essi (ad esempio le materie prime o il costo dei prestiti) non possono essere direttamente modificati, altri costi, spesso esterni alle imprese, sono invece direttamente legati al funzionamento dell’apparato pubblico, locale e centrale. Ma, a parte alcune semplificazioni burocratiche, difficilmente potrebbero essere effettuati interventi di rilievo nel breve periodo atti alla diminuzione dei costi esterni delle imprese a costo zero per lo stato.
ii) La produttività. La relazione fra produttività e crescita è complessa, infatti la produttività non è altro che la possibilità di effettuare la medesima produzione con un input minore di lavoro e, solo marginalmente, di materie prime, energia e semilavorati. Similmente a quanto detto per i costi, un aumento una tantum della produttività, ad esempio con interventi normativi che di fatto aumentino l’intensità di lavoro, hanno un effetto temporaneo e spesso solamente politico, relativo cioè al comando sul lavoro da parte delle imprese, il cui effetto permanente nel lungo periodo sulla dinamica della produttività è alquanto incerto. Più rilevante è invece la questione del ritmo di incremento della produttività legato alla introduzione di innovazioni nel processo produttivo. Ci sono due modi di innovare; il primo è quello di effettuare investimenti sostitutivi o aggiuntivi in macchinari più efficienti, si tratta quindi di acquistare e utilizzare innovazioni tecnologiche incorporate negli investimenti; un secondo modo è quello di introdurre innovazioni frutto di ricerca interna all’impresa o ricerca esterna pubblica. Un ulteriore modo di influenzare la produttività è quello di rendere più efficienti con innovazioni tecniche o normative i servizi pubblici (in genere di rete) esterni alle imprese.
Per quanto riguarda il rapporto fra crescita della produttività e crescita dell’economia, è palese che un effetto si potrà avere sull’occupazione solamente se il tasso di crescita della produttività si combina con un tasso di crescita della produzione più elevato, altrimenti al massimo avremmo crescita economica senza crescita dell’occupazione o addirittura con un aumento della disoccupazione.
Ma perché le imprese dovrebbero innovare? Soltanto nel caso in cui l’innovazione non comporti costi e rischi, allora avremo un flusso di innovazione indipendente dalle aspettative, in quanto comunque produrrebbe una diminuzione di costi, ma nel caso realistico che l’innovazione abbia costi e rischi allora le imprese dovranno fare il confronto fra costi sicuri e presunti con le aspettative di profitto. Siamo di nuovo al problema delle aspettative di domanda causata da una eventuale diminuzione di prezzi, in quanto, a parità di costi dell’innovazione, è molto più probabile che questa sia introdotta se le aspettative sono di aumento di domanda. Comunque tutto ciò avrà un effetto sulla crescita solamente se le aspettative di crescita della domanda causata dall’innovazione siano valide per la maggior parte delle imprese, altrimenti ricadremmo nella semplice redistribuzione del reddito fra imprese o settori.
c) La qualità del prodotto. Un modo, molto richiamato nel dibattito, è quello di puntare sulla qualità del prodotto per allargare il mercato internazionale e quindi la crescita. In realtà il problema della qualità del prodotto è teoricamente abbastanza semplice: o la qualità del prodotto deriva da caratteristiche innate quasi “naturali”, oppure è legata alla ricerca (senza aggettivi che la caratterizzi). Liberandoci dalla vulgata romantico/razzista dell’ingegno italiano, si può facilmente dimostrare che non esiste alcuna caratteristica naturale sufficiente a valorizzare in modo permanente un qualsiasi mercato attraverso la qualità. L’esempio tipico è quello del turismo, un turismo senza ricerca e politica della ricerca è un turismo straccione che, non solo non incrementa la produzione, ma anzi la distrugge velocemente insieme al capitale. Torniamo quindi alla ricerca, che però ha un difetto: necessita di investimenti; ritorniamo quindi al punto di partenza, con l’aggravante che i rendimenti di un investimento in ricerca è non solo molto più rischioso, ma anche con reddito presunto di lungo o lunghissimo periodo. È noto che il settore privato in Italia dà un contributo infimo agli investimenti in ricerca. Non ci sono scorciatoie: nel nostro paese investimenti in ricerca vanno fatti dallo stato. C’è un’aggravante, una ricerca che abbia come obiettivo un utilizzo finalizzato immediato nel processo produttivo è destinata a esaurirsi in breve tempo o addirittura a fallire, si tratta quindi di finanziare lo stimolo alla ricerca e cioè dell’ambiente che la favorisce. Purtroppo non basta, una volta che la ricerca riesca a svolgere con successo la sua attività, c’è il secondo passo quello cioè dalla capacità del sistema produttivo di appropriarsene e utilizzarlo in modo efficiente. Quello che serve cioè è anche un ambiente produttivo capace di essere ricettivo, e per ambiente intendo anche la politica economica e normativa dello stato. Insomma, in un periodo di stretto controllo della spesa pubblica o di tagli, pensare che la politica economica governativa punti sulla ricerca che avrebbe risultati molto di più lungo periodo rispetto non solo alla vita di un qualsiasi governo, ma spesso all'esistenza stessa di un partito e del suo gruppo dirigente, mi sembra non solo ottimistico ma probabilmente illusorio.
Dalle considerazioni fatte sui primi due punti a mio avviso emerge come la possibilità di ottenere una crescita attraverso interventi endogeni, cioè senza le previsioni di crescita di domanda esogena, siano non solo molto costose, sia per le imprese che per i lavoratori, ma anche con esito incerto e, nei casi migliori, debole. In modo particolare va confutata l’equazione, spesso ricordata nella vulgata giornalistica ma anche da certi economisti, di maggiori profitti uguale maggiori investimenti. Le imprese investono certamente per profitto, ma l'investimento dipende dal profitto atteso e solo in minima parte dal profitto corrente. Un elevato profitto senza una aspettativa futura di profitto, invece di incentivare investimenti produttivi, può portare alla ricerca di reddito in investimenti finanziari o in esportazione di capitali all’estero.
Questo significa che non sarà possibile un aumento della produzione e dell’occupazione se non si creerà una aspettativa concreta di crescita esogena della domanda aggregata. Il problema quindi si sposa da una parte alla possibilità di crescita esogena della domanda mondiale, combinata con la capacità del sistema produttivo di avvantaggiarsene e, in questo caso, gli effetti sulla produttività tramite innovazioni, con le difficoltà che abbiamo esposto, potrebbero avere un ruolo determinante; dall’altro, mantenendo il vincolo di deficit pubblico, analizzare il duplice ruolo dello stato nella gestione della struttura della domanda pubblica e nell'efficienza dei servizi prodotti.
Più spesa pubblica?
Veniamo quindi al terzo punto: la struttura della spesa pubblica e della tassazione. Nonostante tutti i partiti, i giornalisti e anche gli economisti dichiarino la necessità di intervenire su spesa pubblica e tassazione, non si è mai capito bene come, dove e perché intervenire. Data per scontata la necessità del mantenimento del deficit a livelli accettabili dall’Unione europea, è ovvio che non basta dire: bisogna diminuire o aumentare le tasse e bisogna diminuire o aumentare la spesa pubblica, declinando la politica economica nelle quattro combinazioni che ne derivano, senza analizzare in modo accurato:
a) quali siano le voci di spesa pubblica sulle quali intervenire;
b) quali tasse diminuire o aumentare e a chi;
c) quali siano gli effetti sul deficit;
d) quali siano gli effetti sociali, politici ed economici.
Ognuno di questi punti è molto complesso e difficile da analizzare per una serie di motivi, uno dei quali, notissimo e sul quale non si è mai intervenuti, l’assurdità dell’organizzazione dei dati e dei bilanci relativi alle poste spesa pubblica, assurdità che non solo non permette di capirne bene le finalità e i valori, ma anche di non poter neppure distinguere le spese correnti da quelle in conto capitale, non esistendo nell’amministrazione pubblica il conto capitale e un calcolo degli ammortamenti. I dati e le informazioni sulla tassazione sono senz’altro migliori, ma quelle che sono scarse e spesso inattendibili sono le informazioni sui redditi e le proprietà da tassare.
In questo quadro di incertezze e di scarsità di informazioni, ogni forza politica e ogni “esperto” può dire tutto e il contrario di tutto senza possibilità di verifica, il che produce soltanto scontri assurdi e falsamente ideologici tra statalisti e non statalisti. Questo è quello che succede in tempo di propaganda elettorale, quando poi si tratta di gestire spesa pubblica e tassazione, da governi tecnici, populisti o illuminati, allora le uniche politiche perseguite sono e probabilmente in futuro saranno le seguenti:
a) per quanto riguarda la spesa pubblica, si effettuano controlli o tagli lineari della spesa con l’individuazione dei settori da colpire in base alla pressione e alla forza delle lobby interne ed esterne al governo e al parlamento. Gli effetti di tali contenimenti della spesa in genere sono meno efficaci del previsto, mentre i danni che tali tagli provocano sono molto superiori, infatti il taglio lineare tende a colpire in modo proporzionale le efficienze e gli sprechi della pubblica amministrazione, anzi è più probabile che siano colpiti maggiormente i settori più efficienti, in quanto la maggior parte degli sprechi e delle inefficienze sono proprio causate e alimentate dalle strutture che decidono dove tagliare. L’esempio tipico è quello dei tagli all’istruzione e alla ricerca, settori notoriamente poco controllabili dal sistema politico e quindi di scarso interesse, per i quali addirittura si inneggia al successo quando le scuole e le università vedono una riduzione di studenti e docenti.
La capacità e la possibilità di una ristrutturazione della spesa pubblica in funzione di obiettivi di equità e miglioramento dei servizi è alquanto remota e difficile, in quanto andrebbe messo in discussione, non solo l’apparato statale, ma il suo stesso ruolo. Un esempio è quello delle spese militari, se nella politica di governo e di accordi internazionali sono inseriti interventi di guerra preventiva o “guerra per la pace”, è ovvio che una spesa pubblica efficiente deve fornire le armi adatte a tali scopi alla struttura militare.
b) per quanto riguarda le entrate, il problema maggiore è, come ricordato, quello della individuazione dei redditi e delle proprietà da colpire. Data questa premessa, e dando per scontato che tutti a parole siano per una maggiore capacità di combattere l’evasione fiscale, l’unico confronto riguarda due posizioni: quella che lega la crescita economica a una riduzione di tassazione e quella che lega la crescita economica a una maggiore equità della tassazione.
Una riduzione di tasse generalizzata, compensata da una diminuzione della spesa, dovrebbe portare un aumento della crescita in due modi: un aumento di domanda e un’incentivazione a produrre di più. In genere l’attuazione dovrebbe avvenire attraverso una riduzione di aliquote, in modo tale da poter compensare la riduzione dell’aliquota con un aumento della base tassata grazie alla crescita. La base teorica di questa posizione è data da un’applicazione semplificata di una teoria elaborata da un economista “reaganiano” che si chiama Laffer, la cui applicazione ha portato danni enormi (economici, sociali e culturali) agli Stati Uniti, che ancora ne pagano le conseguenze interne e internazionali (hanno dovuto inventarsi un paio di guerre per tentare di uscirne). Per quanto riguarda il taglio di spesa la posizione è elementare, la spesa pubblica è il male, se si taglia, il male si riduce.
Più sensata è un’ipotesi di maggiore equità della tassazione attraverso il trasferimento del carico impositivo dalle classi a reddito più basso (ad alta propensione marginale al consumo) a quelle a reddito più alto (a più bassa propensione marginale al consumo). In questo modo oltre a rispettare i dettami costituzionali della progressività della tassazione, si avrebbero effetti benefici sulla domanda e sulla crescita. Ovviamente, a parte la dubbia buonafede degli economisti fautori di una politica economica reaganiana in Italia, le difficoltà sono tutte politiche e possiamo dire senza dubbio da un tradizionale “conflitto classe”. La gestione del potere è ancora in mano alle classi a più alto reddito e quindi il contrasto è soltanto tra più o meno sviluppato egoismo di classe. Comunque, sarebbe auspicabile che abbia il sopravvento una classe politica più “illuminata” che, anche parzialmente, segua la linea di una maggiore equità nella riduzione del carico fiscale.
Conclusioni?
Non è possibile trarre conclusioni positive da questo panorama espositivo: la negatività sta in primo luogo nell’utilizzo, spesso orecchiato, da parte dei politici di idee sbagliate della teoria economica che in molti casi coinvolge trasversalmente destra e sinistra; in secondo luogo nell’approssimazione, nella velleità e nella scarsa consapevolezza della delicatezza e difficoltà del problema. Basti pensare allo slogan “riforme per la crescita”, che è diventato un mantra in bocca a ogni politico, ma del quale nessuno chiarisce il contenuto, se non genericamente: riformare il mercato del lavoro, riformare la finanza, riformare la scuola, la giustizia, ecc., ma soprattutto, nessuno ne spiega i costi e l’eventuale legame con la crescita.
La crescita economica è legata alla nascita, alla storia e alla stessa sopravvivenza del sistema capitalistico: non è facile trattarla soltanto alla luce di eventi e situazioni cicliche senza introdurre aspetti di carattere strutturale che ormai investono l’intero pianeta. Unica conclusione che ho sempre pensato possa essere rilevante è che prima o poi si dovrà smettere di parlare di crescita economica quale sinonimo di sviluppo umano, ma al di là dell’accoppiarla a vari aggettivi come: crescita sostenibile, crescita equa, crescita equilibrata, ecc., andrà messo in discussione il concetto stesso di crescita come aumento di merci prodotte, per sostituirlo con qualcosa che più abbia a che fare con una vita qualitativamente migliore per tutti.
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