Cgil da un lato, Cisl e Uil dall’altro. Dietro le divisioni tra i sindacati c’è un cambiamento profondo, nel modo di intendere i rapporti tra lavoro e impresa e nelle forme di controllo sul lavoro
Critiche alla Cgil, ovviamente, avendo osato sfidare e contestare le sue politiche recessive in termini economici e illiberali in termini di diritti sociali e politici; nessuna critica invece, altrettanto ovviamente, a Cisl e Uil, sostenitrici di fatto di queste stesse politiche recessive e illiberali. Nella conferenza stampa pre-natalizia, Mario Monti – il narciso Mario Monti, anche in questo nel solco della continuità con il berlusconismo, con le dovute differenze di forma ma non di sostanza – si è chiuso nella proprio solipsismo e nella propria surrealtà neoliberista.
Tra i molti spunti che la conferenza stampa ha offerto al commento, questo del sindacato merita però un approfondimento. Perché nel momento in cui la crisi economica diventa sociale ed esistenziale, una parte del sindacato continua a chiamarsi fuori dalla discussione e dalla difesa degli interessi che dovrebbe difendere (semmai con forza accresciuta e non con silenzi complici), riproponendo una drammatica differenziazione di modelli sindacali (semplificando: chi difende davvero i lavoratori e i cittadini, la Fiom o la Cisl, Landini o Bonanni? – e dopo un anno di governo Monti la risposta dovrebbe essere scontata e invece non lo è).
E dunque: conflitto sindacale e sociale, in nome degli interessi dei lavoratori e dei cittadini da tutelare rispetto alla controparte imprenditoriale e di governo, in nome di interessi generali, pubblici e collettivi, nonché di democrazia da rafforzare ed estendere e di diritti da ampliare, interessi necessariamente diversi da quelli del profitto, dell’impresa e della paranoia del pareggio di bilancio; oppure complicità (termine che l’ex ministro Sacconi amava molto) tra sindacato e impresa e del sindacato con l’impresa, in nome dei supremi interessi dell’economia nazionale, della globalizzazione, della rete e della competitività? Vedere il segretario della Cisl Bonanni nella seconda fila nella sala dell’evento Fiat di Melfi dello scorso 20 dicembre (Marchionne&Monti insieme per rifare l’Italia e per cambiare, come era stato detto, il modo di vivere degli italiani) era piuttosto imbarazzante.
Il conflitto di interessi tra Bonanni e il lavoro
Imbarazzante ovviamente per chi critica le anti-politiche economiche e sociali del governo Monti, della Bce e dell’Unione Europea (e vorrebbe un’Europa meno stupida, più autentica, meno ideologizzata); per chi è convinto che le soluzioni adottate per uscire da questa crisi siano state non solo sbagliate in termini di teoria economica ma soprattutto irrazionali (non si crea ripresa producendo deliberatamente recessione, se si crea recessione e impoverimento di massa è per altre ragioni e per altri scopi).
Ma imbarazzante evidentemente non è per chi, come appunto Bonanni, esplicitamente ha sostenuto il governo Monti (& Marchionne) e le sue politiche senza per questo provare alcun conflitto di interessi in se stesso e tra i propri ruoli pubblici. Sì, conflitto di interessi: tra l’essere soggetto di rappresentanza e di tutela degli interessi del lavoro e dei lavoratori e il voler essere insieme fautore e sostenitore di politiche (e di interessi altri e diversi: finanza, banche, speculazione, ideologia neoliberista) che quegli interessi dei lavoratori e dei cittadini hanno invece scientemente distrutto, sia in termini di reddito che in termini di diritti sociali e quindi politici e civili. Conflitto di interessi tra l’essere sindacato che lotta per i diritti di tutti e il barattare i diritti sociali, di rappresentanza, di democrazia all’interno delle fabbriche in cambio di un po’ di potere, cedendo di fatto ad un ricatto. Un conflitto di interessi che dovrebbe essere evidente e appunto imbarazzante (ma non lo è) per chi – sempre Bonanni – confonde la volontà e il desiderio di realizzare, dove possibile, “la democrazia economica con l’azionariato collettivo e la possibilità di esprimere rappresentanti dei lavoratori nei consigli di sorveglianza” – e questo perché “i lavoratori sono responsabili, ma chiedono di contare di più” (intervista a Il Sole 24 Ore del 2 luglio 2009) – con la complicità con l’impresa che la Cisl sta attuando con il governo e con la Fiat.
Complicità che poi significa subire/accettare ciò che l’impresa decide in quanto soggetto ormai unico e quasi-assoluto di sovranità nel luogo di lavoro (cancellando cento anni di lotte sindacali, anche della stessa Cisl per la democrazia nei luoghi di lavoro), l’impresa come sovrano quasi-assoluto che disconosce, misconosce, nega a suo piacere ogni logica di democrazia, di dialogo, di cittadinanza attiva nei luoghi di lavoro, come appunto è accaduto nel Gruppo Fiat contro la Fiom. Complici Cisl e Uil che hanno giocato la carta della complicità e non quella del conflitto, ponendo i lavoratori nelle condizioni di contare di meno rispetto al passato, lasciandosi irretire dalla favola di un posto di lavoro e di 20 miliardi di euro di investimenti, senza la minima capacità ma soprattutto senza la minima volontà di esercitare quello che un tempo si chiamava spirito critico. E insieme dimenticando quello che diceva (nel 1942!) non un pericoloso sovversivo, ma un liberale come William Beveridge, uno dei padri dello stato sociale europeo: ovvero che il mercato del lavoro dovrebbe essere sempre favorevole al venditore, cioè al lavoratore, anziché al compratore (l’impresa). Beveridge poi aggiungendo che se “l’esperienza o la logica dimostrassero che l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione fosse necessaria per assicurare la piena occupazione, questa abolizione dovrebbe essere intrapresa”. Appunto: la piena occupazione come obiettivo politico ed economico, ma soprattutto – questo sì – di coesione sociale. Obiettivo del liberale Beveridge.
Dalla alienazione alla identificazione
Dunque: fine del sindacato conflittuale e passaggio al sindacato complice? Fine della lotta per un lavoro diverso e passaggio alla collaborazione sempre e comunque con l’impresa? Complicità che rimanda però anche ad un altro concetto, quello di identificazione dei lavoratori con l’impresa (e con il mercato e il capitalismo e la sua ultima versione neoliberista) e che spiega in parte perché e come si sia arrivati a questo punto: una politica che l’impresa e il capitalismo hanno perseguito almeno dagli inizi del ’900, dalla sezione sociologica di Henry Ford e dagli albori della psicologia industriale e del lavoro, passando per la cordiale collaborazione tayloristica tra direzione e operai, arrivando alla comunità di lavoro del toyotismo, e poi ancora al contratto psicologico da far stipulare (implicitamente ma sostanzialmente) tra lavoratori e impresa accettandone la mission, e arrivando al prosumer, alla wikinomics e al capitalismo cognitivo e al mantra sociale del dover essere imprenditori di se stessi.
Tutte finzioni, ovviamente tutte illusioni e allusioni di partecipazione e di condivisione (come, oggi, il collaborare e il condividere e il dover essere sempre connessi in rete): processi in parte utili e necessari (la psicologia industriale, il miglioramento delle condizioni di lavoro, l’aumento dei redditi e la diminuzione degli orari di lavoro – tutto questo però ottenuto mediante conflitto sindacale e pressione dal basso da parte dei lavoratori), in realtà trattandosi sempre più di processi utili al sistema di produzione e di consumo per creare e poi consolidare quella autentica egemonia (proprio in senso gramsciano) dei mercati e delle logiche competitive anche sulla classe che avrebbe dovuto essere alternativa e conflittuale. Cancellando progressivamente l’alienazione (o almeno riducendone la sua percezione psicologica – in verità l’alienazione, anche in rete e nel nuovo taylorismo digitale è semmai aumentata) e accrescendo invece l’idea e la percezione virtuosa della identificazione con l’impresa: per una presunta comunanza di interessi; perché il lavoro è l’unica forma di soggettivazione (in realtà, una falsa soggettivazione e un falso individualismo) ammessa dal sistema capitalistico (laboro, ergo sum), ma soprattutto perché il lavoro (sempre subordinato e dipendente anche quando è nell’economia della conoscenza e quando è autonomo) è l’unica modalità possibile per far integrare, omologare e far lavorare a produttività crescente i lavoratori. E usando Jünger si potrebbe parlare di mobilitazione totale e globale al lavoro degli individui nell’apparato di produzione e di consumo, sì perché anche il consumare è ornai diventato un lavoro e il marketing è l’equivalente, nel consumo, del taylorismo e del toyotismo e la pubblicità è una pura forma di propaganda a sostegno del capitalismo. Questo processo per accrescere l’identificazione di ciascuno nell’apparato e con l’apparato (per chi ha un lavoro e per chi lo cerca) e per far dimenticare la vecchia alienazione (che non è scomparsa, è stata solo appunto dimenticata) ha poi trovato nella rete e nel lavoro in rete la sua massima espressione ed efficacia (il dover essere connessi senza che ci sia più un dittatore o un’ideologia a imporlo).
È stato un meccanismo (una biopolitica, potremmo dire rifacendoci a Foucault) per la costruzione del biopotere del mercato o della sua egemonia, attraverso una progressiva ricerca delle forme migliori per far identificare appunto i lavoratori con l’impresa (intesa come forma di comunità chiusa e non di società conflittuale e aperta), producendo o attivando una microfisica di saperi e poteri di organizzazione del lavoro che permettesse di superare la vecchia alienazione in nome appunto di una (ma ovviamente sempre e comunque illusoria) identificazione con il lavoro e con l’impresa e i suoi valori, i suoi scopi, le sue esigenze, la sua mission. Trasformando i cittadini in clienti. I cittadini in imprenditori. Il biopotere del capitalismo vive infatti di biopolitiche e di discipline ben reali anche se non evidenti – e la mano è invisibile solo in apparenza – e se ieri servivano soprattutto meccanismi di disciplina sui singoli corpi, oggi sono soprattutto biopolitiche sull’insieme della popolazione (pur non mancando meccanismi fortemente disciplinari come i referendum alla Fiat, ma sempre all’interno della biopolitica del tecno-capitalismo). Tanto efficaci e tanto invasive/pervasive da essere diventate appunto egemoniche e da avere cancellato o impedire l’idea stessa di diritti sociali, mercificando ogni cosa, vita compresa. Se il mercato è egemone in termini culturali e sociali, l’uomo cessa di dover essere pensato come animale sociale e collaborativo per sé e per gli altri, dovendo diventare collaborativo, o meglio: essendo richiesta la sua collaborazione (ancora: dalla cordiale collaborazione cercata da Taylor al dover essere connessi della rete) solo con e per l’apparato di produzione e di consumo. Tornando ad essere merce, risorsa umana da gestire, come le altre merci, in just in time, semmai vedendo compensata in denaro anche la cessione dei propri diritti (nuovo articolo 18 docet), diritti che così diventano essi stessi merce (ancora: Monti&Marchionne), per la gioia dei neoliberisti. D’altra parte, questa logica di identificazione con mercato e apparato trova ulteriore riscontro nel fatto che oggi ci si identifichi appunto più con una marca/brand (le brand community) che con una religione o un partito politico o un sindacato (sempre meno sindacato e sempre più Caf), anche la religione o il partito modellandosi semmai nella forma del brand.
La guerra di posizione del tecno-capitalismo per l’egemonia
Una costruzione dell’egemonia, la realizzazione di una biopolitica che come detto partono da lontano, ma che hanno avuto poi, negli ultimi tre decenni, una fortissima accelerazione. Ancora l’ex ministro Sacconi, che nel 2008 aveva messo in consultazione il suo Libro bianco sul futuro del modello sociale in Italia. Dove appunto si sosteneva che, per conseguire gli obiettivi di modernizzazione e di sostenibilità del welfare, le politiche sociali del lavoro dovessero caratterizzarsi in termini di sostegno della produttività e della crescita, e per questo fosse necessario il contributo delle parti sociali alla governance (una delle tante parole-chiave con cui si è costruita l’egemonia neoliberista) del sistema, passando da quello che era stato definito appunto come un matrimonio di interesse tra capitale e lavoro, che pure non escludeva conflitti e lotte per accrescere i diritti e i redditi del lavoro e dei lavoratori riducendo quelli dell’impresa e degli imprenditori, ad un sistema di collaborazione e di complicità tra capitale e lavoro, tanto che Sacconi chiedeva al sindacato di tenere in debita considerazione i valori dell’impresa e della competitività (ma ovviamente, non il viceversa). Tutto in nome della cooperazione e della partecipazione, altre parole-chiave della propaganda - senza specificare che questa cooperazione e partecipazione non era e non è tra soggetti paritari (impresa e lavoratori), ma sempre più disuguali (il sistema accrescndo questa disuguaglianza). Una identificazione con l’impresa ben rappresentata sempre da Bonanni, nell’intervista citata sopra: “La mobilitazione di piazza è retrò e inadeguata rispetto alla sfida che abbiamo di fronte. (…) Di fronte ad una crisi come l’attuale serve coesione e l’imprenditore non è la nostra controparte”.
E dunque: invece di essere – il sindacato e la sinistra – soggetti che difendono i lavoratori e che insieme chiamano le imprese a cambiare modelli e strategie; invece di essere il vincolo esterno capace di indurre le imprese a fare ciò che da sole non fanno e raramente in Italia hanno saputo fare – se non, appunto in presenza di un forte vincolo esterno – ovvero innovazione di prodotto e di mercato, ricerca e sviluppo, nuovi modelli organizzativi, ecco che si è scelto di far recuperare sì (forse) competitività alle imprese, ma di farlo mediante la svalutazione del lavoro e dei redditi da lavoro (non essendo più possibile la svalutazione della moneta). Una parte del sindacato italiano ha dismesso il proprio ruolo di sindacato; ha accettato la recessione in nome di non si sa bene che cosa (la luce mistica della ripresa in fondo al tunnel?); ha accolto come penitenza divina l’impoverimento di massa e le disuguaglianze crescenti imposte da quella religione che si chiama capitalismo (come lo definiva Walter Benjamin: una religione cultuale, “forse la più estrema che si sia mai data”; a durata permanente; capace di generare colpa; e con il suo dio ben celato).
Un paradosso del sindacato (di un certo sindacato)? Certamente. Di più: un errore politico di prima grandezza. Per correggerlo basterebbe rileggere Keynes. E Beveridge. E la ricostruzione di Galbraith della crisi del 1929. O almeno Adriano Olivetti, di cui le risorte Edizioni di Comunità pubblicano questo delizioso Ai Lavoratori (sì, con la maiuscola), dove si possono leggere frasi come: “Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea… risponde a una semplice idea: creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo”; un’impresa dove il capitale azionario appartenga in parte alla comunità locale mentre alla sua “proprietà e gestione partecipino insieme i lavoratori, la Comunità, lo Stato regionale”; un’impresa dove i profitti non siano il solo fine; e le cui fabbriche siano concepite “a misura dell’uomo”. Ma dove si può leggere anche questa frase del padre di Adriano, Camillo Olivetti: “Tu puoi fare qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno per motivo dell’introduzione di nuovi metodi di lavoro, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia”. E se lo diceva un imprenditore...
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