Il dibattito sul posto fisso, il disagio del lavoro dipendente, lo scontro sui contratti. Una richiesta a sinistra: "primarie" anche per i metalmeccanici
W il posto fisso! Perché Tremonti e Berlusconi aprono proprio sul lavoro dipendente l’ennesimo fronte di propaganda del governo? Certo, Tremonti tenta di farsi perdonare l'immorale condono fiscale dai vertici dei sindacati confederali, ossia da chi, bene o male, rappresenta i principali danneggiati. Certo, Berlusconi tenta di arginare l'offensiva del suo ministro dell'economia. È così. Ma c'è anche altro. Tremonti e Berlusconi scelgono il lavoro dipendente perché in Italia più che altrove e al Nord più che nel resto del Paese è acuta la sofferenza del lavoro dipendente e delle forme più precarie di lavoro di fatto dipendente: co.co.co, contratti a progetto, finte partite Iva. Ed è evidente che non regge più la ricetta di moda fino a ieri “meno ai padri, più ai figli”: padri egoisti e privilegiati (insider, nella letteratura lavorista alla moda) ai quali sottrarre diritti e reddito per ridistribuirli ai figli precari (outsider).
Infatti, invisibile ai “riformisti coraggiosi”, è maturata una vera e propria questione sociale per i lavoratori dipendenti e quanti ad essi assimilati per condizione di lavoro, ma distinti per vestito giuridico. Per essi, ossia per la stragrande maggioranza delle classi medie, dal ’93, le retribuzioni contrattuali di fatto rimangono ferme in termini reali e, data la crescente incidenza delle imposte rispetto ad altre tipologie di redditi, perdono potere d’acquisto. È vero che i figli stanno messi peggio dei padri, ma i padri stentano ad andare avanti. Sono colpiti anche dal ridimensionamento del welfare state (in particolare, delle pensioni) la cui insostenibile generosità aveva compensato le relativamente modeste retribuzioni. Comunque, si tratta di padri e figli lavoratori dipendenti, operai e classi medie, perché altri padri (lavoratori autonomi, imprenditori, professionisti), invece, migliorano decisamente le loro condizioni e le trasmettono, data la scarsissima mobilità sociale in Italia, ai loro figli. La Banca d’Italia ha calcolato che, dal ’93 al 2006, la quota di operai in condizioni economiche difficili (reddito inferiore al 60% delle mediana italiana) aumenta dal 27 al 31%, per impiegati e dirigenti sale di circa 2 punti percentuali, mentre per le altre categorie attive diminuisce dal 25 al 14%, oltre 11 punti percentuali.
L’impoverimento del lavoro dipendente diventa questione sociale perché, nonostante la vulgata trendy, esso non scompare, ma continua a dominare il panorama occupazionale, ovunque ha ricordato Massimo Salvadori su L'Unità. In Italia, quasi 17,5 milioni di uomini e donne su poco più di 23 milioni di occupati. Soprattutto al Nord, dove risiede circa il 60% dei lavoratori dipendenti privati, dove, secondo l’Istat, nel 2007, 3 occupati su 4 sono lavoratori dipendenti. Anche nel mitico Nord-Est. Anche nelle fascia di età 25-34 anni. Ed è al Nord che le frange più deboli del lavoro dipendente subiscono di più la competizione effettiva o temuta dei lavoratori immigrati. Nei primi tre decili di reddito da lavoro dipendente (le fasce meno retribuite), la presenza di immigrati occupati arriva, in 20 anni, al 25%, mentre per i decili più forti rimane intorno al 5%.
In sintesi, la questione settentrionale è, innanzitutto, questione del lavoro dipendente. Pertanto, venendo alla politica, è superficiale la lettura diffusa, riproposta di recente da Michele Serra su Repubblica, che etichetta come piccola borghesia reazionaria gli elettori della Lega o del PdL al Nord. In parte è così. Ma in larga parte sono lavoratori dipendenti, operai e classi medie, in cerca di strade alternative per migliorare le loro prospettive, dato il blocco dei sentieri battuti nel corso della seconda metà del ‘900: la crescita economica del Paese e la redistribuzione primaria (i contratti di lavoro) e secondaria (il welfare state) del reddito. La crescita non c’è, perché in Italia non si fanno le riforme ed è venuta meno la droga del debito pubblico e delle svalutazioni competitive della lira. Le quote distributive, per cause sovranazionali e per precise scelte interne di politica economica spesso bipartisan, si muovono a svantaggio del lavoro dipendente, sia nel mercato del lavoro, sia sul terreno fiscale e della spesa sociale.
Così, assente la crescita e impossibilitato ad incidere sulla distribuzione primaria e secondaria del reddito, abbandonato dai riformisti sul piano simbolico e valoriale, “minacciato” dalla forza lavoro migrante, il lavoro dipendente va verso l’unico canale all’orizzonte: la redistribuzione territoriale e inter-aziendale del reddito. I territori e le aziende più forti diventano l'ambito di identificazione, in alternativa alla esausta classe sociale, per rivendicare reddito a scapito dei territori e delle aziende più deboli. Di qui, il federalismo separatista e le gabbie salariali e sociali nella versione base di Bossi e nella versione sofisticata di Sacconi e del suo Protocollo sul modello contrattuale. In teoria, corporativismi diversi. In realtà, data l’articolazione produttiva dell’Italia, largamente coincidenti.
Insomma, mentre i riformisti volenterosi parlavano soltanto di imprese e famiglie e teorizzavano l’interesse dell’impresa come unico interesse legittimo, anzi, interesse naturalmente generale, i lavoratori dipendenti, la dove erano più numerosi e più in difficoltà, cominciavano a votare per l’unica offerta politica praticabile: quella corporativa della destra e, in particolare, della Lega Nord. E oggi, data la difficile fase economica in corso, l'assenza di una credibile strategia riformista rende irresistibile la deriva corporativa. Ora che il Pd raccoglie tra i lavoratori dipendenti privati la stessa, minoritaria, percentuale di voti raccolti tra le partite Iva, forse sarebbe utile provare ad affrontare il problema, senza nostalgie fordiste. Perché, per parlare ai lavoratori autonomi, a piccoli imprenditori ed ai professionisti, obiettivo imprescindibile, si deve continuare ad abbandonare il lavoro dipendente?
Per dare un segnale in controtendenza, il Pd dovrebbe invocare le “primarie” sul contratto dei metalmeccanici. Come si può esaltare l’apertura a tutti i cittadini della scelta del segretario del partito e, al contempo, tacere sulla restrizione ai pochi iscritti ai sindacati firmatari del diritto di esprimersi su un contratto applicato a tutti i lavoratori metalmeccanici?
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