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Che cosa produciamo?

09/05/2014

Made in Italy/Rispetto al 2008, l'Italia ha perso un quarto della produzione. Spagna, Grecia e Portogallo sono cadute ancora più in basso. Quale può essere l'interesse di un paese a «restare in Europa» quando le politiche europee cancellano un quarto delle fabbriche e dei posti di lavoro?

La retorica dei governi insiste sulla ripresa. Ma la realtà dell'Europa è la stagnazione dei paesi «forti» e la depressione nella «periferia». Germania a parte, la crescita del Pil nel 2014 sarà sotto l'1% nei maggiori paesi dell'eurozona, l'Italia retrocessa allo 0,5%, la Grecia sempre sottozero.

Il senso di quello che sta succedendo ce lo dà l'industria: rispetto al 2008, l'Italia ha perso un quarto della produzione; Spagna, Grecia e Portogallo sono cadute ancora più in basso; gravi perdite si contano in Francia, Olanda, Finlandia e Irlanda. Questa distruzione di capacità produttiva in mezza Europa – il risvolto del successo tedesco – mette in discussione le fondamenta dell'integrazione europea più della crisi del debito o del salvataggio di qualche banca. Quale può essere l'interesse di un paese a «restare in Europa» quando le politiche europee cancellano un quarto delle fabbriche e dei posti di lavoro?

Se si vuole evitare questo deserto, è indispensabile un ritorno della politica industriale, che è stata essenziale nel novecento per la crescita dell'Europa e che trent'anni di neoliberismo hanno messo al bando in nome dell'efficienza del mercato. A mezza bocca l'ha capito anche Bruxelles, che parla di "Industrial Compact". In Francia il ministro Montebourg si sforza di limitare le delocalizzazioni e sostenere, con capitali pubblici e soci stranieri, imprese come la Peugeot. Ma le proposte più innovative pensano a una politica industriale a livello europeo, con risorse comuni investite soprattutto nei paesi in difficoltà. In questa direzione vanno le iniziative della Dgb, la confederazione sindacale tedesca e la versione un po' annacquata proposta dalla Confederazione europea dei sindacati.

Guarda più avanti la proposta di Sbilanciamoci! e EuroMemorandum di una ricostruzione della capacità produttiva a scala europea. Si potrebbe investire il 2% del Pil europeo per dieci anni in nuove produzioni – pubbliche e private – in tre settori prioritari: la conversione ecologica dell'economia, con abbattimento delle emissioni, energie rinnovabili e risparmio energetico; le tecnologie dell'informazione e le loro applicazioni; il sistema della salute, dell'assistenza e del welfare. Tre quarti degli investimenti potrebbero andare nella «periferia», il resto nelle regioni arretrate dei paesi del «centro». I fondi potrebbero venire dalla Bce, da Eurobond e dalla Bei, oppure da nuove entrate – una tassazione europea dei profitti, della ricchezza o delle transazioni finanziarie. A deliberare il piano il Parlamento europeo; a decidere su quali progetti spenderli un'Agenzia europea per gli investimenti dove non siedono banchieri, ma si raccolgono competenze economiche, organizzative, sociali e ambientali. A realizzare gli investimenti, imprese o soggetti pubblici locali, con uno stretto monitoraggio.

Un programma di questo tipo darebbe uno stimolo alla domanda e ci farebbe uscire dalla depressione. Porterebbe a nuove attività e posti di lavoro nei settori e nei luoghi «giusti». E ridarebbe un ruolo all'azione pubblica, rovesciando trent'anni di privatizzazioni che non hanno prodotto né sviluppo, né efficienza. Proprio qui sta il problema: si può davvero tornare a un forte intervento pubblico nell'economia? Fabrizio Barca, in queste pagine, sceglie ancora il mercato rispetto a una pubblica amministrazione incapace. Ma è sicuramente possibile avere un controllo democratico sulle scelte d'investimento senza regalare potere ai partiti. Organizzare lo sviluppo senza collusioni e corruzione. E, soprattutto, trovare una risposta più giusta alla domanda su che cosa produciamo, come, e per chi.

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Commenti

Prima fare i conti in casa nostra

Comincio a pensare che tutto questo auspicare nuove politiche europee si risolva in un pericoloso alibi per la nostra classe politica.
Si dice spesso che l'Europa così com'è non va e si propongono medie europee effettivamente preoccupanti, ma temo si dimentichi che sono solo medie, medie che alla fine mi ricordano quelle di Trilussa. Quelle medie sono preoccupanti perché appesantite dai paesi "deboli", ma ci sono anche paesi "forti" che sono nettamente sopra media. Come spiegare, ad esempio, un tasso di disoccupazione stabilmente sotto il 5% in Austria? Perché le politiche europee vanno bene per l'Austria e male per l'Italia?
Si dimentica sempre, infatti, che la classe politica italiana ha pesantissime responsabilità. L'adesione all'euro era anche il tentativo di riportare in primo piano la grande industria e l'innovazione di prodotto, uscendo da una situazione di inflazione e progressive svalutazioni che avvantaggiavano la piccola e media industria esportatrice di prodotti maturi, sui quali si faceva sempre più minacciosa la concorrenza dei paesi emergenti. Ma quell'adesione era stata preparata da una classe politica poi spazzata via da tangentopoli. È seguito un ventennio in buona parte caratterizzato dall'alleanza Berlusconi-Bossi, cioè da una politica di segno contrario (cos'altro è la Lega se non l'espressione politica del nord-est?) Basti pensare che "euro" vuol dire "moneta forte e bassa inflazione", ma il secondo governo Berlusconi - attento ai voti dei commercianti - ha affossato i controlli sui prezzi che erano stati previsti da Prodi.
E non è andata meglio con i governi che sono seguiti.
Si auspicano fondi provenienti "dalla Bce, da Eurobond e dalla Bei, oppure da nuove entrate". Cosa ne succederebbe?
L'Italia non riesce nemmeno a utilizzare gli spiccioli dei fondi strutturali! Come pensare che possa utilizzare efficacemente fondi più consistenti? La vicenda Expo non aiuta certo a sperare...
Che senso ha "un controllo democratico sulle scelte d'investimento senza regalare potere ai partiti"? In una democrazia sono proprio i partiti i canali attraverso cui si esprime la volontà popolare. In altri termini, ogni paese ha la classe politica che si merita e non esistono controlli democratici alternativi alla politica, ancor meno controlli democratici antipolitici.
Sì, perché c'è anche questo problema: se è stato possibile che il ventennio Berlusconi-Bossi abbia attuato politiche contrarie a quelle che sarebbero state coerenti con l'adesione all'euro, è perché il nostro è un paese spaccato. Nord e Sud, giovani disoccupati o precari e vecchi pensionati, isole di grande industria in un panorama generale affetto da nanismo ecc. Un paese spaccato ben difficilmente può esprimere una politica coerente nel medio/lungo termine.
Sarebbe quindi meglio, credo, ragionare PRIMA sulla concreta possibilità di attuare politiche coerenti nel medio/lungo periodo, e solo POI su eventuali maggiori risorse da spendere.
A che serve desiderare buon vento se non si sanno manovrare le vele? Si rischia solo di scuffiare.

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