Ultimi articoli nella sezione

08/12/2015
COP21, secondo round
di Lorenzo Ciccarese
03/12/2015
Lavoro, la fotografia impietosa dell'Istat
di Marta Fana
01/12/2015
La crisi dell’università italiana
di Francesco Sinopoli
01/12/2015
Parigi, una guerra a pezzi
di Emilio Molinari
01/12/2015
Non ho l'età
di Loris Campetti
30/11/2015
La sfida del clima
di Gianni Silvestrini
30/11/2015
Il governo Renzi "salva" quattro istituti di credito
di Vincenzo Comito
alter
capitali
italie
globi

Togliere tutele al lavoro non aiuta la produttività

29/03/2013

Maggiore protezione all’impiego si accompagna a minore produttività? È una tesi che ritorna nelle politiche dei paesi europei e nei discorsi di Mario Draghi. I dati dimostrano che non è così

Il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, il 14 e 15 marzo 2013, parlando di fronte ai capi di Stato e di governo dei 27 Paesi dell’Unione europea, ha riproposto la convinzione che vi sia uno stretto legame ex-post tra produttività del lavoro e dinamica delle retribuzioni e, suggerendo una riforma della contrattazione collettiva che conferisca al contratto aziendale il compito di stabilire questa relazione.

Secondo alcuni questo è auspicabile e rimanda in qualche modo alla “regola aurea” del periodo keynesiano e fordista del secondo dopoguerra, secondo la quale appunto le retribuzioni (reali) devono crescere al pari della produttività del lavoro, se le quote distributive devono rimanere invariate. Peccato che anche analisi economiche delle istituzioni internazionali (come il rapporto Ilo del 2012, ad esempio) evidenzino come negli ultimi venti anni e più le dinamiche tra le due variabili siano state divergenti, con la produttività che si è sempre più allontanata, verso l’alto, dai salari reali, che invece si sono mossi verso il basso. Una ripresa della regola aurea è quindi più che auspicabile, diremo quasi dovuta.

Ma il senso del ragionamento del governatore è ovviamente un altro, non certo quello di riproporre la “regola aurea”. Il governatore intende dire che mentre i paesi virtuosi, quelli con gli avanzi della bilancia commerciale e i conti pubblici “in ordine”, hanno fatto crescere i salari meno della produttività del lavoro, riducendo quindi il costo del lavoro per unità di prodotto, quelli con deficit della bilancia commerciale e con conti pubblici “in disordine” hanno una dinamica della produttività così debole che anche una modesta crescita dei salari ha fatto crescere il costo del lavoro per unità di prodotto. Questa lettura è stata criticata anche da Andrew Watt sul Social Europe Journal, evidenziando come il governatore cada in errore confrontando valori nominali (dei salari) con valori reali (della produttività) (http://www.social-europe.eu/2013/03/mario-draghis-economic-ideology-revealed/).

Draghi propone come soluzione, ovviamente, la flessibilità del mercato del lavoro, in particolare la flessibilità contrattuale sui salari che, se legati ex-post alla produttività del lavoro, dovrebbero indurre una crescita della produttività, o almeno una dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto tale da non ridurre la competitività del paese. Ovvio, non solo questo è il fattore risolutivo chiamato in gioco; anche altri fattori sono rilevanti, quali il credito che rischia il crunch e lo scarso grado di concorrenza dei mercati che sempre – in queste interpretazioni – è al centro della competitività. Ma la flessibilità contrattuale nel mercato del lavoro rimane un fattore cruciale e per accrescere questa flessibilità occorre operare su due fronti. Da un lato, una crescita dei salari in linea con la produttività (qualunque essa sia, anche scarsa) consente di non far crescere il costo del lavoro per unità di prodotto, e quindi non perdere competitività. Dall’altro, se si legano i salari alla produttività ciò spingerebbe i lavoratori a lavorare di più e meglio, accrescendo i ritmi di lavoro, riducendo l’assenteismo, e spingendoli verso un maggiore impegno, così come viene suggerito dai modelli principale-agente del tipo pay-for-performance o altri che fanno riferimento allo schema risk-sharing. Che questi modelli, e soprattutto le loro implicazioni se non le ipotesi di partenza, spesso cozzino contro le evidenze empiriche più e meno recenti, anche delle stesse istituzioni internazionali, poco importa. Importante è che “passi” il messaggio politico-economico se non ideologico; è questo che fa la differenza, nonostante un’ampia letteratura scientifica indichi che l’innovazione nei luoghi di lavoro è il fattore microeconomico cruciale alla base della produttività, assieme al fattore altrettanto cruciale, di tipo macroeconomico, che è la crescita della domanda aggregata. Sui regimi contrattuali – contratto nazionale vs. contratto decentrato, retribuzioni reali vs. produttività – ci siamo già occupati su Sbilanciamoci.info (http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Ripensare-gli-obiettivi-e-i-metodi-della-contrattazione-1652), e in un lavoro che esamina la letteratura internazionale e mostra che, se la relazione esiste, passa non per una maggiore flessibilità, ma per una maggiore innovazione tecnologica e organizzativa (http://docente.unife.it/paolo.pini/contrattazione-produttivita-crescita-ripensare-gli-obiettivi-ed-i-metodi/contrattazione-dinamica-salariale-e-produttivita-ripensare-gli-obiettivi-ed-i-metodi-di-davide-antonioli-e-paolo-pini-gennaio-2013/view).

Un tema collegato è la flessibilità del mercato del lavoro plasmata dai regimi di protezione all’impiego, a cui spesso si fa riferimento per affermare che la scarsa produttività del lavoro è associata a norme che assicurano una eccessiva protezione all’impiego. Non di relazione causale stiamo qui discutendo, quanto di semplice associazione, in quanto questa è ciò che spesso viene richiamata per lasciare intendere che paesi con minori protezioni all’impiego, o con tutele in diminuzione, avrebbero dinamiche della produttività più sostenute. Da ciò si derivano poi implicazioni di politica economica del tipo “ridurre le protezioni all’impiego, accrescere la flessibilità del lavoro, anche e soprattutto la flessibilità delle retribuzioni, per realizzare maggiore produttività del lavoro e quindi più elevata competitività delle imprese sui mercati”.

Abbiamo condotto un semplice esercizio, perché crediamo che spesso anche i semplici fatti stilizzati, così amati dagli economisti classici e così vituperati dagli economisti post-moderni, siano talmente informativi da far vacillare anche le più indiscusse credenze, o anche le più sofisticate tecniche statistiche. A volte meglio partire dai fatti stilizzati prima di avventurarsi nelle tecniche più sofisticate. Quanto alle evidenze empiriche sofisticate o meno, rinviamo alla letteratura citata in Damiani, Pompei, Ricci (2011) (http://mpra.ub.uni-muenchen.de/29698/), oltre che ai risultati presentati da questi autori.

Utilizzando le fonti statistiche messe a disposizione dall’Oecd con il suo OECD Statistical database on-line (http://stats.oecd.org/Index.aspx?DatasetCode=EPL_OV#), abbiamo messo in relazione due variabili: a) l’indice di “Strictness of employment protection” nelle due versioni disponibili dell’indice (Epl) complessivo: version 1 (1990-2008) e version 2 (1998-2008), b) l’indice di “Labour productivity”, per il totale dell’economia (“Gdp per hours worked”), in livelli e in tassi di crescita annuali (1990-2008). Ciò al fine di rispondere alla domanda: “È vero che maggiori rigidità nel mercato del lavoro si accompagnano a minore crescita della produttività del lavoro?”.

Le tabelle ed i grafici riportati qui (http://docente.unife.it/paolo.pini/contrattazione-produttivita-crescita-ripensare-gli-obiettivi-ed-i-metodi/produttivita-e-regimi-di-protezione-all2019impiego-solo-tabelle-e-grafici/view) nell’allegato pdf documentano le variazioni dell’indice di protezione all’impiego (sull’asse verticale) e le variazioni nei livelli (o i tassi di variazione annuale) della produttività per ora lavorata (sull’asse orizzontale).

I paesi sono distinti in quattro gruppi, dal più esteso al più ristretto: tutti i paesi Ocse, i paesi europei, i paesi appartenenti all’Unione europea, i paesi membri dell’eurozona. In base alla disponibilità dei dati della versione 1 e della versione 2 dell’indice di protezione all’impiego, l’analisi è condotta per due periodi temporali, 1990-2008 per la versione 1, e 1998-2008 per la versione 2, per tutti e 4 i gruppi di paesi. Ogni tabella e ogni grafico riportano dati e scatter per le due variabili, per un totale di 16 casi, 8 dei quali relativi alle variazioni nel livello della produttività del lavoro tra anno iniziale ed anno finale, ed 8 casi per i tassi di variazione annuali medi della produttività del lavoro, evidenziando anche una possibile linea di tendenza tra le due variabili (regressione semplice).

Infine è stato condotto uno specifico esercizio per l’Italia. In questo caso abbiamo rappresentato nei grafici gli andamenti dell’indice di protezione all’impiego e della produttività (Gdp pro-capite e Gdp per ora lavorata, sia nei livelli che nei tassi di crescita, oltre che il semplice Gdp).

Con riferimento all’insieme dei paesi considerati, indipendentemente che si distingua l’insieme più ampio (Ocse), oppure quello più ristretto (eurozona), non vi è traccia di una relazione significativa e negativa tra variazione dell’indice di protezione all’impiego e dinamica (favorevole) della produttività. Nei casi nei quali una relazione emerge, essa è positiva piuttosto che negativa, ovvero a minori (maggiori) riduzioni dell’indice di protezione all’impiego corrispondono dinamiche più (meno) favorevoli della produttività del lavoro. In particolare, tale relazione positiva e significativa si presenta robusta nei casi dei paesi dell’Unione europea e dell’eurozona nel periodo 1990-2008, con riferimento alle differenze nei livelli di produttività, mentre non sussiste alcuna relazione nel periodo 1998-2008. Ancora più significativa appare la relazione se si considerano i tassi di crescita della produttività piuttosto che le differenze nei livelli e, come in precedenza, si ha perdita di significatività se il periodo considerato è più ristretto. Mentre sull’intero periodo in particolare in Europa, ove si sono concentrate le politiche di riduzione della protezione all’impiego, vi è evidenza di una significativa relazione positiva (variazioni positive dell’indice Epl sono associate a dinamiche di produttività favorevoli), negli anni dell’euro tale relazione ha perso di significato, ma mai è divenuta negativa e significativa. Semmai non esiste tout court.

Per il nostro paese vi è evidenza che, nonostante la nota scarsa dinamica della produttività del lavoro da fine anni novanta – ovvero dall’introduzione di normative che hanno progressivamente ridotto le protezioni all’impiego, ad iniziare dalla Legge Treu per passare a quella Biagi e successive – la riduzione dell’indice di protezione all’impiego si accompagna ad una riduzione della produttività del lavoro (nei tassi di crescita), oppure a una scarsa varianza, e comunque verso il basso, del Gdp pro-capite o della crescita del livello del Gdp.

In conclusione, che cosa ci raccontano i fatti stilizzati rispetto al quesito che ci siamo posti? Non emerge una conferma della relazione negativa tra andamento dell’indice di protezione all’impiego e dinamica della produttività del lavoro, per cui a una riduzione delle protezioni all’impiego non corrisponde una crescita della produttività. Semmai l’evidenza sembra opposta: i paesi che hanno maggiormente ridotto le protezioni all’impiego sono quelli che mostrano dinamiche della produttività meno favorevoli, ed è questo il caso soprattutto dei paesi europei, dove nell’ultimo decennio, e ancor prima, sono state realizzate politiche di flessibilità in entrata, favorendo forme contrattuali meno stabili, e in uscita, rendendo meno costosi e più fattibili i licenziamenti, oltre che con riduzioni di personale accompagnate da ammortizzatori sociali di durata più o meno breve.

L’Italia non fa eccezione a questa regola; anzi è uno di quei paesi dove maggiore è stata la riduzione delle protezioni all’impiego, misurate dall’indice dell’Ocse (-1,68 nel periodo 1990-2008, versione 1, in valore assoluto superiore a qualsiasi altro paese Ocse, idem nel periodo 1998-2009, con -0,68, versione 2), e dove meno favorevole è stata la dinamica della produttività del lavoro. Non è quindi nell’eccessiva rigidità del mercato del lavoro che risiede probabilmente l’origine della stagnazione, se non del declino relativo, della produttività del lavoro italiana. Anzi, si potrebbe argomentare che quelle riduzioni di protezioni all’impiego abbiano potuto disincentivare le imprese a realizzare i guadagni di produttività che nel frattempo molti altri paesi competitors dell’Italia ottenevano, col risultato che “più flessibilità” e “meno crescita della produttività” sono tra loro statisticamente associati. Lasciamo agli amanti di sofisticate elaborazioni statistiche ulteriori conferme di tale fatto stilizzato, e le relative spiegazioni. Noi ci limitiamo a segnalare che i fatti stilizzati puntano a demistificare una falsa credenza.

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui

Commenti

disuguaglianza e crescita

Un'altra relazione non verificata dai dati è la convinzione neoliberista che troppa eguaglianza possa ostacolare la produttività e, quindi, la crescita. I dati dimostrano il contrario: i paesi europei che sono cresciuti di più nel primo decennio di questo secolo, sono anche i meno disuguali, come nota l'ultimo Rapporto Annuale dell'Istat nel capitolo 4, scaricabile dalla pagina:
http://www.istat.it/it/files/2012/05/Capitolo_4.pdf

eZ Publish™ copyright © 1999-2015 eZ Systems AS