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Oltre l’euro

02/08/2011

"È altamente plausibile che, rimanendo al di fuori dell’area monetaria europea, il deterioramento sociale sarebbe stato ancora più rapido e incontrollato per il realizzarsi di uno scenario di inflazione-svalutazione esacerbata dalla pressione finanziaria internazionale"

“… il carattere mondiale dell’attuale rivoluzione liberale (…) costituisce infatti un’ulteriore prova che è in atto un processo fondamentale che detta un comune modello evolutivo per tutte le società umane, qualcosa come una storia universale che si muove in direzione della democrazia liberale (corsivo mio)”, così Fukuyama, plaudendo ai risultati sociali e politici del friedmanismo aggressivo, prospettava la fine della storia e le magnifiche condizioni dell’“ultimo uomo”.

Non sembri troppo avventata questa citazione per un tentativo di riflessione sulla domanda cruciale posta da Rossana Rossanda se “non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? E come si ripara?” che ha dato l’avvio a questa discussione su Sbilanciamoci.info. L’esigenza di avere “una visione chiara” e condivisa dello stato dell’Europa si combina nelle sue parole con il sospetto che le tensioni che oggi interessano l’area sono il frutto di una “filosofia uguale per tutti”. E proprio perché condivido questo sospetto che mi sembra una necessità ineludibile – in un momento in cui di tutto si parla tranne che delle condizioni “oggettive” che preparano il nostro futuro – guardare un po’ oltre il 2013 per capire dove va l’Europa (e l’Italia con lei). Anche se prima è, forse, opportuno chiederci dove “sta” oggi l’Europa (e ovviamente l’Italia al suo interno).

Fa bene Mario Pianta nel suo intervento ad affrontare la discussione con uno sguardo lungo ricercando le radici dell’oggi in quanto è successo un ventennio fa (1992). Condivido l’opportunità di riandare al nostro passato per ricordare i vincoli, interni ed esterni, di cui ci viene fatto ancora carico allo scopo di verificare i condizionamenti attuali “oggettivi” prima di individuare le prospettive possibili e quelle auspicabili.

È scontato ricordare che l’ultimo trentennio ha visto il sorgere, diffondersi e affermarsi di una gestione neo-conservatrice (neo-liberista) della politica che ha soppiantato, nel mondo anglosassone e quindi nel centro della politica mondiale, il precedente indirizzo keynesiano e con esso definitivamente quell’età dell’oro che era durata poco più di vent’anni. Troppo noto è l’orientamento (il Washington consensus) che ha mirato a trasformare – anche con la democrazia (liberale) gestita da militari e dittatori – le economie del Sudamerica e del Sud-est asiatico in società di mercato. Pressione culturale che ha più che lambito l’Europa occidentale e che ha messo in discussione quell’impalcatura istituzionale dei primi decenni del dopoguerra – basata sul rapporto tra big business, big labour, big state e big bank (nazionali)giudicata del tutto obsoleta nel fornire sicurezza ad ampi strati della popolazione nei confronti del futuro. Il prodotto sociale che, nel primo dopoguerra, defluiva dalle imprese produttrici alla società tramite lo stato e il sindacato, risulta rovesciato nella realtà ora affermatasi poiché sono le imprese a richiedere alla società di essere garantite dall’incertezza nei confronti del futuro con il trasferimento del relativo rischio al proprio esterno (contratti di lavoro individuali, regole pubbliche di sostegno all’intrapresa privata, privatizzazione della assicurazioni sociali ecc.) per porlo a carico dei singoli, naturalmente in maniera più gravosa per i settori, ceti, individui più deboli. Non a caso ne risulta allentato il parallelismo tra crescita economica e sviluppo sociale, che era stato garanzia di estensione delle libertà e della democrazia. Per quanto non faccia più capolino nelle dichiarazioni ufficiali dopo l’ultima crisi, il Washington consensus è ancora parte costitutiva della visione della classe dirigente “globale”.

Ho detto che il neo-liberismo ha più che lambito un’Europa che negli anni ’80 si è trovata stretta tra l’aggressività industriale giapponese e quella finanziaria statunitense. L’accettazione di una prospettiva di liberalizzazione “globale” degli scambi ha richiesto, per competere internazionalmente, di rafforzare le istituzioni economiche europee accelerando la costruzione del mercato interno per una più accentuata integrazione economica (la società e la politica risultando non prioritarie nella cultura politica del periodo). Per quanto riguarda i rapporti all’interno dell’Europa, la costruzione di un’area di libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali si fondava sulla fiducia che la maggiore concorrenza fra i vari sistemi nazionali su un mercato europeo meno frammentato sarebbe stato il fattore preminente di un rilancio produttivo e, in seguito, di un rinnovato benessere per l’intera società europea. Naturalmente, la ristrutturazione del mercato europeo richiedeva la ristrutturazione degli organi della politica economica, questione che si è espressa nel passaggio della politica monetaria nelle mani di un’Autorità sovranazionale e nell’assoggettamento dell’azione pubblica nazionale ai vincoli del Patto per la stabilità e crescita. In particolare, la moneta unica garantiva, per le economie che l’accettavano, più convenienti condizioni finanziarie nel breve periodo in quanto eliminava il rischio di cambio e, con l’abbattimento delle attese inflazionistiche, permetteva la riduzione dei tassi d’interesse. Tuttavia essa costituiva, con riferimento al più lungo periodo, una pressione per l’omologazione di economie profondamente asimmetriche dal punto di vista economico e istituzionale: non potendo più competere attraverso modificazioni delle relazioni nominali, esse avrebbero dovuto migliorare la loro competitività reale ai livelli delle economie più dinamiche.

Un tale condizionamento è apparso evidente nell’Italia del 1992 quando gli squilibri accumulati nel decennio precedente hanno reso la situazione insostenibile con l’appartenenza allo Sme. Per quanto le pesanti finanziarie e la drastica svalutazione della lira abbiano allentato il duplice condizionamento di un crescente debito pubblico e di una decrescente competitività internazionale, la situazione politica ed economica di fondo non risulta risanata quando il governo Prodi alla fine degli anni ’90 prende la decisione di partecipare fin dall’inizio all’Unione economica e monetaria. Attraverso l’euro si vuole disciplinare (come del resto era stato fatto agli inizi degli anni ’80 con il “divorzio” della Banca d’Italia dal Tesoro) la società e la politica italiana per realizzare la necessaria trasformazione delle modalità di governo dell’economia: la rinuncia alla sovranità monetaria avrebbe imposto alle imprese innovazioni reali non potendo più contare su svalutazioni competitive della lira; al settore pubblico una determinante pressione esterna per contenere il deficit e ridimensionare il debito pubblico; ai sindacati la necessità di tener conto nelle loro richieste salariale dei più stringenti vincoli nominali posti dal contesto monetario internazionale. Si è trattato di una scelta che, come si è detto, ha garantito per un decennio condizioni finanziarie e valutarie più favorevoli, che peraltro non sono state sfruttate per avviare la auspicata trasformazione strutturale degli attori di politica economica. La partecipazione all’Unione monetaria europea non accompagnata da una crescita della competitività dell’intero sistema è una condizione sufficiente a indurre il declino del paese e, nel contempo, la condotta monetaria decisamente antinflazionistica per tenere sotto controllo il conflitto distributivo ha inciso, come reclamato dalle imprese, sul sistema dei diritti dei lavoratori e delle garanzie di welfare dei cittadini, ritenuti i principali freni del rilancio produttivo.

La grande scommessa dell’euro si può sintetizzare nella convinzione che il vincolo della moneta unica avrebbe costretto la classe dirigente, economica e politica, ad avviare una stagione di riforme istituzionali per dare una risposta positiva agli squilibri da lungo tempo accumulati, favorendo una politica economica di ridefinizione dell’apparato produttivo e una politica sociale di contenimento degli effetti che le strutture economiche in gestazione avrebbero avuto sui diritti di cittadinanza. La storia dimostrerà l’irrealismo di una tale prospettiva, caratterizzandosi la politica economica nei successivi governi Berlusconi per l’attesa di uno spontaneo miracolo economico che sarebbe seguito alle riforme del mercato del lavoro e per una politica sociale consapevolmente indifferente al ristagno dell’occupazione, al suo deterioramento qualitativo, alle crescenti disuguaglianze all’interno del corpo sociale.

Due diverse contrapposte visioni del rapporto tra politica economica e mercato che esprime la contrapposizione altrettanto netta presente nel corpo politico-elettorale, hanno fatto prevalere, nell’ultimo decennio, governi orientati alla mera accettazione degli equilibri sanciti dal mercato (nemmeno concorrenziale). Il lungo prevalere di una classe dirigente, politica e non, nel cui orizzonte manca ogni prospettiva né per assistere l’apparato produttivo nel fronteggiare le più stingenti condizioni di competitività internazionale, né per rimodellare lo stato sociale in coerenza con le regole imposte dall’appartenenza alla nuova Europa, induce a ritenere che, per la comprensione dello stato attuale, sia del tutto irrilevante la questione del ruolo che ha avuto a questo proposito la nostra partecipazione all’euro. È altamente plausibile che, rimanendo al di fuori dell’area monetaria europea, il deterioramento sociale sarebbe stato ancora più rapido e incontrollato per il realizzarsi di uno scenario di inflazione-svalutazione esacerbata dalla pressione finanziaria internazionale.

La pressione finanziaria internazionale che si fa viva ora sfrutta appunto l’inconcludenza (del nostro paese, ma anche di altri paesi, quali per il momento quelli del Sud Europa) nel ricostruire un solido assetto economico-sociale. La fragilità economica (scarsa crescita), politica (aumentato peso dell’indebitamento pubblico) e sociale (crescenti disuguaglianze) è l’elemento che eccita la speculazione internazionale. La finanza internazionale, e quella delle agenzie di rating che ne orientano le attese, nella ricerca di ricostituire i propri bilanci depauperatasi nella crisi, scommettono che alcuni paesi con un alto rapporto debito/pil non saranno in grado nei prossimi anni di soddisfare gli impegni finanziari assunti. Anticipare le difficoltà di gestione del debito pubblico implica la caduta dei corsi dei titoli pubblici e il conseguente aumento del tasso di interesse per incorporare l’aumentato premio per il rischio. Si noti che con queste operazioni il sistema finanziario non attiva alcuna concessione di credito, necessaria a sostenere una domanda poco dinamica, ma opera per una redistribuzione della ricchezza esistente tra chi mantiene in portafoglio i titoli soggetti a speculazione e chi ha anticipato la svalutazione dei loro prezzi. Se poi qualche banca, come quelle tedesche e francesi nel caso greco, mantiene i titoli svalutati in portafoglio, saranno le loro azioni a essere soggette a speculazione.

Tra gli effetti di questo normale comportamento finanziario va richiamata l’attenzione su uno in particolare. È noto che, aumentando il premio per il rischio sui titoli dei paesi che si presume avranno difficoltà a rispettare in futuro gli impegni assunti, si impone forzatamente il risanamento dei loro conti in tempi più brevi di quelli fisiologicamente auspicabili. Il disciplinamento da parte del mercato (finanziario) accentua in questo modo le difficoltà di finanziamento corrente del debitore pubblico e aumenta l’onere sul debito contratto per un periodo di tempo più lungo, anche per effetto dell’autorealizzarsi delle aspettative iniziali. Per il risanamento dei bilanci pubblici si deve ricorrere al contributo di soggetti non-possessori finanziari (come è evidente dalla nostra ultima finanziaria) con una riduzione dello spazio dell’intervento pubblico, divenendo essenziali tagli incisivi della spesa in quanto sono esclusi aumenti della pressione fiscale (sui redditi più elevati). È un contesto in cui la valutazione di insostenibilità dei conti pubblici si estende a diverse realtà statuali tanto da apparire frequente, nella comunicazione di massa, la possibilità di un “fallimento dello stato”. Lungi dall’essere un termine puramente evocativo delle difficoltà finanziarie dell’ente pubblico, esso si presenta – come dimostra il dibattito corrente negli Stati uniti – come una concreta possibilità normativa di rilevo costituzionale: gli stati possono (essere lasciati) fallire e pertanto essi debbano essere assoggettati a procedure di diritto (quasi) commerciale, in modo da permetter loro di concordare la rinegoziazione di tutti i “contratti” in essere con le diverse loro controparti (dipendenti pubblici, cittadini, pensionati). L’ente pubblico perderebbe la natura di garante collettivo del futuro per risultare omologo ai privati con i quali sarebbe in concorrenza per i suoi servizi. Una trasformazione radicale dell’attuale struttura istituzionale che costituirebbe un passo decisivo verso quella democrazia (liberale) che, nel presagio di Fukuyama, dovrebbe alla fine riguardare tutte le società in quanto regolate esclusivamente da rapporti che emergono dagli scambi sul mercato.

Se questo è il contesto in cui si trova ora l’Europa, e con lei l’Italia, è molto difficile dire dove essa possa andare. L’obiettivo prioritario sarebbe di riacquistare una effettiva autonomia nella gestione del proprio futuro e ciò significa potersi sottrarre alla soggezione della finanza internazionale. Non so se l’Esfs è stato pensato come un primo passo in questa difficile (perché altamente conflittuale) direzione, ma è certamente la ridefinizione dell’assetto finanziario internazionale l’aspetto rilevante affinché l’Europa possa avviare la costruzione di un assetto di politica economica che permetta di difendere il proprio modello economico e sociale, garantendo nel lungo periodo condizioni di convivenza tra le diverse aree interne per quanto caratterizzate da asimmetrie e da fragilità.

Ma è a questo proposito che si manifesta una difficoltà dirimente, l’esistenza nel corpo sociale europeo di una contrapposizione – tra i differenti stati e all’interno di ciascuno di essi – di visioni radicalmente alternative sul modello di società che si intende realizzare. È tutt’altro che maggioritaria una prospettiva diversa dalla “società di mercato” proposta-imposta finora nei fatti. È qui che si coglie la forza culturale neoliberista, di quel friedmanismo aggressivo che ha prodotto i Chicago boys in missione nel mondo, che, anche per aver contagiato ampi settori di (centro)sinistra, ha reso e rende i diversi “socialismi” occidentali – da Obama all’economia sociale di mercato e a prospettive più radicali – incapaci di rappresentare a livello di cultura di massa una contrapposta proposta convincente di società intorno alla quale realizzare un’ampia aggregazione sociale.

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Commenti

Governi "con le palle"

E’ vero che la classe politica nell’uno e nell’altro caso sarebbe inadeguata. Supponiamo che invece sia adeguata, secondo lei con l’attuale situazione, senza uscire dall’euro, come affronterebbe la crisi economica e del debito un governo “con le palle”? Considerando che rimane uguale il debito pubblico e i parametri di Maastricht? Considerando inoltre che dalla lotta all’evasione (argomento tanto di moda nella “sinistra” italiana) non si riuscirebbe a recuperare neanche un decimo dell’attuale debito? Considerando le posizioni rigide della Germania?
La ringrazio per l’attenzione dedicata ai miei commenti.
Cordiali saluti.

d'accordo, ma ...

Non ho difficoltà a riconoscere con Paola che la “grande scommessa” è stata il frutto di una comune visione (di una contrattazione?) dei leader italiani con quegli degli altri paesi europei. Con due piccole qualificazioni. La prima è che non credo essa sia una razionalizzazione ex-post poiché si ripete a distanza di dieci anni quasi con i medesimi attori e con le medesime valutazioni. Mi ricordo il dibattito (e lo scontro istituzionale) che ha portato agli inizi degli anni ottante al divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro proprio perché l’indisciplina di quest’ultimo (governi Andreotti-Craxi) non garantiva un serio coordinamento tra politica monetaria e fiscale. Ma anche la decisione di Prodi di fine anni novanta non è immune dall’esperienza del primo Berlusconi i cui conti fuori linea avevano inciso sulla credibilità finanziaria del paese con conseguente pesante crisi finanziaria.
Il punto che non posso trascurare è che, in questi trent’anni di lunga crisi politica, la classe dirigente italiana (pubblica e privata) non ha fatto molto per affrontare i problemi strutturali del nostro paese – il complesso trade-off tra competitività, conti pubblici e welfare – lasciando che, in attesa di un “miracolo economico” dietro la porta a patto di non fare nulla - che economia e società trovassero da sole i propri equilibri (al ribasso).
Questa mio “pregiudizio” può forse spiegare perché non sono così ottimista come lo è Marco sull’uscita dall’euro. In effetti, anche per lui il passaggio ai cambi flessibili richieda una “buona politica” quale condizione necessaria per uscirne bene, e questo non tanto in termini macroeconomici di equilibrio bilancia dei pagamenti e di occupazione ma di distribuzione e redistribuzione dei redditi (tenuto conto che anche per Keynes l’inflazione copre spesso processi redistributivi a sfavore dei salariati e di percettori di redditi bassi). Il mio dubbio è comunque che nel breve-medio periodo l’attuale classe dirigente (pubblica e privata) non sia stata e non sia in grado di dare le garanzie che la situazione richiederebbe. La questione cruciale – sempre nella mia interpretazione – è proprio quella di far emergere una posizione di politica economica capace di aggregare la nostra realtà frammentata in diversi e contrastanti interessi intorno a una visione credibile di crescita economica e sociale equilibrata. E, forse, nel mentre si tenta di ottenere qualche risultato da questo sforzo di non breve periodo, è necessario poter contare sull’ombrello europeo.

precisazione alla precisazione a Marco

Grazie per la risposta, anche se rimango convinto, con i limiti delle mie conoscenze in macro economia, che la soluzione migliore attualmente per gli stati europei soprannominati PIIGS è quella di uscire dall’unione monetaria. Sarà per la mai vicinanza alle idee politiche del socialismo marxista ed economiche a quelle ortodosse di J.M Keynes. Come diceva quest’ultimo infatti, una situazione di fluttuazione delle valute gestita dai governi, soprattutto in condizioni di bilance commerciali in deficit, aiuta gli indici macroeconomici. Il cambio fisso, come abbiamo visto in altre esperienze, come quella argentina, ha portato solo a guai finanziari. Concordo con la sua analisi, ma solo nel breve periodo, quando dice “infatti una drastica svalutazione della "nuova" lira che, non dovendosi tradurre in una altrettanto pesante inflazione interna, dovrebbe comportare una forte compressione dei costi interni (del lavoro e di quelli indiretti del settore pubblico”. Su questo punto mi permetto di dissentire chiarendo che una pesante svalutazione della lira come conseguenze immediate avrebbe l’aumento vertiginoso dei prezzi delle importazioni di beni di consumo e, per una economia che vuole sviluppare l’apparato industriale, soprattutto delle materie prime. Io penso che con una buona politica economica interventista tesa allo sviluppo degli investimenti e dei consumi interni, associato all’aumento delle esportazioni, le conseguenze della svalutazione sarebbero solo di breve termine, e sarebbe neutralizzato fino al raggiungimento del pareggio della bilancia commerciale. Inoltre, la riacquisizione della sovranità monetaria e del reddito da signoraggio, permetterebbe al nuovo MEF di attuare delle politiche di aumento dell’occupazione e dei salari grazie all’aumentata capacità di spesa pubblica.
Riguardo all’affermazione “Solo ciò permetterebbe un rilancio della competitività (di prezzo), semprechè l'apparato industriale abbia la capacità di cogliere l'opportunità. Una tale prospettiva (di medio-lungo periodo) dovrebbe risultare peraltro estremamente credibile dalla finanza internazionale…”
A mio parere l’apparato industriale coglierebbe l’opportunità per il semplice motivo che sarebbe lo Stato ad aumentare gli investimenti interni, anche nelle condizioni in cui l’efficienza marginale del capitale sia inferiore ai tassi di interesse (tra l’altro questi ultimi fissabili non dal mercato o dalla banche private, ma dal MEF insieme ad una banca centrale pubblica). Inoltre, tale prospettiva sarebbe o non sarebbe credibile per la finanza internazionale a mio parere non dovrebbe essere un problema, considerato che non è “la finanza internazionale” a dover decidere le sorti di un paese, quando questa non è un soggetto politico che ha come scopo l’interesse della collettività, ma quello del profitto finanziario e della speculazione basata su strumenti speculativi da mettere al bando (credit default swaps, vendite allo scoperto, ecc.).
In conclusione, credo che “i canoni imposti dalla finanza” come li chiama lei, non sono i canoni che dovrebbe rispettare un soggetto governativo nelle scelte di politica economica. Il debito pubblico non è un problema. Il problema è capire se vogliamo ancora rimanere in Europa per sostenere una economia mercantilista tedesca che prima o poi taglierà il ramo secco dell’Italia quando la domanda interna sarà così bassa che alla Germania converrà cercare nuovi mercati di esportazione. Come diceva Keynes, meglio la piena occupazione in condizioni di inflazione, che una società sottoccupata ma in perenne deflazione.

qualche domanda

Anch'io ho molto apprezzato il contributo di Gnesutta, in particolare per la definizione così netta e illuminante del senso dei cambiamenti intervenuti (4 capoverso) e di quelli oggi in corso (10 capoverso), e la descrizione chiara dei processi e meccanismi che ci avrebbero portato fin qui. Non sono sicura però di avere capito tutto. In particolare, riguardo all'Italia, qual è secondo Gnesutta l'imputato principale: l'irrealismo della "grande scommessa dell'euro" (la convinzione che il vincolo della moneta unica avrebbe costretto ecc. ecc.; 7 capoverso) presa per sè, o il fatto che le sorti di questa scommessa siano cadute nelle mani di Belusconi? In effetti, ho qualche dubbio sulla tesi stessa della scommessa, sull'idea cioè che i vincoli monetari di Sme, Maastricht, ecc. siano stati adottati con la precisa intenzione di disciplinare la società e la politica italiane nelle direzioni descritte dal testo. La mia impressione è che questa idea possa suonare plausibile soltanto finchè si dimenticano i rapporti di forza tra i diversi paesi europei e le loro relazioni contrattuali. E' suicida per un paese rivolgersi ad altri più forti per legarsi o disciplinarsi, ma saggio, forse, contrattare con loro per una maggiore integrazione economica. Con quali modalità lo si è deciso appunto contrattando. (Ossia, io non penso che i leader italiani per esempio degli anni '80 pensassero che la maggiore concorrenza tra i vari sistemi nazionali su un mercato europeo sarebbe stata il sicuro motore di un rilancio produttivo; penso al contrario che avessero paura di questa maggiore concorrenza; che però non abbiano visto alternative, che abbiano quindi solo sperato che potesse funzionare in quel modo, e visto forse un vantaggio in qualche effetto sicuro di quei processi, per esempio le difficoltà dei sindacati.) Ma non voglio dire che la tesi dei vincoli all'autodisciplina sia del tutto fuori luogo. La mia idea è che la si possa considerare come una sorta di razionalizzazione ex post, sostenuta dalla teoria economica, attraverso la quale i leader italiani (insieme ai leader di diversi altri paesi) hanno finito con il vedere nei costi interni imposti dai vincoli monetari istituiti un beneficio - l'opportunità appunto di importare disciplina. Ed è senz'altro possibile che, con il passare del tempo, questo nuovo modo di vedere le cose abbia contribuito a dare forma ai risultati stessi delle contrattazioni. Forse tutto questo aggiunge poco, ma potrebbe aiutare a capire almeno uno dei modi in cui la cultura neoliberista è riuscita ad imporsi.

precisazione a Marco

Alla domanda di Marco sull'opportunità che un'uscita dall'euro potrebbe costituire una soluzione all'attuale crisi, ritengo che, a parte l'ulteriore emerginazione che ne deriverebbe alla politica europea dell'Italia (già a livelli risibili), si tratterebbe di uno shock con effetti di grande incertezza e l'incertezza non è cosa buona per l'economia; dubito che una classe industriale e politica che non ha saputo gestire una situazione più normale, sia attrezzata per un contesto straordinariamente complesso quale quello che si verrebbe a creare. Più spcificamente, penso che la maggior libertà valutaria che avrebbe la politica economica nel percorso prospettato da Marco (crecita e stabilità sociale con il rilancio della competitività e con una politica fiscale più incisiva) non si concili con la sua conclusione che la crisi sociale sarebbe limitata a una fase transitoria di breve periodo. Una tale prospettiva richiederebbe infatti una drastica svalutazione della "nuova" lira che, non dovendosi tradurre in una altrettanto pesante inflazione interna, dovrebbe comportare una forte compressione dei costi interni (del lavoro e di quelli indiretti del settore pubblico). Solo ciò permetterebbe un rilancio della competitività (di prezzo), semprechè l'apparato industriale abbia la capacità di cogliere l'opportunità. Una tale prospettiva (di medio-lungo periodo) dovrebbe risultare peraltro estremamente credibile dalla finanza internazionale perchè questa non sconti al presente le presunte difficoltà future a realizzare la ristrutturazione dell'economia (e della società). Attese inflazionistiche e presumibili difficoltà del settore pubblico sarebbero ampiamente (sovra)anticipati nell'immediato con conseguente crescita dei tassi d'interesse sui debiti privati e pubblici e realtiva pressione negativa sugli investimenti e sui conti pubblici. La necessità di rispettare i canoni imposti dalla finanza si tradurrebbe in un ulteriore appesantimento delle condizioni sociali. Entro questi vincoli, mi sembra difficile che un ritorno alla lira possa garantire un contesto soddisfacente di stabilità sociale; è su questa base che, con ogni cautela del caso, ritengo che l'attuale stato delle cose non sia tanto un portato dell'euro ma di qualcosa che gli sta "oltre", ovvero la capacità della politica industriale privata e della politica economica pubblica di prospettare e gestire un percorso in grado di conciliare crescita economica e stabilità finanziaria compatibile con l'obiettivo di un adeguato livello di sostenibilità sociale.

euro e celebrazioni storiche

A proposito dell'uscita dall'euro e in occasione delle celebrazioni dell'unita italiana mi sono venute in mente le seguenti sciocchezze:
supponiamo che l'unità italiana sia stata una conquista militare.Essa ha reso possibile (accumulazioe primitiva) l'inizio 'della industrializzazione del nord attraverso la predazione delle ricchezze del sud.La faccenda è avvenuta tramite cooptazione
di gran parte della classe dirigente del sud ( comprata )
Salto della quaglia ai giorni nostri : l'euro serve essenzialmente alla germania per deindustrializzare l'europa del sud e trasformarla nel mercato di sbocco delle sue merci. Per avere un mercato occorrono dei compratori. Per cui si compra gran parte della sua classe dirigente. La quale peraltro non disdegna tale cosa. Infatti piccolo è bello ma sopratutto serve a eliminare l'antagonismo sociale e a integrarsi nel sistema tedesco. Chi a detto che l'accumulazione primitiva sia effettivamente primitiva?. Naturalmente queste sono fetecchie. Infatti se non lo fossero ci aspetterebbero una sacco di belle cose. O no?l

domanda

Vorrei chiedere al prof. Gnesutta perché un’uscita dall’unione monetaria e il riacquisto della sovranità monetaria sarebbe l’ipotesi peggiore delle altre. Io credo che alta inflazione e svalutazione della moneta, potrebbe portare a crisi sociali per un breve periodo iniziale, ma la spinta che ne deriva dall’intervento dello Stato con il sostenimento dell’economia produrrebbe un aumento della domanda interna tale da neutralizzare o comunque diminuire l’effetto inflattivo. La svalutazione poi migliorerebbe il saldo della bilancia commerciale.

COMPLIMENTI A GNESUTTA

E' la cosa migliore che ho letto sulla crisi economica italiana e l'attuale tempesta finanziaria. Accidenti. Grazie prof. Gnesutta

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