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Lezioni da riscrivere per l'economia

06/12/2011

La crisi non ha prodotto un cambiamento della didattica nelle università. Noi studenti sentiamo ripetere le stesse lezioni come se nulla fosse accaduto. È l’ora di cambiare registro. O cambiare i maestri?

Il 2 novembre, alcuni studenti di Harvard hanno deciso di non seguire la lezione del corso di Introduzione all’Economia del professor Mankiw, ex consigliere economico di Bush, oggi consulente di Mitt Romney. La protesta, che alcuni hanno etichettato come ideologica, pone in realtà una serie di interrogativi essenziali su cui studenti e docenti dovrebbero interrogarsi. Nella lettera aperta rivolta al professor Mankiw, gli studenti “criticano fortemente il metodo di studio del corso, basato su un punto di vista sull’economia che favorisce il perpetuarsi delle disuguaglianze economiche nella nostra società” e lamentano la totale assenza di confronto tra le diverse teorie economiche. Essi identificano due problematiche tra loro connesse: da una parte l’influenza e la responsabilità che un certo approccio all’economia ha rivestito nella costruzione delle nostre società, nella scelta delle politiche economiche adottate dalle grandi istituzioni internazionali (composte spesso da ex studenti della prestigiosa università) e nel dibattito attuale sulle misure necessarie per uscire dalla crisi; dall’altra, una questione più scientifica e didattica, che interroga il modo in cui l’economia viene insegnata nelle università ai giovani studenti.

Già con lo scoppio della crisi americana si era sviluppato un movimento che aveva l’obiettivo di individuare i testi economici “tossici”, poiché basati su false convinzioni e su una visione limitata dell’economia. Oggi sono diversi i siti che riprendono questi temi, come il Kickitover.org o il sito Econ4 (1) e molti economisti hanno letto, nella crisi economica, anche una deriva della teoria che ha dominato gli ultimi 30 anni. (2) Se è vero allora che le ipotesi e i presupposti logici su cui la teoria economica dominante si basa sono oggi messi in discussione dalla realtà dei fatti, non possiamo certo dire che stia avvenendo altrettanto all’interno delle università, in particolare nelle facoltà di economia.

Se osserviamo i piani di studio dei corsi triennali di scienze economiche, ci appaiono immediatamente alcune criticità. In molti percorsi formativi, per esempio, il corso di storia economica è spesso facoltativo. Ciò significa che uno studente potrebbe facilmente laurearsi in economia pur ignorando completamente gli eventi che hanno portato alla crisi del 1929 e le sue conseguenze; potrebbe aver studiato i vari regimi di cambio, tra cui il regime di “gold exchange standard” nel corso di economia internazionale, senza sapere cosa abbia rappresentato storicamente Bretton Woods. Sul fronte della storia del pensiero economico, la situazione è di gran lunga peggiore. Manca quasi ovunque un corso obbligatorio e, laddove previsto, esso difficilmente fornisce una visione di ampio respiro: nella maggior parte dei casi, Marx è vittima di un’azione di rimozione collettiva, simile ad un trauma o ad un tabù di cui è meglio non parlare; i pochi professori che si richiamano a teorie marxiste difficilmente rendono pubbliche le loro posizioni e se lo fanno diventano dei veri e propri outsider, fantasmi accademici. Di Keynes si studia per lo più il modello IS-LM di Hicks e la successiva sintesi-neoclassica, quel “keynesismo bastardo“ che secondo la definizione di Joan Robinson tradiva le idee originarie del maestro. Delle teorie sull’instabilità del capitalismo di Minsky, che pure potrebbero essere di grande interesse oggi, non c’è traccia. In generale, gli studenti di economia restano spesso all’oscuro dell’esistenza di teorie economiche eterodosse e non studiano i loro maggiori esponenti, come Sraffa.

Si potrebbe obiettare che queste teorie presentano una difficoltà di comprensione maggiore e che risulta quindi necessaria una formazione preliminare adeguata per poter affrontare alcuni aspetti critici; oppure si potrebbe replicare che nei corsi introduttivi non è didatticamente sostenibile offrire una visione globale e contrastante dell’economia. Di fatto, come studentessa, mi sembra decisamente più pericoloso offrire allo studente una visione “edulcorata” e “pacificata” dell’economia. Lo studente del primo anno, infatti, vive una vera e propria “illuminazione”: egli si avvicina all’economia con una certa preoccupazione, consapevole della complessità della materia, dati i suoi profondi legami con l’analisi storica, sociale e politica. Invece, al corso introduttivo di economia, la scoperta! Tutto è molto più semplice di quanto egli credesse: nei primi modelli che studia si parla di concorrenza perfetta, non ci sono lavoratori o imprese ma semplici operatori economici, razionali e dotati di perfetta informazione, capaci di scambiare beni facendo esclusivamente riferimento al prezzo che convergerà naturalmente all’equilibrio, nel punto esatto in cui domanda e offerta si “incontrano”. In questa interpretazione dei mercati, lo studente, affascinato e confortato dalla razionalità dell’“homo oeconomicus”, si convince che l’unico reale ostacolo che si pone innanzi a lui sia rappresentato dalla risoluzione di qualche equazione differenziale e di qualche integrale, dal calcolo di una varianza, ma di certo non dalle particolarità del mercato del lavoro, dai processi di distribuzione del reddito o da mitologici conflitti (di classe?) tra anonimi operatori economici. Ovviamente, man mano che lo studio avanza, lo studente si accorge che la realtà è molto diversa da quanto inizialmente aveva creduto e imparato, anche se nel lungo periodo è certo che la domanda e l’offerta finiranno per incontrarsi di nuovo nel punto di equilibrio. Ma non è detto che egli davvero voglia o sia messo in condizione di approfondire le problematicità della materia economica. Il punto è proprio questo! All’inizio viene richiesto allo studente uno sforzo estremo di semplificazione dell’analisi economica al fine, si sostiene, di fornire gli strumenti analitici necessari per comprendere la realtà; ma non è assolutamente detto che a fronte di questa semplificazione segua poi un’effettiva analisi problematica dei fenomeni economici, aggravata dalla scarsa attenzione rivolta alle differenti teorie e agli approcci critici e dalla assenza di una formazione storico-economica. In ogni caso, proprio nel momento in cui lo studente è maggiormente ricettivo e curioso, cioè all’inizio della sua carriera universitaria, questi viene spinto a leggere la realtà economica in maniera limitata, auto-referenziale, sulla base di quella che Bourdieu definì “un’astrazione originaria, che consiste nel dissociare una particolare categoria di pratiche, o una particolare dimensione di ogni pratica, dall’ordine sociale, nel quale ogni pratica sociale è immersa” (3). Sarebbe invece molto più stimolante offrire una visione quanto più ampia possibile dell’economia, persino conflittuale, che tenga anche conto della discussione tra le diverse teorie e che sia basata su una certa interdisciplinarietà. È come se dopo essersi premurati di spegnere un fuoco (la curiosità dello studente e il suo spirito critico), bagnando tutta la legna si pretendesse di accendere un falò con un fiammifero. In alcuni casi riesce, in altri no. Una grossa responsabilità ricade sui docenti economisti e sulle loro modalità di insegnamento e ricerca. Sylos Labini aveva evidenziato questo aspetto affermando che: “una frazione crescente di coloro che si presentano come economisti tende a trascurare l’oggetto sociale della disciplina per concentrare tutto il proprio interesse nello studio di strumenti analitici più raffinati.” (4) Nel contesto attuale, è allora necessario ripensare il ruolo sociale che l’economista svolge all’interno di una società e le modalità di insegnamento dell’economia che oggi appaiono molto più ideologiche di quanto si voglia ammettere, proprio perché tendono ad escludere visioni critiche ed alternative. Come ricordava Federico Caffè: “il potere degli interessi costituiti è assai esagerato in confronto con la progressiva estensione delle idee”. (5)

Su questi temi, si è comunque avviato un dibattito. Alcuni esempi sono il convegno nel 2010 “The global crisis” in cui si è discusso di interpretazioni alternative della crisi (6) o il “Manifesto per la libertà del pensiero economico” (7) che sottolinea “l’urgenza di aprire un ampio,libero e paritetico confronto tra le diverse scuole di pensiero economico”. Tutto ciò però non è sufficiente: è necessario uno sforzo d’analisi maggiore ed una condivisione capillare di tali temi, poiché il futuro che ci attende alla fine di questa crisi dipende dalla capacità di noi tutti, studenti, cittadini, lavoratori e movimenti sociali, di ripensare un nuovo modello di sviluppo basato su diversi rapporti di forza e di elaborare una discussione concreta su cosa, come e quanto produrre, imponendo questi temi all’agenda politica. Per fare ciò è necessario un nuovo linguaggio che sia “capace di esprimere quella che oggi è la nostra effettiva mancanza di libertà” offuscata dalle infinite e vacue libertà di consumo che ci vengono continuamente offerte e dall’“illusione della democrazia” occidentale in cui viviamo. Così, un nuovo punto di vista potrebbe nascere a partire da una rivoluzione della didattica all’interno delle nostre università, attraverso un insegnamento che provi ad indagare la realtà economica nella sua complessità e nelle sue differenti implicazioni sociali, che sappia alimentare con ardore lo spirito critico degli studenti per riscrivere con quell’inchiostro rosso, di cui Zizek parlava agli occupanti di Wall Street, lo stato presente delle cose. (8)

 

(1) I due siti promuovono entrambi un cambiamento radicale nell’insegnamento delle materie economiche.

(2) L’economista Joseph Stiglitz, per esempio, ha parlato di una crisi ideologica (www.project-syndicate.org)

(3) Pierre Bourdieu, Le strutture sociali dell’economia, Asterios 2004

(4) Repubblica, 30 settembre 1988

(5) Federico Caffè (1982) La solitudine del riformista, Il manifesto

(6) E. Brancaccio and G. Fontana (2011). The Global Economic Crisis. Routledge, London

(7) www.syloslabini.info

(8) www.carta.org

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Commenti

Postilla

Dopo aver tentato di chiarire al prof. Cesaratto alcuni aspetti del mio commento, vorrei tornare all'argomento.
Se per "fare economia" si intende la costruzione di modelli slegati dalla realtà e dotati al più di un valore predittivo (Friedman), se quando la ricerca empirica smentisce alcuni assunti ci si difende col paradosso del giocatore di biliardo (ancora Friedman), allora c'è posto per qualsiasi modellistica, per qualsiasi teoria.
Il problema dell'aderenza alla realtà viene dopo, non durante l'elaborazione. Quel che è peggio, se si esige capacità esplicativa oltre che predittiva, se cioè si vuole che la teoria non sia solo capace di prevedere il futuro (un futuro che, per definizione, è ancora da venire), ma anche di spiegare il passato e il presente, l'approccio à la Friedman lascia ampio spazio per teorie e modelli ad hoc, cioè "accroccati" con scarso rigore solo come la spiegazione preferita di quello che è successo e sta succedendo. Una spiegazione preferita, ovviamente, solo per motivi ideologici.
Non stupisce, quindi, che di teorie economiche alternative ce ne siano molte, al punto che la voce "Heterodox economics" della Wikipedia inglese ne elenca 26! Ventisei!
Se questo succede, è perché anche le teorie alternative - in modo più o meno esplicito, più o meno consapevole - condividono l'impostazione metodologica della teoria dominante: la libertà assoluta di elaborare modelli slegati dalla realtà (contro le esortazioni di Haavelmo [1], che mi permetto di invitare a leggere).
In questa situazione, come si può pensare di modificare i programmi per inserirvi anche, o in toto, teorie "alternative"?
Quali? Come scegliere tra le ventisei?
Esito a dirlo, perché il prof. Cesaratto potrebbe verdervi un accenno polemico, ma questo potrebbe anche tradursi in programmi incentrati su quei Latouche e Rifkin che (giustamente) lui mostra di apprezzare ben poco.

E allora c'è una sola soluzione: creare un nuovo modo di "fare economia", dare nuovo fondamento epistemologico alla teoria economica.
Nel frattempo, meglio non trascurare lo studio della teoria dominante. Non fosse altro che perché, come l'inglese, è "lingua franca". Uno studente che completasse i suo studi dopo aver letto solo... Latouche e Rifkin non piacerebbe nemmeno al prof. Cesaratto.
Nell'attesa di una rifondazione del "fare economia", mi permetto di giudicare molto saggio e molto intelligente l'esempio offerto da Emiliano Brancaccio: il suo corso di macroeconomia del 2009 era basato sul testo di Blanchard, accompagnato però da sue "Dispense integrative" e dal suo "Anti-Blanchard" [2]. Così si deve fare, ora, evitando incerte fughe in avanti in non si sa bene quale direzione.

------------------------------------
[1] Haavelmo, «The Probability Approach in Econometrics», Econometrica, 1944, vol. 12, Supplement, http://www.jstor.org/stable/1906935;
Haavelmo, «The Role of the Econometrician in the Advancement of Economic Theory», Econometrica, 1958, vol. 26, n. 3, pp. 351-357, http://www.jstor.org/stable/1907616
[2] http://www.emilianobrancaccio.it/wp-content/uploads/2009/04/programma-macro-brancaccio-da-aprile-09.doc

Non ci siamo proprio capiti

Caro prof. Cesaratto, forse ha letto troppo in fretta, forse quanto ho scritto le rievoca troppo cose (come Latouche o Rifkin) da cui mi sento lontanissimo. Purtroppo ciò succede spesso nella comunicazione telematica.

«La relazione fra teorie e realtà è complicatissima e nemmeno mi cimento a entrare in una discussione che rischia di essere endless. Polini “spara” su tutti in maniera ingiustificata». "Sparo" su tutti nel senso che la relazione tra teoria e realtà, come posta da Haavelmo, mi pare ancora un problema aperto; per questo, solo per questo, parlarne sarebbe «endless». Sembra che lei sia sentito "sparato", e posso capirlo, ma se esiste una risposta condivisa sulla relazione tra teoria e realtà in economia, io la ignoro. Desidero, ovviamente, una risposta condivisa soprattutto dagli economisti "alternativi", perché va da sé che non si può pensare di parlare della realtà se non si ha un'idea precisa della relazione tra teorie e realtà. Se potesse/volesse indicarmela lei, gliene sarei molto grato (basterebbe qualche link).

«non è affatto vero che la loro teoria [quella dei neoclassici] sia slegata alla realtà, semplicemente la interpreta male e ha problemi analitici interni (teoria del capitale)»
Scusi, ma cosa vuol dire «la interpreta male»? Il problema mi pare che con l'equilibrio economico generale si sia provato a trasferire in economia l'approccio che ha avuto fortuna nella fisica: un metodo assiomatico in grado di elaborare modelli del tutto astratti (nel senso: basati sull'analogia matematica [1]), utili solo in quanto dotati di capacità predittiva. Non mi pare affatto un caso né che a quell'approccio in economia abbia contribuito chi ha fondato l'assiomatizzazione della meccanica quantistica (von Neumann), né che, alla fine, sia proprio quella la posizione di Friedman, che mi pare abbastanza dominante.
Se Friedman ha ragione, allora i modelli degli economisti sono necessariamente slegati dalla realtà (guai a parlare di "realismo delle ipotesi"!), salvo l'eventuale loro valore predittivo. Ma qui si torna a un punto del mio commento che forse le è sfuggito: così come non ho trovato economisti che abbiano elaborato una risposta diversa da quella di Friedman, ma convincente e condivisa, al tema della relazione tra teoria e realtà (al punto che discuterne diventa «endless»), non ho nemmeno trovato economisti che spiegassero perché il paradosso del biliardo di Friedman è sbagliato. Anche qui le sarei grato di eventuali indicazioni.

Credo ora le sia più chiaro che un Latouche o un Rifkin (e li ho letti entrambi) non mi interessano per nulla. Non fosse altro che perché sono lontanissimi dal proporre qualcosa su tali argomenti. Come dice lei, sono troppo facili - cioè superficiali.

«Ma Polini giudica i problemi analitici (vedi giudizio sulla controversia sulla teoria del valore!) come inutili»
Forse riuscirà anche a credere (lo spero) che non considero affatto inutili i problemi analitici. Temo sia sorto un equivoco: non solo non considero affatto inutile la controversia sul capitale, ma non considero inutile nemmeno la controversia sulla teoria del valore. Ho detto che considero sterile la polemica sulla trasformazione dei valori in prezzi, perché non mi pare utile inseguire sostenitori di "New Interpretation", di "Simultaneous Single System", di "Temporal Single System Interpretation" che, a quanto ho visto, dedicano molte delle loro energie a polemizzare tra loro (per questo parlavo di "polemica" e non di controversia). Credo invece, come accennavo, che nel cap. XXIV del primo libro del Capitale ci sia un problema analitico molto più interessante e che l'apparato analitico del terzo libro potrebbe offrire - con qualche aggiustamento e qualche estensione - spunti utili perfino per il presente.

Spero di essermi spiegato meglio: vorrei più Haavelmo, non più Latouche o Rifkin. Vorrei che "più Haavelmo" aiutasse gli economisti "alternativi" a trovare maggiore consonanza, maggiore coerenza interna, quindi anche una forza di impatto maggiore. Ora mi pare invece che di scuole "alternative" ce ne siano troppe, e temo che questo accada anche per la mancanza di una comune visione metodologica che sappia contrapporsi a quella dominante, superandola.
In sostanza, mentre spero possa darmi indicazioni che mi smentiscano, mi auguro che prenda le mie osservazioni come un interessato augurio di buon lavoro.

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[1] Sul punto: Giorgio Israel, La visione matematica della realtà, Laterza, 2003.

lo stesso dibattito che esisteva tra Matlhus e Ricardo

Come prima cosa faccio i complimenti a questo sito e alla scrivente dell'articolo ottimo articolo e ottima iniziativa.
E' assolutamente importante affrontare il tema della formazione culturale a livello di opinione pubblica e accademica.

Questo mio intervento solo per segnalare che avendo appena terminato di leggere Sono un liberale? e altri scritti di John Maynard Keynes ho trovato nelle riflessioni dell'autore questo tema e vorrei segnalare questo passaggio

Pag 296 La quasi scomparsa della linea di pensiero di Malthus e il completo dominio di Ricardo lungo tutto un secolo siano stati un disastro per il progresso della scienza economica. Malthus Buon senso Ricardo testa fra le nuvole.

Il saggio è stato scritto da Keynes negli anni'30 mi sembra di poter dire che la situazione di sconforto provata da Keynes non è minimamente cambiata.

Facendo i miei migliori auguri per le festività porgo cordiali saluti a tutti.
Alberto Bertoli

il liberismo è una utopia.

Complimenti all’autrice dell’articolo. Mi sono ritrovato catapultato a 15 anni fa, quando ero studente di economia dove, come indicato da Cesarotto, ci si trovava in un “esamificio”. Per quanto mi riguarda non ho imparato nulla di più che il nozionismo indicato nei libri di testo suggeriti dai professori. Ho avuto solo la fortuna di scegliere, tra le mie materie complementari, la Storia del pensiero economico. Oggi, a 35 anni, mi ritrovo a imparare con uno spirito critico che non avevo a 20 anni. Allora ero spinto solo dal superare l’esame e imparare, ad esempio, la lezioncina di Mankiw sul modello Keynesiano ridotto al solo moltiplicatore oppure alla sua sintesi con il modello di Hicks-Hansen. Solo in questi anni mi sono imbattuto nella Teoria Generale che mi ha fornito strumenti che a 20 anni i miei professori non mi avrebbero offerto. Solo a 30 anni ho letto Marx (che non viene considerato nei corsi di macro economia e solo accennato nella Storia del pensiero) o la MMT degli americani del CFEPS, di cui si parla molto su internet e poco nelle università.
In pratica ho aspettato ben 15 anni per sviluppare il mio spirito critico. Suppongo che una certa colpa il sistema universitario ce l’abbia.
Per quanto riguarda i precedenti commenti, non sono d’accordo con Sergio sulla critica a Marx. Sicuramente il Capitale non è un buon testo di economia, ma considerando il periodo in cui è stato scritto è un testo “rivoluzionario” che ha la sua importanza non tanto per l’analisi economica, ma più per l’analisi filosofica e sociale. Leggerlo (non tutto ma spero un giorno di finirlo), mi ha aperto gli occhi sull’ideologia delle classi dominanti e su come, ancora oggi, queste si comportano nei confronti delle classi considerate subalterne.
Vorrei, infine, commentare l’affermazione del prof. Cesarotto: “Preferisce evidentemente economisti alla Latouche, Rifkin, ecc. Auguri! (soprattutto a loro: fanno un sacco di soldi coi loro facili libri!)”. Sono d’accordo su alcuni aspetti della critica agli economisti cosiddetti “ambientalisti”, soprattutto della loro, a mio a parere , incapacità di sostenere con una teoria economica le loro scelte ambientaliste. Però mi lasci criticare anche un aspetto che sia le teorie eterodosse, che quelle neo classiche, non hanno mai preso in considerazione, compresi molti marxisti viventi. Ovvero la scarsità delle materie prime ed il loro controllo da parte dei paesi occidentali. In tutte le teorie si da per scontato che domanda e offerta di beni e prodotti comportino una esistenza delle materie prime infinita, senza considerare i costi ambientali, di estrazione e trasporto, politici e sociali dei paesi più poveri. Ad esempio su Latouche, e Pallante in Italia, alcuni giornalisti (come Bontempelli e Biadiale) hanno proposto un connubio tra decrescita e Marxismo, ma ovviamente manca un approccio tecnico che, fino ad oggi, io non ho trovato.

p.s.: dimenticavo che il liberismo è una utopia, più del comunismo (almeno quello ha in parte funzionato). Quindi sarebbe inutile anche parlarne. Lo ha spiegato bene, per alcuni aspetti, Akerloff.

Insegnamento dell'economia

Entro su due osservazioni:
@Polini
“il problema non sta nell'insegnamento dell'economia, ma nel modo in cui tutti, "dominanti" e "alternativi", fanno economia.”
La relazione fra teorie e realtà è complicatissima e nemmeno mi cimento a entrare in una discussione che rischia di essere endless. Polini “spara” su tutti in maniera ingiustificata, persino nei riguardi dei neoclassici: non è affatto vero che la loro teoria sia slegata alla realtà, semplicemente la interpreta male e ha problemi analitici interni (teoria del capitale). Ma Polini giudica i problemi analitici (vedi giudizio sulla controversia sulla teoria del valore!) come inutili, una posizione che non ci porta da nessuna parte. Preferisce evidentemente economisti alla Latouche, Rifkin, ecc. Auguri! (soprattutto a loro: fanno un sacco di soldi coi loro facili libri!).
@Daniele G.
Che scrive “Inoltre ho l'impressione che ci siano molti professori che pur essendo consapevoli dei forti limiti dell'approccio neoclassico, si rassegnano ad insegnarlo nei corsi di laurea.” Perché non c’è uno scavo analitico sufficiente dietro, o son fifoni. Ma la prima ipotesi è la migliore. Ricordate che alcune scuole Keynesiane, Stiglitz, Krugman, De Long, e in Italia per esempio la scuola di Caffè, Steve, e altri, non attaccano a fondo la rilevanza della teoria neoclassica per i problemi di lungo periodo. Caffè era ad esempio un sostenitore dell’Economia del benessere, quanto di più neoclassico c’è – sebbene siano compagni di strada. L’impronta però rimane. E lo dico con franchezza rispetto a una figura verso la quale ho una ammirazione sconfinata. A insegnare cose giuste (giustizia, stato sociale ecc) ci si può arrivare per tante strade, e non dobbiamo essere settari. Però al quesito di perché tanti continuano a insegnare la teoria neoclassica: perché ci credono.
“ Perchè i professori "eterodossi" non riescono ad incidere in modo significativo nella maggior parte dei costi di triennale e specialistica? Si tratta solo di un problema di essere in minoranza rispetto alla corrente neoclassica? o c'è anche un pò di pigrizia intellettuale? “ Vera la prima. L’attacco è feroce. La giusta valutazione della ricerca universitaria è utilizzata per spazzare via l’eterodossia. Per questo è importante che anche gli studenti si muovano, un loro sostegno è essenziale per consentire ai docenti eterodossi di resistere (e ai giovani eterodossi di ottenere posti). Negli anni settanta l’eterodossia dominava perché c’era comunque una spinta dal basso. Garegnani riempiva le aule della Sapienza a lezione.
Sergio Cesaratto
Cesaratto@unisi.it
http://www.econ-pol.unisi.it/cesaratto/
http://politicaeconomiablog.blogspot.com
http://documentoeconomisti.blogspot.com/

insegnamento universitario

Non sono un economista ne uno studioso ma un (ex) fisico abituato a perchè e perchè sino ad arrivare al buco nero.Domanda: provate ad immaginare uno Stato o meglio tutti gli stati se volete che non si indebitino.Debito pubblico ZERO, quale sarebbe stato lo stato di uno Stato?credo molto semplice,le banche non avrebbero materia per costruire speculazioni ed i risparmi impiegati solo per investimenti produttori di ricchezza e quindi senza materiale per gli studiosi di potere costruire teorie.

Capiamoci

@Emanuele Ferrari
1) Non intendo affatto criticare Emiliano Brancaccio che, come ho detto, stimo molto.
2) Nel 2008 era facile capire che nel 2002 Blanchard e Giavazzi si erano sbagliati; come ricorda lo stesso Brancaccio, se ne erano accorti anche «influenti studiosi neoclassici come Roubini ed altri, e alla fine lo stesso Blanchard sembra averne subìto nuovamente il richiamo».
Il problema è un altro: tutti gli economisti si sentono troppo liberi nella costruzione dei loro modelli. Il "tener conto dei dati" dovrebbe partire prima, al momento dell'elaborazione del modello (come voleva Haavelmo), non dopo anni.
In due parole: se non cambia il modo di "fare" economia, non può cambiare il modo di insegnarla.

E l'ambiente?

Ma tra neoclassici come Giavazzi e eterodossi come Brancaccio e Cesaratto qual e la differenza riguardo alla crisi ambientale? Cosa pensano della decrescita?

Le teorie si misurano sui dati !

Per Sergio Polini: non mi sembra che gli economisti non facciano i conti con i dati. Se prendi per esempio Brancaccio, lui ha criticato Blanchard e Giavazzi proprio a partire dalla incongruenza tra le loro teorie e i dati. Pensa per esempio agli effetti della precarieta' del lavoro sulla disoccupazione. Li' il mainstream ha proprio toppato perche' la teoria stabilisce che c'e' una relazione inversa mentre i dati la smentiscono.

Complimenti per l'articolo.

Il problema è un altro

Cara Armanda, sono uno studente dell'ex corso di laurea in statistica ed economia (recentemente soppresso) dell'ex facoltà di statistica della Sapienza.
Temo che il problema sia un altro.
In un certo senso, ha ragione Felice Di Maro: finché la teoria economica rimane quella che è, cioè finché rimangono così insoddisfacenti gli aspetti metodologici (vorrei dire epistemologici) sia della teoria "dominante" che di quelle "critiche", non si può fare a meno di studiare la teoria che tutti conoscono, quella "dominante".
Capisco Sergio Cesaratto, che stimo molto. Ma siamo sicuri che le teorie "alternative" siano migliori?
Ti propongo esempi forse un po' crudeli.
Prendi l'articolo di Modigliani e Padoa Schioppa «La politica economica in un’economia con salari indicizzati al 100 o più» [1]. Leggilo. Poi prendi l'articolo di Blanchard e Giavazzi «Current Account Deficits in the Euro Area: The End of the Feldstein-Horioka Puzzle?» [2]. Leggilo. Infine prendi l'articolo di Emiliano Brancaccio «Un modello di teoria monetaria della produzione capitalistica» [3] e leggi pure questo.
Le differenze dal punto di vista ideologico sono evidenti, ma per il resto?
Si costruisce un "modello" basato su qualche assunto (cioè su ipotesi non verificabili per definizione), si scrive qualche formula che non dovrebbe essere un assunto ma senza preoccuparsi nemmeno di indicare come verificarla, si traccia qualche grafico che sottintende ulteriori assunti non esplicitati (ad esempio, che una certa funzione sia crescente ma non abbia asintoti orizzontali), si ricavano conclusioni.
Blanchard e Giavazzi sono stati particolarmente sfortunati, visto che le loro "conclusioni" sono state platealmente smentite dai fatti (v. [4]), ma gli altri - compreso un Brancaccio che stimo almeno quanto Cesaratto - sono forse messi meglio?
Personalmente concordo con Qin Duo (The Formation of Econometrics, Clarendon Press, 1997): la "rivoluzione di Haavelmo" è rimasta incompiuta.
Gli economisti continuano a non preoccuparsi minimamente della necessità di stabilire relazioni tra "variabili teoriche" e "variabili osservazionali" [5]. Secondo Haavelmo, si dovrebbero superare sia « the shortcomings of basic economic theory», sia «the somewhat passive attitude of many econometricians when it comes to the choice of axioms and economic content of the models we work on»; occorre un interesse degli econometristi «in the fundamental economic ideas themselves», perché sarebbe maledettamente utile «to bring the requirements of an econometric "shape" of the models to bear upon the formulation of fundamental economic hypotheses from the very beginning» [6].
Magari!
Gli economisti, "dominanti" o "alternativi" che siano, continuano a sentirsi liberi di sparare modelli che, sganciati come sono da qualsiasi possibilità di verifica, propongono solo una scelta ideologica.
Si può certo preferire una scelta ideologica a un'altra, ma finché si rimane così ha ragione Felice Di Maro: non si può non studiare l'ideologia dominante.
In altri termini, il problema non sta nell'insegnamento dell'economia, ma nel modo in cui tutti, "dominanti" e "alternativi", fanno economia.

Certo, la "verifica" in economia non è affato una questione banale. In fondo, la teoria "dominante" continua a basarsi sui pistolotti di Friedman [7]. Mettiamola così: hai presente la metafora del giocatore di biliardo? [8] Bene: riuscirei a credere davvero solo a un economista che mi spiegasse perché quella metafora è sbagliata. Sarà una mia lacuna, ma non ne conosco nessuno.

Quanto a Marx, mi piacerebbe molto che se ne discutesse seriamente. Tuttavia, quando ho provato a farlo con "marxisti doc" il risultato è stato molto deludente. Dire che nel cap. XXIV del Libro I del Capitale ci sono errori evidenti (NB: nulla a che vedere con la sterile polemica sulla trasformazione dei valori in prezzi), dire che i pregevoli ragionamenti del Libro III andrebbero un po' rivisti tenendo conto della concorrenza monopolistica [9], comporta accuse di eresia.
I marxisti si sono suicidati, ma è colpa loro.

------------------------
[1] Moneta e Credito, n. 1, 1977
[2] MIT Department of Economics Working Paper No. 03-05, http://papers.ssrn.com/sol3/Delivery.cfm/SSRN_ID372880_code030123590.pdf?abstractid=372880&mirid=1
[3] Il pensiero economico italiano, 2005, http://www.emilianobrancaccio.it/wp-content/uploads/2010/09/brancaccio-pei.pdf
[4] Barry Eichengreen, Imbalances in the Euro Area, 2010, http://elsa.berkeley.edu/~eichengr/Imbalances_Euro_Area_5-23-11.pdf
[5] Haavelmo, «The Probability Approach in Econometrics», Econometrica, 1944, vol. 12, Supplement, http://www.jstor.org/stable/1906935
[6] Haavelmo, «The Role of the Econometrician in the Advancement of Economic Theory», Econometrica, 1958, vol. 26, n. 3, pp. 351-357, http://www.jstor.org/stable/1907616
[7] M. Friedman, «The Methodology of Positive Economics», in Essays in Positive Economics, The University of Chicago Press, Chicago, 1953
[8] op. cit., p. 21
[9] Quella che, dopo Blanchard e Kiyotaki («Monopolistic Competition and the Effects of Aggregate Demand», The American Economic Review, 1987, vol. 77, n. 4, pp. 647-666, http://www.jstor.org/stable/1814537), è ormai alla base di qualsiasi ragionamento su domanda aggregata, produzione e occupazione.

... non è detto che egli davvero voglia... approfondire

Gentile Armanda Cetrulo,
mi ha decisamente colpito la Sua affermazione: "Ma non è detto che egli davvero voglia o sia messo in condizione di approfondire le problematicità della materia economica". Penso che il nocciolo più vero della Sua critica si trovi proprio nella prima parte di quest'asserzione. La seconda parte, invece, tende a deresponsabilizzare troppo lo studente.
Mario Stoppino amava distinguere “tra un insegnamento volto a far comprendere […] e un insegnamento diretto a far credere [...]” (Potere e teoria politica, 2001). Penso che nel primo caso, certamente fortunato, pure i modelli neoclassici possano avere la loro utilità. Nel secondo caso, invece, il mettere lo studente “in condizione di approfondire...” servirà, tutt'al più, a sconfiggere i mulini a vento.
E se al povero studente dovesse mancare la voglia di approfondire? A quel punto non potrà fare altro che occupare i vari dipartimenti di economia (kickitover.org), oppure Wall Street, oppure chiunque banca che gli capiti per strada. Poco, troppo poco, per cambiare “lo stato presente delle cose”.

I MAESTRI NON SI CAMBIANO

L'articolo è interessante ma purtroppo presenta una contraddizione in termini nel senso che si analizzano bene alcune motivazioni ma poi si perde proprio il senso della realtà. Che il registro delle lezioni si possa cambiare niente di nuovo e sicuramente la didattica si riarticolerà. Ma, attenzione, i maestri non si cambiano. Questi sono e questi resteranno e tutto sommato va bene anche alla dirigenza di questo sito. Solo un rilancio dell'autodidatta potrà dare nuova linfa al sistema delle critiche correnti. Il docente di economia oggi (Ma, anche in passato!) è di basso profilo. Quando è contro è solamente perché ha interessi personali e niente altro.

Qualche considerazione ed una domanda

Spesso si parla in modo astratto e un pò fumoso di rinnovare l'insegnamento dell'economia nelle università. L'articolo qui sopra, invece, centra esattamente il punto secondo me. I modelli economici "nel vuoto", quelli che Luciano Gallino chiama "Teorie economiche che imitano le scienze naturali", hanno dimostrato di non funzionare. La contro-rivoluzione neoclassica e neoliberista ci ha lasciato completamente privi di strumenti per leggere la realtà economica attuale, oltre ad aver dato un contributo fondamentale allo smantellamento dell'architettura regolatoria che i nostri nonni (o chi li governava) avevano messo in piedi per proteggersi dall'instabilità intrinseca dei mercati finanziari. Da qui nasce la crisi odierna, oltre che dalla sperequazione dei redditi (anch'essa supportata dalle teorie neoliberali, come ha spiegato bene Armanda), e solo chi non conosce la storia può non essere indignato da Governi che durante una fase recessiva inseguono la "regola aurea" del pareggio di bilancio per compiacere la finanza internazionale, manco fossimo nel 1905. Vedo un forte collegamento tra la miopia di chi ci governa e quella di chi scrive i programmi di economia per le triennali. Eppure ci sono tanti economisti "eterodossi" che hanno messo in luce le vere cause della crisi in modo rigoroso e coerente.

Per capirci qualcosa noi studenti dobbiamo fare un passo indietro per poter poi farne alcuni in avanti. Dobbiamo leggere Marx, Keynes, ma anche Adam Smith (che se letto bene appare molto meno liberista di come lo raccontano) ripartire dei loro insegnamenti per immaginare teorie nuove che tengano conto dei cambiamenti enormi che sono avvenuti nel frattempo. E' incredibile che questi classici non ci vengano fatti leggere nei corsi universitari. Invece siamo costretti a farlo nel "tempo libero", mentre nelle aule impariamo a memoria teorie ottuse basate su assunzioni incredibili.

Oltre agli esempi citati da Armanda, mi è sembrato molto interessante il movimento "post-autistico" degli studenti francesi, qui potete leggerne la storia http://www.paecon.net/HistoryPAE.htm mentre questa è la rivista scientifica che il movimento ha partorito http://www.paecon.net/PAEReview/

E' vero che noi studenti dovremmo fare di più per rivendicare programmi diversi nei corsi di studio. Ma è anche vero che il mondo accademico deve cambiare dall'interno. Devono nascere più riviste scientifiche come la PAE Review. Inoltre ho l'impressione che ci siano molti professori che pur essendo consapevoli dei forti limiti dell'approccio neoclassico, si rassegnano ad insegnarlo nei corsi di laurea. (Non voglio con questo negare che ci siano delle rilevanti eccezioni, fortunatamente so per esperienza diretta che ci sono professori che nei loro corsi insegnano altri approcci oltre a quello neoclassico, e alcuni lo fanno anche molto bene). Questa è una domanda che vorrei porre al corpo docente. Perchè i professori "eterodossi" non riescono ad incidere in modo significativo nella maggior parte dei costi di triennale e specialistica? Si tratta solo di un problema di essere in minoranza rispetto alla corrente neoclassica? o c'è anche un pò di pigrizia intellettuale?

Studenti di economia, sveglia!

Simpatico il commento precedente: sì un flagello dell'economia è ilo fatto che da sempre è terreno di fisici e ingegneri falliti e matematici mancati.
Andando all'articolo di Armanda. Finalmente, verrebbe da dire. E' anche un buon articolo, analiticamente motivato, consapevole di dove andare a cercare la solida teoria critica. Infatti attenti agli Stiglitz e anche ai Krugman, sono neoclassici di stretta osservanza anche se ora temporanei alleati; e ai pensieri deboli, leggeri e molto movimentisti, di alcuni economisti italiani e stranieri "alternativi": sospettare di chi non accompagna analisi applicate e proposte a uno scavo analitico dietro, ben faticoso ma necessario. Purtroppo la passività degli studenti in merito alla contestazione dei programmi di studio è stupefacente. Nella mia esperienza di Siena, ho io contestato LINK di Economia per il suo ruolo di sindacatino interessato solo a un appello in più (difendendo così la natura dell'università come appellificio). Alla mia (mia, non loro) proposta di discutere la crisi europea mi han proposto un dibattito con un mainstream, che non ho avuto interesse e voglia di fare. Per fortuna a Scienze politiche hanno poi organizzato un paio di iniziative con me e poi con Cremaschi andate bene. E anche Link di Taranto mi ha invitato. L'università è diventato un frettoloso esamificio, e ciò non favorisce la ricerca del pensiero critico, e forse chi si interessa di economia fiuta l'aria" di dove si fa carriera. Ma forza ragazzi! Per esempio perché LINK o altre associazioni non organizzano un incontro degli studenti (e dottorandi) di economia dove mettere a punto un richiesta di modifica dei programmi? So che è ambizioso e le forze son poche, ma ci si può provare.
http://politicaeconomiablog.blogspot.com/
Cesaratto@unisi.it

Eterodossi?

Non entro nel merito di una discussione sulle varie scuole economiche, dato che non sono un economista.
Penso però che i veri eterodossi siano proprio gli accademici, i neoclassici (Samuelson, Arrow e compagnia), a partire da Walras, che era un cretino (si può dire cretino qui? In televisione sì, ma se qui non si può, lo ritiro).
La cosa grave è che non se ne sia mai accorto nessuno, diciamo così. La prova che fosse un cretino?
Nel suo ultimo lavoro postumo, dove esplicita fin dal titolo ("Economia e meccanica") la volontà di costruire la "scienza economica" scimmiottando - udite - la meccanica! La scienza economica come scienza naturale. Lì cita una lettera critica di Poincaré (che lui stima in massimo grado, essendo Poincaré un matematico), ma non capisce le sue critiche.
E in quella lettera Poincaré fa le obiezioni fondamentali all'approccio "naturalista" all'economia: la non misurabilità delle "preferenze", e le ipotesi implicite, che oltre a stare evidentemente poco in piedi, hanno il difetto di essere appunto implicite. Nelle scienze naturali non si fa mai: si esplicita sempre tutto. Anzi, la conoscenza consiste proprio, in un certo senso, nel rendere esplicito ciò che è implicito.

http://documentazione.altervista.org/walras_poincare.htm

Aggiungo solo un paio di documenti: Il Gn ombra e il rapporto Dahlem:

http://documentazione.altervista.org/shadow_gn.htm
http://documentazione.altervista.org/dahlem_report.htm

E in generale:

http://documentazione.altervista.org/#pensiero_economico

In realtà di gente in giro che pensa, oltre che (e invece di) fare montagne di calcoli, ce n'è tanta. Solo si cerca di tenerla nascosta. Dovesse fare ombra ...

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