Il lavoro prima di tutto. L'economia, la sinistra, i diritti. Così recita il titolo del libro di Stefano Fassina – responsabile economia del Pd –, pubblicato dalla casa editrice Donzelli (pp.194, euro 16,50), che ringraziamo per averci concesso di anticipare il secondo capitolo, dedicato allo smarrimento dell'Unione europea
La «crisi» iniziata negli Usa a metà 2007 ha investito in pieno anche l’Europa, sia nella sua dimensione finanziaria che reale. Non poteva che essere così, data l’omogeneità e la sincronia dei cambiamenti intervenuti e la profonda interconnessione tra le due aree economiche. Non poteva che essere così, dato che, mentre negli Stati Uniti le banche prestavano 96 centesimi per ogni dollaro depositato, le banche dell’Europa continentale impiegavano 140 centesimi per ogni euro custodito. Non poteva che essere così, dato che l’abbondanza di credito aveva drogato una crescita economica alimentata da profondi squilibri macroeconomici a loro volta proiezione della medesima, seppur ad intensità minore, regressione delle condizioni e della remunerazione del lavoro.
Segnala un punto importante Rossana Rossanda nel suo intervento di apertura all’interessante dibattito lanciato da Sbilanciamoci.info nell’estate 2011: una causa fondamentale della inadeguata impalcatura politico-istituzionale della Ue è di ordine culturale: lo sfondo ideologico liberista che ha accompagnato la nascita dell’euro. I padri dell’euro avevano e hanno impostazioni culturali diverse e finanche opposte (Ciampi non è Tietmeyer; Napolitano, Delors, Prodi non sono Merkel o Sarkozy), ma non c’è dubbio che il paradigma che ha disegnato le istituzioni della moneta unica e prima ancora le politiche economiche di stabilità e crescita ha seguito i precetti dominanti il trentennio alle nostre spalle. In sintesi: la tecnicizzazione e la neutralizzazione della politica economica. Nell’Unione europea, quanto viene lasciato in mano alla politica, ossia le politiche di bilancio, perde ogni margine di manovra (fino allo «stupido» Patto di stabilità e alla scrittura del pareggio di bilancio nelle Costituzioni nazionali). La politica monetaria si affida a un’istituzione tecnica indipendente (la Bce), dotata di pilota automatico, orientata a colpire l’aumento dei prezzi sopra la soglia del 2%. La politica industriale diventa bestemmia. Compito unico della politica è liberare l’economia dalle bardature regolative per lasciare le forze economiche far da sé e, così, fare società. Insomma, come efficacemente sintetizzava un bel saggio di Fitoussi del 1997, nella politica economica «il dibattito è proibito».
Fare l’euro è stata una straordinaria scelta politica in controtendenza. È stata giusta e lungimirante. Una condizione necessaria per ricostruire democrazie fondate sul lavoro. Per recuperare, in condivisione, la sovranità nazionale perduta nel mare dell’economia globale. Nessuna nazione europea, da sola, avrebbe resistito. Lo ha ricordato Romano Prodi il 31 dicembre 2011 sul «Messaggero», in un editoriale celebrativo del decennale della moneta unica: «Una decisione che voltava definitivamente le spalle al passato europeo di guerre e di sangue e che, nello stesso tempo, era in grado di inserire l’Europa tra i grandi protagonisti della politica e dell’economia mondiale. Con la moneta unica l’Unione europea si candidava ad entrare tra i costruttori della globalizzazione oramai in corso e non più arrestabile». Dopo la nascita dell’euro, la colpa delle leadership dell’Unione europea e, in particolare, dell’area euro è stata il ripiegamento nazionalista. Scrive ancora Prodi: «Agli anni della speranza sarebbero infatti seguiti gli anni della paura: paura della globalizzazione, paura della disoccupazione, paura della Cina. Paure che si potevano vincere soltanto con un’Europa unita e che invece hanno finito con interrompere il suo cammino verso l’unità e favorire il dilagare del populismo».
Non c’è dubbio che anche le forze culturali, politiche e sociali progressiste hanno perso la battaglia o, meglio, hanno in misura prevalente affidato al mercato il compito di risolvere i problemi. L’impianto della famosa Agenda di Lisbona, voluta dall’inventore e dai seguaci della Terza via alla guida di gran parte dei governi dell’Unione europea a cavallo del passaggio di secolo, era culturalmente debole. In fondo, si riconosceva il primato dell’economia e si lasciava alla politica il compito «amministrativo» di rimuovere gli argini sociali costruiti dopo la seconda guerra mondiale e di attrezzare anche le fasce più deboli a partecipare al gioco. Era, insomma, un liberismo ad alta sensibilità sociale. Ma, pur sempre, un impianto culturale che assumeva il pieno dispiegamento del mercato interno come condizione non soltanto necessaria, ma sufficiente, dato il pareggio di bilancio e il controllo dell’inflazione, alla crescita. Pur sempre, un impianto che negava «la responsabilità pubblica nella stabilizzazione macroeconomica, vale a dire nella gestione della domanda globale a salvaguardia dei livelli di attività e occupazione», come scrive Salvatore Biasco nel suo pamphlet Per una sinistra pensante (2009).
Oggi, anche nei paesi legati dalla moneta unica, rimaniamo nel tunnel della stagnazione perché, nonostante il fallimento storico, le politiche economiche promosse dalla Berlino della signora Merkel e dai settori in sintonia di Francoforte sono ancora prigioniere del paradigma neo-liberista. Tira più forte di prima il vento culturale che ha accompagnato le scelte politiche degli ultimi trenta anni. Le condizioni dei mercati del lavoro (7 milioni di disoccupati in più nella Ue dalla metà del 2008), le condizioni di reddito, i rischi di povertà, le prospettive delle classi medie, la qualità dell’ambiente sono aspetti tematici, lasciati agli specialisti del settore (giuslavoristi, economisti del lavoro, esperti di welfare, sociologi, ambientalisti). L’economia si dedica esclusivamente alla finanza pubblica, ai mercati finanziari e al tasso di inflazione. La politica nazionale esegue le inevitabili scelte dettate dai mercati finanziari, impossibilitata a rispondere alle domande dei mercati rionali. Come il Signor Malaussène, protagonista dei romanzi di Pennac, i politici, sempre più caricaturali, sono in prima fila a prendere gli insulti o ad abbaiare alla luna. In tale quadro, monta l’ossessione dell’opinione pubblica verso i costi della politica. È comprensibile. A che servono i ministri e i parlamentari, per non parlare dei rappresentanti nei livelli di governo territoriali, quando non vi sono rilevanti scelte da fare ed è sufficiente il ragioniere generale dello Stato per attuare i presunti diktat di Bruxelles?....
il resto del secondo capitolo si può leggere qui:
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