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L'Europa salvi l'Europa

01/08/2011

La sinistra europea può combattere la crisi, unendosi su alcuni obiettivi: evoluzione del Fondo salva-stati, ristrutturazione dei crediti sovrani, piano europeo per il lavoro, eurobond, tasse ambientali e sulle transazioni finanziarie. E uno standard europeo per i salari

Le domande poste da Rossana Rossanda sul senso dell'Unione europea vanno al cuore del problema. Si chiede, in sintesi: non c'è stato qualche errore nella costituzione dell'Unione europea? Come si ripara?
La svolta, tardiva e inadeguata, intrapresa con l'accordo raggiunto il 21 luglio a Bruxelles nel vertice straordinario dei capi di stato e di governo, lascia l’euro e l’Unione europea a rischio. Non soltanto rischio finanziario, ma sociale e democratico. È sotto osservazione, misurato ogni minuto dagli spread e dal prezzo dei Cds, il rischio di rottura della moneta unica dovuto alla insostenibilità dei bilanci pubblici e alle pressioni dei mercati finanziari. È meno osservato il rischio di rottura indotto dagli insostenibili squilibri sociali e dalle reazioni dei mercati rionali. Gli indici qui sono decisamente più rozzi, ma non meno preoccupanti: la percentuale di cittadini, soprattutto giovani, senza fiducia nella politica, il numero degli indignados, le percentuali di voto raccolte dai partiti nazionalisti e populisti.

Ha ragione Rossanda. Una causa fondamentale della inadeguata impalcatura politico-istituzionale della Ue è di ordine culturale: lo sfondo ideologico liberista che ha accompagnato la nascita dell'euro. I padri e i "padrini" dell'euro avevano e hanno impostazioni culturali diverse e finanche opposte (Ciampi non è Tietmeyer; Prodi, Napolitano e Delors non sono Merkel o Sarkozy), ma non c'è dubbio che il paradigma che ha disegnato le istituzioni della moneta unica e prima ancora le politiche economiche di stabilità e crescita ha seguito i precetti dominanti il trentennio alle nostre spalle. In sintesi: la tecnicizzazione e la neutralizzazione della politica economica. Quanto viene lasciato in mano alla politica, ossia le politiche di bilancio, perde ogni margine di manovra (fino allo "stupido" Patto di stabilità). La politica monetaria si affida a una istituzione tecnica indipendente (la Bce), dotata di pilota automatico, orientata a colpire l'aumento dei prezzi sopra la soglia del 2%. La politica industriale diventa bestemmia. Compito unico della politica è liberare l'economia dalle bardature regolative per lasciare le forze economiche far da sé e, così, fare società. Insomma, come efficacemente sintetizzava un bel saggio di Fitoussi del 1997, nella politica economica "il dibattito è proibito".

Fare l'euro è stata una straordinaria scelta politica in controtendenza. È stata giusta e lungimirante. La condizione necessaria per ricostruire democrazie fondate sul lavoro. Per recuperare, in condivisione, la sovranità nazionale perduta nel mare dell'economia globale.

Non è stata colpa dell'Ue la liberalizzazione dei mercati dei capitali. Nessuna nazione europea, da sola, avrebbe resistito. La colpa della Ue è stata di non aver fatto una battaglia nelle sedi di governance multilaterale, a esempio al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale, dove pure gli europei, insieme, avevano e hanno ancora la maggioranza delle quote ed esprimono, nell'Fmi, per diritto divino, oramai scaduto, al managing director.

Tuttavia, non c'è dubbio che le forze culturali, politiche e sociali progressiste poi hanno perso la battaglia o, meglio, hanno in misura prevalente affidato al mercato il compito di risolvere i problemi.

Oggi, rimaniamo nel tunnel della stagnazione perché, nonostante il fallimento storico, le politiche economiche sono ancora prigioniere del paradigma neo-liberista, ossia tira più forte di prima il vento culturale che ha accompagnato le scelte politiche degli ultimi 30 anni. Le condizioni dei mercati del lavoro (7 milioni di disoccupati in più nella Ue dalla metà del 2008), le condizioni di reddito, i rischi di povertà, le prospettive delle classi medie, la qualità dell’ambiente sono aspetti tematici, lasciati agli specialisti del settore (giuslavoristi, economisti del lavoro, esperti di welfare, sociologi, ambientalisti). L’economia si dedica esclusivamente alla finanza pubblica, ai mercati finanziari e al tasso di inflazione. La politica esegue le inevitabili scelte dettate dai mercati finanziari, impossibilitata a rispondere alle domande dei mercati rionali. Come il sig. Malaussène, protagonista dei romanzi di Pennac, i politici, sempre più caricaturali, sono in prima fila a prendere gli insulti o ad abbaiare alla luna. In tale quadro, monta l’ossessione dell’opinione pubblica verso i costi della politica. È comprensibile. A che servono i ministri e i parlamentari, per non parlare degli rappresentanti nei livelli di governo territoriali, quando non vi sono rilevanti scelte da fare ed è sufficiente il ragioniere generale dello stato per attuare i presunti diktat di Bruxelles?

Va chiarita la posta in gioco. Nell’Ue, non siamo in una fase di aggiustamento dei conti pubblici scassati dal “socialismo della spesa”, portato storico delle forze socialdemocratiche e, da noi, catto-comuniste, come oramai passa nel dibattito politico, nutrito da rigoristi senza se e senza ma. Oramai, anche per tanti di noi, spesa primaria corrente = spreco. Quindi, tagli alla spesa primaria = efficienza.

Dobbiamo avere chiara la posta in gioco. Nella Ue, è in atto una regressione genetica: cambiano i connotati del modello sociale europeo, dell’economia sociale di mercato, insomma quell’insieme di caratteri che nella seconda metà del XX secolo hanno reso l’Ue l’area non soltanto più ricca del pianeta ma più avanzata in termini di coesione sociale, condizioni del lavoro, opportunità. Attenzione: è necessaria l’innovazione. Le modalità per raggiungere le condizioni promosse dallo stato nella seconda metà del ‘900 devono essere superate per riconoscere e interagire attivamente con l’inedita intensità, velocità e pervasività delle interdipendenze globali del secolo appena incominciato, con la mutazione delle relazioni tra persona-lavoro-consumo, con la rilevanza delle relazioni extra-economiche per l’identità della persona, con il protagonismo dei corpi intermedi.

Qui, tuttavia, non siamo alla “distruzione creatrice”. Qui, siamo alla retrocessione strutturale del lavoro, allo smantellamento dei welfare universalistico, alla fine delle democrazie delle classi medie e alla costruzione di un ordine neo-corporativo a democrazia elitaria e populista. Tuttavia, ecco il punto, la risposta all’emergenza economica non è deterministica. La modernità non è data. Siamo in presenza, invece, di una “rivoluzione passiva” per un’ulteriore concentrazione dei poteri come adattamento reazionario all’ordine globale del XXI secolo. Non cambia la finanza pubblica o l’economia, cambia la qualità della democrazia. Ed è evidente, cambia il profilo identitario delle forze progressiste e lo status della politica.

È davvero inevitabile? Ossia, l’economia, un'élite economica sempre più ristretta, deve continuare a dare le carte e la politica, come dice Reichlin, deve limitarsi ad andare in tv a spiegare l’ineluttabilità dei sacrifici sempre sugli stessi?

Che fare? Innanzitutto un’analisi corretta.

Primo, la finanza pubblica non è indipendente dall’economia reale. Senza riavvio dello sviluppo non si ha sostenibilità del debito pubblico. E senza un netto miglioramento delle condizioni del lavoro e della distribuzione del reddito e della ricchezza non si ha sviluppo sostenibile. È banale, ma dimenticato nell’eccitazione “responsabile” per l’austerità, intesa sempre più come categoria morale, anziché economica e sociale.

Secondo, il debito pubblico, a parte il caso Grecia, esplode a causa dell’assorbimento del debito privato e in conseguenza dell’implosione delle bolle speculative, immobiliari o finanziarie, gonfiate per tre lustri dalla finanza irresponsabile. L’interpretazione su cui si basa gran parte degli interventi messi in atto dai governi dei paesi dell’eurozona attribuisce, viceversa, la responsabilità delle difficoltà presenti al comportamento dei paesi più deboli della zona dell’euro che non avrebbero saputo tenere sotto controllo la loro finanza pubblica. Di qui i piani di aggiustamento imposti e tesi più che altro a “punire” i paesi periferici più indebitati sottoponendoli a severe politiche di austerità e deflazione interna, di fatto insostenibili in un’ottica di medio termine. Non funziona scaricare i costi soltanto sul bilancio pubblico, quindi sui cittadini più deboli e sulle classi medie. Devono pagare, anche con la ristrutturazione del debito privato, quanti hanno mietuto raccolti copiosi nei due decenni passati.

Terzo, il blocco alla ripresa delle economie europee dipende da insufficiente domanda aggregata, non da rigidità dell’offerta, come la vulgata neo-liberista continua a ripetere. L’Ue e gli Usa hanno un eccesso di capacità produttiva e le economie emergenti non hanno e non avranno nel medio periodo la capacità di assorbire il volume di esportazioni necessario ad arrivare a un equilibrio di piena occupazione. In ogni caso, come dimostra la storia recente, un equilibrio è instabile se puntellato da squilibri sistematici delle bilance commerciali.

Quarto, la degenerazione della distribuzione del reddito e della ricchezza, dovuta agli squilibri nei rapporti di forza sul mercato del lavoro e amplificata dalla delegittimazione e dall’indebolimento del welfare, via fisco o benefit, soffoca la domanda interna nazionale ed europea.

Quinto, un’area a moneta unica, segnata da ampi differenziali di competitività sistemica, può sopravvivere soltanto in due scenari o in una qualche combinazione dei due: o diventa una “transfer union”, come l’Italia con il nostro Mezzogiorno; oppure si rimuovono i differenziali di competitività attraverso una politica economica "interventista".

La Ue ha affrontato, male, l’emergenza debito pubblico. È, invece, completamente assente una seria tematizzazione dei differenziali di competitività evidenziati dai saldi della bilancia commerciale di ciascun paese membro, come da tempo ha sottolineato, prima di altri, Emiliano Brancaccio.

Allora, che fare? La risposta prima che economica è politica. Nella straordinaria transizione globale in corso, le forze progressiste europee ritengono possibile ricostruire le condizioni per innovare e rilanciare il modello sociale europeo oppure si rassegnano alla fine della civiltà del lavoro e delle democrazie delle classi medie? In altri termini, il ridimensionamento del peso demografico, economico e politico dell’Occidente e della Ue deve necessariamente implicare la regressione della civiltà del lavoro e della democrazia nell’Occidente e nella Ue, la sua punta più progredita in termini di coesione e mobilità sociale?

Siamo a un passaggio di fase, un tornante storico, un periodo breve durante il quale si segnano i destini di un lungo periodo per l’economia, la società, l’identità delle culture politiche e lo status della politica.

L’errore storico delle élite europee è stato l’abbandono del percorso di unificazione politica dopo l’avvio dell’euro. Mercato unico e banca centrale non sono sufficienti a promuovere sviluppo. È necessario un salto di scala nel governo politico.

La novità di straordinario interesse politico è che le forze socialiste europee e, mi permetto di dire, insieme a loro il Pd, hanno ritrovato autonomia culturale. Sono uscite dalla subalternità al pensiero unico. Oggi, guidano il tentativo di riscossa politica europea. L'agenda di riforme messa a punto dal Pse e dal Pd e, in larga misura condivisa dalla Confederazione europea dei sindacati, tenta di riportare la politica all'altezza dell'economia.

Per uscire dalle prospettive di regressione democratica, i socialisti europei e il Pd propongono in sintesi:

1. L'evoluzione del Fondo salva-stati, ampliato nelle funzioni il 21 luglio scorso, ma ancora inadeguato, in una Agenzia europea per il debito, dotata delle risorse sufficienti ad acquistare i titoli dei paesi aderenti ed emettere titoli di debito europei (eurobonds) garantiti in modo collettivo.

2. Un piano di ristrutturazione dei crediti sovrani e di ricapitalizzazione delle banche, gestito a livello dell’intera area europea.

3. Un piano europeo di investimenti per l’occupazione, l’ambiente e l’innovazione, alimentato dalle risorse raccolte attraverso l’emissione di eurobonds e project bonds, l’introduzione di specifici strumenti fiscali a livello europeo, tra i quali la Financial Transaction Tax e la tassazione a finalità ambientali, insomma un piano complementare all’avanzamento del mercato unico, secondo quanto previsto dal Rapporto Monti.

4. Un’inversione di marcia nella distribuzione del reddito da lavoro e della ricchezza, da realizzare sul mercato del lavoro e nel welfare e nel fisco, per contribuire a restituire dignità al lavoro potere d’acquisto e sicurezza alle famiglie.

A tali aspetti condivisi, nel dibattito tra i socialisti europei, il Pd ha proposto di aggiungere uno “standard retributivo” europeo per coinvolgere anche i paesi in surplus di bilancia commerciale (Germania, Olanda, Austria) nel processo di aggiustamento. Lo standard retributivo implica un allineamento della dinamica delle retribuzioni reali con quella della produttività, intesa in termini aggregati, generali o settoriali (e dunque oltre la tenuta del potere d'acquisto).

Insomma, i progressisti europei, oltre a Obama negli Usa, hanno rialzato la testa. Innanzitutto sul piano culturale, condizione necessaria per vincere sul terreno politico. L'agenda di policy ricordata interviene a ricostruire l'impalcatura politico-istituzionale europea e a ridefinire le condizioni per le democrazie delle classi medie, fondate sulla dignità della persona che lavora. È una sfida ambiziosa e drammatica, ma non ci sono alternative. Soltanto il salto di scala politico nell'area euro (almeno) può dare futuro al lavoro.

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Commenti

A Filippo, l'infiltrato della "Voce"

Ma possibile che anche qui arrivino gli adepti di Boeri e di Giavazzi? Ma rimanete sulla Voce a continuare con il vostro liberismo!

Tietmeyer, cultura, comunicazione

Articolo condivisibile. Aggiungo poche osservazioni da semplice lettore di giornali, scusandomi della lunghezza.
1) Tietmeyer.
Non è (era) la “bottegaia” Merkel. E’ stato un europeista convinto, un uomo determinato ed un amico dell’Italia, tanto da meritarsi la massima onorificenza da parte del presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Ecco uno stralcio del discorso di Ciampi in occasione del conferimento:
“Sono lieto di avere qui il Presidente Tietmeyer per potergli conferire personalmente la "Gran Croce dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana". E vorrei anche, non dico spiegare perché tutti credo che già lo sappiano, ma anche ricordare a noi tutti i motivi per i quali ho ritenuto che il Presidente Tietmeyer meriti altamente questa onorificenza. […]. A Lui l'Italia deve molto. Prima di tutto, perché è stato il Presidente della Bundesbank con una più profonda e sicura visione europeista”. […].
http://www.quirinale.it/qrnw/statico/ex-presidenti/ciampi/dinamico/discorso.asp?id=9760

2) Cultura.
Opportune le osservazioni di Stefano Fassina sul fattore culturale, ma esso va ampliato. Se si facesse un’indagine comparativa tra i vari Paesi, sono sicuro emergerebbero due fattori chiave peculiari dell’Italia: uno, a carattere più specifico, sul ruolo protettivo ed orientato alla bassa propensione al rischio dei genitori, segnatamente della mamma, nella costruzione della personalità dei figli; l’altro, più generale e quasi corollario del primo, la carente diffusione di quello che Robert Musil (ne “L’uomo senza qualità”), con felice espressione, sintetizza così: “La forza di un popolo è conseguenza dello spirito giusto, e non vale l’inverso”.
Occorre, parallelamente alle misure economiche, un progetto educativo nazionale. Qualche mese fa, su Radio3, ho ascoltato l’intervista ad una professoressa sul tema della “Resilienza” (la resilienza è la proprietà di alcuni corpi che quando subiscono un urto non solo non si rompono, ma restituiscono energia cinetica), in rapporto ai sopravvissuti ai lager nazisti, che, nonostante la loro terribile esperienza, sono riusciti ad avere un’esistenza normale, talora di successo. L’esperta ha indicato alcuni fattori. Fattori protettivi:
1. caratteristiche individuali (in piccola parte);
2. famiglia in cui si è vissuto;
3. ambiente (soprattutto)
Se la famiglia d’origine ha svolto una funzione educativa tenendo insieme la dimensione affettiva e la dimensione etico-normativa, questo ha costituito un fattore protettivo enorme.
http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-b754e547-258f-47f6-8efe-98c4dc89519b.html#
Le moderne neuroscienze hanno dimostrato che il cervello di un bambino appena nato possiede già l’intero patrimonio di neuroni (circa cento miliardi http://it.wikipedia.org/wiki/Neurone ), che però sono pressoché privi di collegamenti fra di loro. Lo sviluppo dei collegamenti (assoni e sinapsi) avviene gradualmente nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. I collegamenti (in media circa diecimila per ciascun neurone) sembra si sviluppino per caso ma si stabilizzino (si fissino) soltanto se vengono “utilizzati” (gli altri si atrofizzano).
Questa plasticità del cervello infantile e adolescente è la ragione che rende così importante l’istruzione dei giovani fin dalla prima infanzia, anzi essa deve cominciare già durante gli ultimi mesi della gravidanza. L’istruzione determina quali sinapsi si fisseranno e quali no.
Non ci sono differenze, quindi, nel patrimonio di neuroni; ci sono differenze nel modo in cui i neuroni si collegano l’uno all’altro, e questo modo è fortemente dipendente dall’educazione.

3) Come ho scritto nei miei commenti agli articoli della Rossanda e di Mario Pianta, c’è la necessità di nuove regole per i mercati finanziari, ma anche di un movimento di popolo, aiutato dai nuovi strumenti della comunicazione (non molto, purtroppo, dai partiti di centrosinistra, troppo chiusi, autoreferenziali e che attuano un tipo di relazione quasi esclusivamente top-down), per contrastare la pretesa di un'infima minoranza di decidere per tutti, e soprattutto un grosso lavoro d’informazione per far fronte al fenomeno che io ho battezzato degli “utili idioti”, cioè i milioni di persone che, analogamente a ciò che, secondo Einstein nella lettera a Freud, avveniva per la guerra, arrivano a sostenere politiche economiche, propugnate da pochi, che vanno a loro danno.
Qualche utile spunto al riguardo lo si può anche facilmente inferire da qualche commento in calce a questo articolo.

Schwarze Milch

non è scritto in nessuna storia dell'uomo che chi è ricco oggi debba rimanerlo anche domani perché sì. Questa crisi è del tutto naturale. Colpisce duro, e colpirà duro, senza infingimenti, perché i mercati hanno sì a che vedere con la psicologia ma pure con i ragionamenti di milioni di investitori internazionali che non hanno troppe convenzioni reciproche; e la psicologia generale dipende alla fine dai ragionamenti più ficcanti. Ogni bene, ogni proprietà, ha un valore intrinseco e un valore attribuito dalle convenzioni sociali. Nel presentare questa parte di convenzione al mercato aperto ci si espone a ragionamenti abbastanza indipendenti dalle nostre convinzioni. Risulta pertanto inevitabile che questo tipo di crisi di fiducia si abbatta principalmente sui paesi che hanno una forbice divaricatissima tra produttività e patrimoni, evidenziando la forbice fra convenzioni e razionalità: in pratica si assiste, non al crollo del capitalismo, ma ad una sua differente interpretazione a partire dalla ridefinizione qualitativa del termine lavoro. L'Italia, da questo punto di vista, è praticamente spacciata; soprattutto perché presenta governance inadeguata e convenzioni medievali, cioè mobilità sociale ormai nulla; e cerca di difendere l'indifendibile con la violenza su chiunque si avvicini al punto. La domanda incalzante è: quel dato valore intrinseco, per quali ragioni appartiene ancora a qualcuno che non combina niente? Cioè: che razza di lavoro è? E poi: perché, da 20 anni a questa parte, ci arrivano i vostri giovani migliori stravolti e traumatizzati? Cosa sta succedendo in realtà là dentro? E quando si adducono spiegazioni bislacche che nulla hanno a che fare con la qualità ma molto con la fatalità (magari pronunciate in inglisc dal trota, da piersilvio, da lapo, da emma, da nicole, da mara e marianna ecc. ecc.), addio, vendi tutto, nascondi, paura. Il valore intrinseco dei patrimoni italiani è comunque altissimo, ma messo sistematicamente in mano agli stupidi che si credono furbi diventa il sistema più pericoloso al mondo, capace di distruggere l'Europa. Qualcuno li chiama risparmi delle famiglie, qualcun altro mafia. Penso si sbaglino entrambi, ma qui il discorso si fa molto complesso e lo lascio a chi è riuscito, in pieno agosto, a seguirmi fin qui senza vendere anche se stesso nel frattempo.


Gentile Fassina, questi ragionamenti, che qui ho sintetizzato sbrigativamente, li ho visti svilupparsi in modo virulento con i miei occhi in Germania. Mica me li invento qua. Un 2/3 anni fa si iniziava a parlare di un euro a 2 velocità, poi di una specie di Lebensraum e ho cercato di oppormi con tutte le mie limitatissime forze. Mancava solo riferirsi al Blitzkrieg. In Italia nel mentre non capivo cosa steste combinando, si sentiva parlare di puttane e stabilità, tremonti sparava cazzate e tutti dicevano (in Italia) che era rispettato e che la Germania, guarda la Germania! che paese! Dio mio: ma cos'è l'Europa per voi? Troppa stanzialità intellettuale, uccide. Coi tedeschi - come con tutti - bisogna ragionarci, e saper dire qualcosa di meglio sull'Europa che vogliamo. Perché dipende ancora da noi e dal meglio che abbiamo. Sono perciò sconcertato dalle soluzioni bislacche che si evidenziano in questo articolo di un PD culturalmente disastrato e tagliato fuori dal dibattito europeista.

censor

Anni '70

Caro Fassina,

con queste proposte da "ruggenti anni '70" credo che noi del centro sinistra non andremo molto lontano: sicuramente vinceremo le prossime elezioni (SB e' ormai zombie), ma governare richiedera' di mettere in soffitta le vecchie idee post-keynesiane / sraffiane (attenzione, non quelle "keynesiane ortodosse"). Molto proposte contenute in questo articolo rappresentano "assurdi analitici" che "nessun economista serio prenderebbe sul serio": semplicemente improponibili.
E' tempo di fare un balzo nel 2011 se vogliamo governare con successo nei prossimi anni.

Cordialita'

Anni '70

Caro Fassina, con queste proposte da ruggenti anni '70 non si va da nessuna parte.
Se si vuole vincere e governare credibilmente per i prossimi anni, e' ora che il centro sinistra metta in soffitta una volta per sempre i vari paradigmi post-keynesiani, sraffiani, etc: roba che "nessun economista serio prende sul serio".

Occorre una politica economica alternativa

Su questo sito Rossana Rossanda nel suo articolo «Le crisi senza Unione" così aveva fatto invito: «Mi rivolgo a chi ne sa più di me, cioè agli amici economisti e ai padri e ai padrini (di battesimo, in senso cattolico) della Ue, nella speranza che rispondano.....». E, tra le varie domande avevano un senso «Non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? E come si ripara?».
Premesso che «padri» e «padrini» e parlo di quelli che sono stati molto impegnati anche per l'euro, pur oggi ancora attivi in quanto pubblicano articoli e rilasciano interviste non sono disponibili a fare alcuna autocritica e non sono per niente disponibili a fare alcun confronto né su temi economici legati all'Ue, e né (Non sia mai!) sui risvolti dei fenomeni monetari ad esempio legati alle scelte della Bce.
Si saluta quindi con piacere che Stefano Fassina, Resp.economico della segreteria del Partito Democratico, il primo agosto ha pubblicato su questo sito un articolo «L'Europa salvi l'Europa» proprio sul senso dell'Unione europea. Scrive: «La sinistra europea può combattere la crisi, unendosi su alcuni obiettivi: evoluzione del Fondo salva-stati, ristrutturazione dei crediti sovrani, piano europeo per il lavoro, eurobond, tasse ambientali e sulle transazioni finanziarie. E uno standard europeo per i salari».
Sia chiaro e senza equivoci! La maglia delle analisi è largamente condivisibile. L'articolo è ben curato ed è inconfondibilmente firmato dal Resp. economico del partito Democratico e si rivolge in primis ai simpatizzanti di questo partito e non ad altri. Perché? Cercherò di esporre le ragioni del mio dissenso.
Fassina nel punto 4 dice che è necessaria «Un’inversione di marcia nella distribuzione del reddito da lavoro e della ricchezza, da realizzare sul mercato del lavoro e nel welfare e nel fisco, per contribuire a restituire dignità al lavoro potere d’acquisto e sicurezza alle famiglie». Ora io non so a quali figure sociali si rivolge. Certo è che quei cittadini che hanno un reddito reale di 1000 -1200 euro purtroppo non sono oggetto della sua attenzione. Mi si spieghi cosa se ne possono fare di una «Un’inversione di marcia....» se il loro Pil pro-capite resta lo stesso. In pratica, non sanno proprio che farsene. Questi cittadini chiedono un aumento del potere di acquisto di salari, stipendi, e pensioni. Caro Fassina servono politiche economiche alternative.
In finale del suo articolo scrive: «A tali aspetti condivisi» il punto 4 che cosi si presenta «nel dibattito tra i socialisti europei, il Pd ha proposto di aggiungere uno“standard retributivo” europeo per coinvolgere anche i paesi in surplus di bilancia commerciale (Germania,Olanda, Austria) nel processo di aggiustamento. Lo standard retributivo implica un allineamento della dinamica delle retribuzioni reali con quella della produttività, intesa in termini aggregati, generali o settoriali (e dunque oltre la tenuta del potere d'acquisto)».
Riconosco che Fassina è impegnato «oltre la tenuta del potere d'acquisto» e si spera che il Pd, richiamato dai «padri» e «padrini» non faccia scelte diverse. Ma quale è la garanzia che possiamo avere che questo «standard retributivo» resti acquisito per davvero e non sia uno slogan pubblicitario? La garanzia è in funzione della scelta che il Pd chieda che in Italia la domanda interna deve essere sostenuta. Solo così si può dare un senso al potere di acquisto di salari, stipendi, e pensioni. Solo così come penso è possibile rilanciare una politica economica alternativa.

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