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Idee contro interessi. La buona economia di Keynes

19/04/2012

Il nuovo libro di Giorgio Lunghini "Conflitto, crisi, incertezza" offre un “manuale” alternativo alla teoria economica dominante, con le idee dei classici, da Marx a Sraffa. Un estratto

Il pensiero di Keynes è realmente pericoloso, poiché comporta una riflessione e una scommessa sui fini, anziché sui mezzi, che la politica può e deve darsi in questo mondo. Questo mondo, il capitalismo decadente, internazionale ma individualistico, a Keynes non piace: «Non è intelligente, né bello, né giusto, né virtuoso, né si comporta come dovrebbe. In breve non ci piace e anzi stiamo cominciando a detestarlo. Ma quando ci domandiamo che cosa mettere al suo posto, siamo estremamente perplessi». Per quanto perplesso, anzi proprio per questo, Keynes non è un conservatore. Egli infatti esclude che i difetti di questo mondo possano essere emendati applicando la dottrina del laissez-faire, di cui confuta i principi metafisici e denuncia le conseguenze: «Se lo scopo della vita è cogliere le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo migliore di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto».

I difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono, per Keynes, l’incapacità a provvedere una occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito; e con eccellenti argomentazioni teoriche Keynes nega che possa essere lui – il grande capitano di industria, il maestro individualista – che ci condurrà per mano in paradiso. Dunque dovrà intervenire lo Stato. Questo non significa che lo Stato debba sostituirsi all’impresa privata:

“Dobbiamo tendere a separare quei servizi che sono tecnicamente sociali da quelli che sono tecnicamente individuali. L’azione più importante dello Stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno prende se non le prende lo Stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto. [...] Il nostro problema è elaborare un’organizzazione sociale che sia la più efficiente possibile, senza offendere le nostre nozioni di un soddisfacente sistema di vita”.

I difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono oggi gli stessi che Keynes denunciava nel 1936: l’incapacità a provvedere una occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito. Questa persistenza patologica non trova spiegazioni convincenti nell’antropologia e nell’analisi economica reazionarie; mentre la possono spiegare la Teoria generale di Keynes e la miopia dei conservatori: «La difficoltà sta nel fatto che i leader capitalisti nella City e in Parlamento non sono capaci di distinguere i nuovi strumenti e le misure per salvare il capitalismo da quello che loro chiamano bolscevismo». Per lunghi periodi il keynesismo può anche essere sembrato dominante, in forme più o meno oneste di spesa pubblica. Keynes ha certamente autorizzato un intervento, diretto o indiretto, a sostegno della domanda effettiva e dunque dell’occupazione. L’idea era che soltanto by accident or design la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, avrebbe coinciso con la produzione corrispondente al pieno impiego, e che perciò un intervento attivo del governo normalmente sarebbe stato necessario.

Molti invocano oggi, come possibile soluzione della crisi attuale, un nuovo New Deal. Perché quella esperienza è irripetibile? Perché gli strumenti detti «keynesiani» erano disegnati per un’economia fordista (uso le virgolette perché Keynes non scommetteva sulla efficacia di politiche keynesiane: «Questa che io propongo è una teoria che spiega perché la produzione e l’occupazione siano così soggette a fluttuazioni: essa non offre una soluzione bella e pronta al problema di come evitare queste fluttuazioni e mantenere costantemente la produzione a livello ottimale»). La produzione fordista era una produzione di massa di beni di consumo durevoli standardizzati e destinati prevalentemente al mercato interno. Erano necessari grandi investimenti, con cospicui effetti moltiplicativi sul reddito e sull’occupazione. Era possibile, e necessaria, una spartizione tra capitale e lavoro salariato dei guadagni di produttività generati dalla organizzazione tayloristica del lavoro. Imprese, famiglie, governo, la società tutta, nel mondo fordista dovevano avere orizzonti temporali lunghi. Nel mondo della finanza, che è il sottoprodotto delle attività di un casinò, tutto ciò non è più possibile poiché ne manca la base materiale. Il moltiplicatore di una politica di spesa pubblica difficilmente sarà maggiore di uno. Né potrà essere molto efficace un intervento di stimolo indiretto, mediante una riduzione del tasso d’interesse: in una situazione di deflazione, la conseguenza più probabile è la trappola della liquidità, non l’aumento degli investimenti privati.

Anziché il Keynes del breve periodo, tuttavia, è il Keynes radicale cui si dovrebbe pensare, anche perché ce ne sono le condizioni (non anche la volontà politica). Questo Keynes, il Keynes del capitolo 24 della Teoria generale, sulla filosofia sociale verso la quale la sua teoria generale potrebbe condurre, in verità non ha mai dominato, in nessun governo e in nessuna università. Eppure vi si trovano analisi e disegni di estremo interesse. Che cosa si dovrebbe fare, e si potrebbe fare, se davvero si condivide il giudizio che la disoccupazione e l’ineguaglianza sono dei mali da guarire? Secondo questo Keynes si dovrebbero fare tre cose:

“1. Nelle condizioni contemporanee l’aumento della ricchezza, lungi dal dipendere dall’astinenza dei ricchi, come in generale si suppone, è probabilmente ostacolato da questa. Viene quindi a cadere una delle principali giustificazioni sociali della grande disuguaglianza delle ricchezze. [...] Per mio conto, ritengo che vi siano giustificazioni sociali e psicologiche per rilevanti disuguaglianze dei redditi e delle ricchezze, ma non per disparità tanto grandi quanto quelle oggi esistenti. Vi sono pregevoli attività umane che richiedono il movente del guadagno e l’ambiente del possesso privato della ricchezza affinché possano esplicarsi completamente. Inoltre, l’esistenza di possibilità di guadagni monetari e di ricchezza privata può istradare entro canali relativamente innocui pericolose tendenze umane, le quali, se non potessero venir soddisfatte in tal modo, cercherebbero uno sbocco in crudeltà, nel perseguimento sfrenato del potere e dell’autorità personale e in altre forme di autopotenziamento. È meglio che un uomo eserciti la sua tirannia sul proprio conto in banca che sui suoi concittadini. [...] Ma per stimolare queste attività e per soddisfare queste tendenze non è necessario che le poste del gioco siano tanto alte quanto adesso. Poste assai inferiori serviranno ugualmente bene, non appena i giocatori vi si saranno abituati. Però non deve confondersi il compito di tramutare la natura umana col compito di trattare la natura umana medesima. Sebbene nella repubblica ideale sarebbe insegnato, ispirato o consigliato agli uomini di non interessarsi affatto alle poste del gioco, può essere pur tuttavia saggia e prudente condotta di governo consentire che la partita si giochi, sia pure sottoponendola a norme e limitazioni, fino a quando la media degli uomini, o anche soltanto una sezione rilevante della collettività, sia di fatto dedita tenacemente alla passione del guadagno monetario.

2. Ora, sebbene questo stato di cose sarebbe del tutto compatibile con un certo grado di individualismo, esso significherebbe l’eutanasia del rentier e di conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale. Oggi l’interesse non rappresenta il compenso di nessun sacrificio genuino, come non lo rappresenta la rendita della terra. [...] Potremmo dunque mirare in pratica (non essendovi nulla di tutto ciò che sia irraggiungibile) a un aumento del volume di capitale finché questo non fosse più scarso, cosicché l’investitore senza funzioni non riceva più un premio gratuito: e a un progetto di imposizione diretta tale da permettere che l’intelligenza e la determinazione e l’abilità del finanziere, dell’imprenditore et hoc genus omne (i quali certamente amano tanto il loro mestiere che il loro lavoro potrebbe ottenersi a molto minor prezzo che attualmente) siano imbrigliate al servizio della collettività, con una ricompensa a condizioni ragionevoli.

3. Lo Stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione a consumare, in parte mediante il suo schema di imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse e in parte, forse, in altri modi. Per di più, sembra improbabile che l’influenza della politica bancaria sul saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento. Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per consentire di avvicinarci all’occupazione piena; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con la privata iniziativa. [...] Non è la proprietà degli strumenti di produzione che è importante che lo Stato si assuma. Se lo Stato è in grado di determinare l’ammontare complessivo dei mezzi dedicati ad aumentare gli strumenti di produzione e il saggio base di remunerazione per coloro che li possiedono esso avrà compiuto tutto quanto è necessario. Inoltre le necessarie misure di socializzazione possono essere introdotte gradualmente e senza apportare una soluzione di continuità nelle tradizioni generali della società”.

Proporre queste tre ricette (redistribuzione della ricchezza e del reddito, eutanasia del rentier, e una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento) come strumenti per combattere la disoccupazione e l’ineguaglianza può sembrare una predica. Esse si reggono invece su analisi difficili da liquidare, tanto che il problema viene spesso rimosso definendo la disoccupazione e l’ineguaglianza come fenomeni «naturali». Citando un aforisma di P. Valéry, Keynes ricorda che i conflitti politici distorcono e disturbano nella gente il senso di distinzione tra questioni di importanza e questioni di urgenza e che dunque il cambiamento economico di una società è cosa da realizzare lentamente. È vero che il cambiamento economico di una società è un processo lento, poiché richiede consenso politico circa un diverso modello di società, diverso circa la strada da prendere anziché restare in un centro inesistente.

Le configurazioni reali dell’equilibrio capitalistico non sono un dato di natura, una sorta di «centro di gravitazione», né una verità logica, una sorta di teorema della «scienza economica». Keynes – in questo vicino suo malgrado a Marx – esercita il ragionamento fino alla sua capacità estrema, fino a mostrare la precarietà del reale presente; ma scritta tutta la parte del ragionamento argomentabile con calma, praticamente tutto il resto – tutto il futuro – è lasciato libero. Keynes è consapevole che nessuna politica può essere determinata e fondata completamente da una teoria, e che le istituzioni sono istituzionalmente costrette e tenute a costruire e a imporre se stesse come parametri ai quali la società civile (i rapporti materiali dell’esistenza) e i comportamenti individuali dovranno conformarsi. Gli interessi costituiti per loro natura riducono e puniscono come errori di calcolo le controversie, i conflitti e le contraddizioni. Eppure Keynes l’ottimista è sicuro che:

“il potere degli interessi costituiti è assai esagerato in confronto con la progressiva estensione delle idee. Non però immediatamente, [...] giacché nel campo della filosofia economica e politica non vi sono molti sui quali le nuove teorie fanno presa prima che abbiano venticinque o trent’anni di età, cosicché le idee che funzionari di Stato e uomini politici e perfino gli agitatori applicano agli avvenimenti correnti non è probabile che siano le più recenti. Ma presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male”.

Fatto il conto delle generazioni tra il 1936 e oggi, è dunque tempo che gli uomini della pratica, i quali si credono liberi da qualsiasi influenza intellettuale, scoprano come vivo questo economista defunto. Vi troveranno almeno una risposta analoga a quella che il gatto, che aveva lunghi unghioli e tanti denti, dà ad Alice nel paese delle meraviglie. «Vuoi dirmi che strada dovrei prendere per uscire di qui?», chiede Alice al gatto acquattato sull’albero. «Dipende molto da dove vuoi andare», è la risposta.

 

Giorgio Lunghini, "Conflitto, crisi, incertezza. La teoria economica dominante e le teorie alternative", 132 pagine, 14 euro. © 2012 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86, Gruppo editoriale Mauri Spagnol.

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Commenti

Cambire ottica

@Lucia
ma qui non s'è ancora visto nessuno affrontare "una crisi che dura da 5 anni" con strumenti realmente alternativi a quelli dell'economia liberista, però. Quindi non se ne può dedurre che si debba abbandonare Keynes e accogliere il liberismo per questo motivo, se mai il contrario.
Quanto alla decrescita, può essere qualcosa di interessante se se ne fa un uso un po' più serio dei blateramenti sul "comprate i vestiti usati e rinunciate al cappuccino al bar" che spopolano tra certi politically correct. Ovvio che la decrescita sia una cosa diversa, per fortuna. Ma i modelli di comportamento che propone possono valere per chi ha già un reddito medio-alto, e in un periodo di prosperità, non di miseria come l'attuale.

Keynes e l'articolo di Perotti

Il prof. Perotti è autore di un giro di valzer storico testimoniabile attraverso il confronto fra i suoi articoli precedenti il 2008 e quelli successivi. Questo gli ga onore: è giunto a riscoprire il ruolo del moltiplicatore dei consumi e la funzione importante che esso ha per la crescita economica. Purtoppo ciò che egli chiama moltiplicatore keynesiano non è il moltiplicatore di Keynes. Non si tratta di questioni filologiche: la comprensione del concetto di propensione marginale al consumo e la necesità di costruire una tassonomia delle propensioni marginali al consumo riferite alle diverse classi di reddito è un punto centrale per comprendere l'efficacia delle politiche fiscali.
Purtroppo Perotti, come tanti altri, non hanno ancora colto la rilevanza che le aspettative (non razionali nel senso della nuova macroeconomia classica) hanno sul livello degli investimenti, e per questo tramite sulla domanda effettiva.
Peccato... uno studio attento di Keynes potrebbe persino condurre a passi in avanti nel terenno dell'econometria, ambito teorico che personalmente conosco poco, ma che cerco di studiare e comprendere - come tanti postkeynesiani (faccio due nomi tra quelli più promettenti delle nuove generazioni J. T. Harvey in USA e G. Zezza in Italia). Sarebbe auspicabile che anche il prof. Perotti e gli economisti che sono cresciuti focalizzandosi solo sull'econometria e sulla teoria economica dei Chicago Boys - nei ruggenti anni Novanta - dei MIT Boys - soprattutto negli ultimi 5 anni - studiassero la teoria economica postkeynesiana . Per farlo bisogna partire dalla lettura attenta, senza atteggiamenti presuntuosi, della Teoria Generale. Scorciatoie non ce ne sono. Temo che questo sforzo il prof. Perotti, molti colleghi, troppi studenti di economia e molti uomini onesti che si impegnano nei movimenti sociali non lo abbiano mai fatto. Epperò tutti costoro si permettono di di dire la loro su Keynes, il keynesismo, i keynesiani, i postkeynesiani. Fatelo, ma prima studiate per cortesia.

Il vero progresso della scienza economica

Il Professor Lunghini e' stato mio professore a Pavia nella prima meta' degli anni '90.
Ricordando le sue lezioni e leggendo questo articolo non posso che concordare con quanto scrisse Perotti sul Sole 24 Ore circa la rilevanza scientifica degli economisti "keynesiani sraffiani" nel mondo accademico contemporaneo.

Perotti:
"Quando vado a un convegno internazionale di economia, vedo lavori scientifici in cui si tenta di capire cosa succede, per esempio, se si aumenta la spesa pubblica di x punti percentuali. Di quanto sale il consumo? Chi ne beneficia di più, i più poveri o i più ricchi, i più giovani o i più anziani? Che cosa succede agli investimenti privati? Domande forse noiose ma concrete, e fondamentali per tentare di fornire una guida alla politica economica.

È molto difficile incontrare un economista keynesiano tradizionale (uso questo termine per brevità, ma impropriamente perché comprende anche per esempio i neoricardiani, e senza alcuna accezione pregiudiziale negativa contro Keynes, Ricardo o la tradizione) con cui poter parlare di questi argomenti in questi termini, con numeri e percentuali, e della metodologia più adeguata per affrontarli.

Spesso la risposta a queste domande (se mai vengono poste) viene cercata non confrontandosi con i dati, ma in un'esegesi infinita di ogni virgola scritta da Keynes, Kaldor o Sraffa, oppure in complicate digressioni filosofico-moraleggianti sulle supposte motivazioni ideologiche e mancanze etiche dei presunti oppositori"

Memento studere semper

Non credo si debba essere censori della decrescita, e neanche dell'economics, e persino del liberismo. Ma consiglio vivamente di coltivare onestà intellettuale e senso critico soprattutto a tutti coloro che vogliono teorizzare la decrescita, come anche agli studiosi convinti della superiorità scientifica dell'economics, persino ai liberisti più convinti. L'ultimo libro di Giorgio Lunghini, come anche l'anticipazioni pubblicata da sbilaciamoci, è uno strumento molto utile per coloro che vogliono riflettere di economia politica con onestà intellettuale e senso critico. Nella storia delle idee vi sono dei percorsi e dei problemi inaggirabili: se non si affrontano o se si fa finta che non esistano, si possono combinare molti guai per sé e per gli altri (proporzionalmente alle responsabilità che si hanno), soprattutto quando si è animati da buone intenzioni. Il pensiero di Ricardo, di Marx, di Keynes, di Sraffa, dunque i temi del conflitto, della crisi e dell'incertezza costituiscono una buona parte di questi problemi inaggirabili. L'ultimo libro di Giorgio Lunghini è uno splendido abbecedario per il lettore comune che poco o nulla sa di teorie economiche. Chi avrà la pazienza di leggerlo, al termine della lettura si troverà arricchito e desideroso di approfondire ed attualizzare un'economia politica critica.

Il coraggio di rompere col passato.

Ho il massimo rispetto e stima per le -sempre troppo sottovalutate e tralasciate- idee di JMK. E per quanto in questo periodo di crisi in tanti sembrino riscoprirlo, qualcosa non mi convince mai quando vecchie idee tornano di moda. D'altra parte, si tralascia sistematicamente anche il pensiero di Marx nei moderni corsi di economia, come se fosse qualcosa di contagioso. Sembra che molti abbiano paura anche solo a pronunciare parole come "conflitti di classe" e anche solo "capitalismo" per paura di sembrare bolscevichi vetusti, eppure per quasi un secolo si è ragionato secondo queste categorie.
Il problema è che attaccarsi disperatamente ad idee e uomini, per quanto grandi, vissuti quasi un secolo fa, quasi come fossero un'ancora di salvezza (o forse l'unica ancora di salvezza?) difficilmente la trovo una soluzione. E' l'equivalente dell'attaccarsi al povero Adam Smith e a Ricardo per giustificare le politiche liberiste e neo-liberiste, per uscire da uno stato che era diventato, in quegli anni, oppressivo e tentacolare. Il problema è che si sceglie sempre una visione parziale degli autori, a cui ci si aggrappa per creare una giustificazione. Ma l'umanità non va avanti guardando indietro, e anche se dobbiamo sempre ricordarci che siamo nani sulle spalle dei giganti, dobbiamo essere consapevoli che i progressi avvengono per rottura, per frattura del paradigma esistente: questo lo si vede chiaramente nelle scienze "dure".
Quindi, personalmente ritengo che la sfida sia quella di cominciare a pensare in modo diverso. Che sicuramente conterrà elementi keynesiani, elementi liberisti, elementi del pensiero della decrescita (qualcosa di cui sarebbe bene smettere di prendersi gioco, perché che il nostro mondo sia un sistema chiuso è una verità, e che il capitalismo funzioni sull'aumento costante della produzione e dell'accumulazione di capitale è un'altra verità, basta vedere il panico che si scatena quando le previsioni per la crescita della cina la danno "solo" al 4% invece che al 10%, e che queste due cose alla lunga siano difficilmente compatibili, è una conclusione non troppo difficile a cui arrivare.) Il punto è che quando una "crisi" dura da 5 anni senza segni di recupero, bisogna porsi delle domande, e cercare di darsi delle risposte provando a cambiare ottica. E magari sì, provando anche a sfidare le convenzioni tirando fuori idee e nomi persi nel tempo, a patto che non diventino, appunto, solo un appiglio, ma siano invece un punto di partenza e un trampolino per idee nuove, che abbiano il coraggio di pensare l'impensabile e cambiare paradigma.
Per esempio, potremmo smetterla di pensare all'economia come una scienza, e agli "equilibri" come se fossero leggi di gravitazione universale. Non c'è scritto da nessuna parte che l'efficienza debba coincidere con la massimizzazione del profitto e la minimizzazione del salario, per esempio.
Non è che siccome applico gli strumenti della fisica all'astrologia, all'improvviso l'astrologia diventa una scienza, no?

La decrepita economia di Savino e soci

Savino e quanti ne condividono le chiacchiere riducono il discorso di alto profilo di Lunghini su Keynes ad un cumulo di banalità agitate e di scarso effetto agitatorio. Savino e soci vorrebbero il ritorno al sistema monetario aureo (abolire la moneta cartacea emessa da un'autorità pubblica), teorizzano le virtù della decrescita economica, vagheggiano una società di poveri, parsimoniosi, attenti a preservare alberi e formiche, produttori di merci prive di un marchio, eventualmente il predominio del baratto (a che servono negozi e supermercati?), dunque la disintegrazione della società in tante piccole comunità separate di agricoltori, cacciatori e pescatori. Buttare via il bambino (il capitalismo) con l'acqua sporca (le iniquità dovute alla disuguaglianza distributiva, la distruzione dell'ambiente, la speculazione finanziaria e quant'altro ci opprime). Savino usa la clava di argomentazioni retrograde come gli operai a suo tempo reagivano alla rivoluzione industriale boicottando le macchine.

La vetusta economia di Keynes

La buona economia di Keynes..???
1) è il principale artefice di questo disastro, a cominciare dalla moneta fiat. Il valore monetario è stato relativatizzato ad un rapporto interconnesso. Produrre moneta a debito ha dato la stura alla finanza creativa. Ha fatto della scienza economica una patafisica da scuola di Magia e Stregoneria di Harry Potter.
2) Il sistema Stato-moneta si regge sul teorema della produttività. Ogni nazione per restare a galla deve produrre un sulplus, un di più che deve esportare, la bilancia di pagamento non può essere passiva altrimenti la moneta va a picco. Una nazione non può coltivare l'abbastanza, la sufficienza, non può tenere conto del limite dell'impronta ecologica. E' un sistema APERTO (termodinamicamente parlando) ha bisogno in continuazione di nuovi mercati su cui riversare le merci in esuberanza.
2.2) Deve continuamente aumentare la produttività ed esportare altrimenti va in default. Ma aumentando la produttività la nazione, o meglio gli operai non si arricchiscono anzi, finita l'espansione, perchè c'è saturazione, si riduce sempre più la qualita della vita. (Dagli anni '60-'70 a oggi di tutto questo aumento di produttività alla classe operaia non è rimasto niente, si sono mangiati pure la pensione accumulata; se non ci sono le nuove entrate degli operai non c'è pensione per nessuno)
3) Il principale sistema per mantenere alta la produttività è la svalutazione (fabbrica moneta) in questo modo gli unici a non potersi difendere sono quelli a salario fisso (la svalutazione è una tassa occulta, ed è di fatto una patrimoniale al contrario). Questo ha generato la forbice delle ricchezze, le diseguaglianze sociali sono progressivamente aumentate.
4) Insistere su Keynes vuol dire non capire le dinamiche principali del profitto del capitale, che si sono spostate dalla fabbrica alla distribuzione ("no logo" di Naomi Klein); ma qui peccano in tanti anche i liberisti.
5) Ci sono capitali finanziari in giro nel pianeta enormi (11 volte il pil delle nazioni) e tutti queste montagne di capitali non possono entrare in sistemi produttivi di beni e servizi perchè non c'è niente da produrre, se entrerebbero in produzione saremmo tutti sommersi da merci.

Quindi l'ultima cosa che ci serve è una ripresa nello stile Keinesiano.
Qui serve effettivamente cambiare paradigmi dell'economia, ritornare con i piedi per terra (ante Bretotton Wood), e cercare una economia dell'ABBASTANZA, del mantenimento, dell'accumulo non distruttivo della ricchezza, del miglioramento progressivo qualitativo della vita.
Invece -anche con i modelli keynesiani- l'aumento della aspettativa di vita sono visti come affondamento della produttività di un paese.

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