Ultimi articoli nella sezione

08/12/2015
COP21, secondo round
di Lorenzo Ciccarese
03/12/2015
Lavoro, la fotografia impietosa dell'Istat
di Marta Fana
01/12/2015
La crisi dell’università italiana
di Francesco Sinopoli
01/12/2015
Parigi, una guerra a pezzi
di Emilio Molinari
01/12/2015
Non ho l'età
di Loris Campetti
30/11/2015
La sfida del clima
di Gianni Silvestrini
30/11/2015
Il governo Renzi "salva" quattro istituti di credito
di Vincenzo Comito
alter
capitali
italie
globi

Gli incoscienti sostengono il default

03/11/2011

Come si può sostenere la giusta battaglia per i beni comuni e contemporaneamente auspicare il fallimento dell'istituzione collettiva che dovrebbe gestirli e amministrarli?

Gli "indignati" – di qualsiasi età, ma soprattutto i giovani – hanno molte buone ragioni per esserlo. C'è di più: l'indignazione è un sentimento morale che può avere ed è giusto abbia una valenza anche direttamente politica; invece, per anni è stata derubricata a manifestazione d'ingenuità da parte di chi così nascondeva l'indifferenza, il conformismo e l'acquiescenza all’andamento delle cose dietro posizioni che pretendevano di essere politicamente emancipate e "moderne".

L'attualità politica degli indignati sta nel fatto che colgono il carattere epocale della crisi in corso di cui non vogliono pagare le conseguenze dopo aver subito il dispiegarsi delle sue cause; la natura dell’indignazione è progressista perché la rimozione delle sue origini sanerebbe ingiustizie e inefficienze che non solo pesano sugli "indignati", ma ostacolano il cambiamento economico e sociale che favorirebbe la collettività nel suo insieme.

Tuttavia, anche le migliori ragioni trovano difficoltà ad affermarsi se sostenute in modo ambiguo e controproducente. Ad esempio, lo slogan “la vostra crisi non la paghiamo” non può essere confuso con la sua parodia “il debito non si paga” o con la sua più becera versione “chi se ne frega del default”, il cui sapore avanguardista evoca la violenza prevaricatrice del “blocco nero”. La “indignazione” è un sentimento spontaneamente sorto in tutto il mondo dalla giusta e crescente insofferenza verso il modello socio-economico che nell’ultimo trentennio, favorendo pochi a danno di molti, ha umiliato il lavoro, ha precarizzato la vita, ha saccheggiato la natura, ha aumentato le sperequazioni reddituali e ha subordinato le scelte democratiche prese nell’ambito delle istituzioni pubbliche a quelle decise da poche persone nell’ambito dei mercati. Dalla generalizzata presa di coscienza di queste tendenze e dalla conseguente indignazione potrebbero svilupparsi la forza e le indicazioni politiche per un superamento dello stato di cose presenti; c’è però anche il rischio che questo movimento spontaneo, anziché strutturarsi sia risucchiato da uno sterile ribellismo qualunquista – praticato nelle piazze e sui giornali – che sarebbe propedeutico a un esito regressivo.

Un ulteriore rischio (che qui viene solo accennato) è che l’indignazione venga ridotta a una insofferenza giovanilistica verso le generazioni precedenti; ma se è vero che i giovani stanno particolarmente subendo le cause e le conseguenze della crisi, la discriminazione principale avviene in base alle classi, alle famiglie, ai territori e al genere d’appartenenza delle persone.

Rimandando a una prossima occasione l’analisi della “questione giovanile”, preme adesso chiarire l’equivoco tra la giusta rivendicazione dei tanti che non vogliono subire la crisi generata dai pochi che l’hanno generata e si sono arricchiti, e la controproducente propensione ai default.

La crisi globale in corso si avvia a diventare la più grave della storia capitalistica. Per come si manifesta, le sue cause principali sembrerebbero essere di natura finanziaria, ma non è così. Le sue motivazioni sono più strutturalmente connesse alla difficoltà progressivamente aumentata nell’ultimo trentennio nelle economie sviluppate di equilibrare le crescenti capacità produttive con una domanda effettiva (cioè corredata di mezzi di pagamento) adeguata. Tuttavia, al centro del dibattito sulla crisi e come superarla non ci sono gli effetti dovuti alle accresciute diseguaglianze di reddito e ricchezza, allo squilibrio che la globalizzazione ha generato nei rapporti tra le istituzioni pubbliche e i mercati, alla conseguente autonomizzazione dei mercati dalle esigenze produttive e di consumo socialmente ed ecologicamente compatibili. Invece, la questione che anche in ambienti progressisti ha preso il sopravvento è come fronteggiare i debiti, in particolare quelli degli stati; e sia tra conservatori che tra chi aspira a innovazioni radicali emerge la soluzione del default, ma con differenze che pure vanno notate. Ad esempio, i conservatori tedeschi pretendono il default dello stato greco (e poi, se servirà, di quelli Italiano, portoghese, spagnolo, ecc.) perché ritengono immorale il comportamento dei suoi cittadini e governanti che vivono al di sopra delle loro possibilità. Però sorvolano sul fatto che gli aiuti dell’EU finora dati alla Grecia hanno salvaguardato i bilanci delle banche tedesche che avevano acquistato redditizi titoli greci. Glissano sul fatto che il problema sostanziale derivante dalla mancata riduzione delle diseguaglianze tra i paesi dell’euro è una conseguenza, da un lato, dell’erronea visione comunitaria (fortemente sostenuta dai tedeschi) di affidare il processo unitario solo al mercato e alla moneta e, d’altro lato, dell’esplicarsi del modello economico tedesco, fondato sul saldo attivo della sua bilancia commerciale, che non aiuta affatto l’attenuazione delle distanze nazionali. La riuscita unificazione tedesca era stata perseguita con ben altra consapevolezza delle politiche economiche necessarie. Dunque, i conservatori tedeschi chiedono il default altrui cioè di chi non asseconda le proprie politiche. I fautori nostrani del default lo chiedono invece per il proprio paese, ignorandone gli effetti drammatici, in primo luogo per la maggioranza d’italiani che più sta subendo le cause e le conseguenze della crisi.

I sostenitori del default tendono a dimenticare che ogni debito implica un credito e la loro inscindibile diffusione è un aspetto centrale dello sviluppo economico (indipendentemente da cosa si produce). La finanza, oltre ad altre attività meno utili o addirittura dannose, fa incontrare l’offerta di chi genera risparmio con la domanda di chi lo utilizza per investimenti e consumi (qualunque sia la loro qualità) altrimenti irrealizzabili. Tuttavia, la combinazione debito/credito, anziché funzionale alla crescita produttiva può diventare causa di crisi se assume dimensioni quantitative molto elevate rispetto all’economia reale, se le attività finanziarie da strumentale alla produzione diventano fine a se stesse, se la rischiosità dei prestiti e il loro scollamento da attività reali crescono fino a diventare fuori controllo e se si diffonde anche solo il dubbio che grandi debitori non onoreranno i loro impegni come concordato. A maggior ragione, il verificarsi di un default può rendere più onerosa o addirittura pregiudicare l’attività produttiva e la conseguente creazione di beni e servizi destinati a soddisfare bisogni (a prescindere dalla loro qualità). Il fallimento è la prova che l’attività economica che l’ha generato non è ritenuta valida in base al giudizio del mercato; ma la valenza negativa attribuita al fallimento non deve essere estesa pregiudizialmente al debito che, anzi, come interfaccia del credito, è un presupposto dell’attività produttiva e della sua capacità di soddisfare bisogni (a prescindere dalla loro qualità).

Tra gli enti economici che si indebitano per produrre beni e servizi c’è lo stato la cui attività economica, però, non è finalizzata al profitto individuale, ma (teoricamente) a realizzare direttamente il benessere della collettività. A differenza delle imprese private, le cui scelte sono decise da un ristretto numero di persone tra le tante che in esse operano, quelle dello stato sono definite (o dovrebbero) in base a un meccanismo di rappresentanza democratica che coinvolge (dovrebbe) l’intera collettività.

Le relazioni economiche regolate dalla politica e quelle regolate dai mercati, da un lato possono entrare in conflitto concorrenziale/ideologico; d’altro lato, anche un ramo nobile della visione economica liberale (l’Economia del Benessere) ha contribuito a dimostrare che i mercati lasciati a se stessi non sono in grado di soddisfare bisogni anche primari o, per lo meno, non con modalità efficienti e/o compatibili con gli obiettivi di equità fissati dalla collettività.

La crisi in atto conferma proprio i guasti drammatici di uno sviluppo economico-sociale che nell'ultimo trentennio è stato affidato in misura crescente ai mercati e alla loro connaturata tendenza all'iniquità distributiva svincolandoli progressivamente dalla necessaria e proficua interazione con le istituzioni.

Le caratteristiche dei sistemi economico-sociali e gli equilibri politici odierni sono molto diversi da quelli degli anni Trenta del secolo corso; per uscire dalla crisi attuale non sarà sufficiente una pedissequa riproposizione delle ricette keynesiane che, d'altra parte, se contribuirono a risultati positivi, non furono sufficienti a evitare eccessi e deformazioni applicative. Ma l'esperienza dell'ultimo trentennio indica che per uscire dalla crisi lungo sentieri di maggior progresso economico-sociale ci sia bisogno di dare maggiore spazio ai criteri decisionali di tipo democratico. Probabilmente anche le istituzioni e i loro meccanismi rappresentativi come oggi li conosciamo dovranno adeguarsi. In Europa, lo spostamento di competenze decisionali dai livelli nazionali a quello comunitario potrà essere una chiave di volta per migliorare la nostra situazione e contribuire positivamente a quella mondiale.

La difesa delle istituzioni pubbliche, l’accrescimento della democraticità sostanziale del loro funzionamento, l’aumento della loro capacità d’interazione con i mercati – controllandoli, regolandoli e anche sostituendoli quando necessario (come già avviene ad esempio in molti settori del welfare state) – implica che le istituzioni siano implementate quantitativamente e qualitativamente, contrastando le loro gestioni degenerative che molto hanno contribuito a intaccarne la reputazione nell’opinione pubblica e a seminare una più generale sfiducia nella politica. Ma se questa è la strada che deve essere intrapresa per superare positivamente la crisi – anche con modalità inedite rispetto al passato, come la creazione di istituzioni pubbliche sovranazionali – i disinvolti auspici di default del debito pubblico, intaccando la reputazione delle istituzioni pubbliche esistenti e pregiudicandone la funzionalità economica, vanno nella direzione opposta. Come si può, ad esempio, sostenere la giusta battaglia per i beni comuni e contemporaneamente auspicare il fallimento dell’istituzione collettiva che dovrebbe gestirli e amministrarli?

Se si cerca di pensare agli specifici effetti negativi di un default del debito sovrano italiano è difficile anche solo immaginarli tutti; ma se ne può elencare qualcuno, sapendo che ce ne sarebbero molti altri anche imprevedibili.

Il debito pubblico è posseduto per quasi la metà da italiani: da singoli risparmiatori, da banche e da altri investitori istituzionali; tra questi ultimi ci sono anche i fondi pensione che impiegano larga parte del risparmio previdenziale dei lavoratori loro iscritti in titoli di stato nazionali. Un default azzererebbe il risparmio che i singoli cittadini/ lavoratori, direttamente o indirettamente, hanno affidato allo stato, anche a fini pensionistici.

Il default dello stato riguarderebbe l’intero suo bilancio, dunque anche quello delle istituzioni del welfare, cioè degli enti previdenziali che amministrano il sistema pensionistico obbligatorio, gli ammortizzatori sociali e l’assistenza; quello del sistema sanitario nazionale; quello dell’istruzione. Non pochi economisti e dirigenti delle istituzioni internazionali considerano le future prestazioni pensionistiche pubbliche maturate in base ai contributi già versati come debito (pensionistico) pubblico; il default statale pregiudicherebbe dunque anche il pagamento delle pensioni pubbliche e, analogamente, delle altre prestazioni dello stato sociale che derivano da precedenti contribuzioni; ma coinvolgerebbe anche tutte le altre uscite del bilancio pubblico.

Data la forte incidenza dei titoli del debito pubblico italiano nei bilanci delle nostre banche, il default del primo si estenderebbe alle seconde e sarebbero colpiti anche i singoli correntisti, azzerando anche questa componente dei risparmio finanziario. Ma il contagio del default pubblico alle nostre banche priverebbe il sistema produttivo non solo del risparmio nazionale, ma anche del suo sistema bancario, togliendogli uno strumento indispensabile, con l’effetto di estendere la crisi all’economia reale (occupazione, consumi, prestazioni sociali, ecc).

D’altra parte, considerato l’ingentissimo ammontare del nostro debito sovrano posseduto da operatori stranieri (circa un migliaio di miliardi di euro), il nostro default genererebbe seri rischi di altri fallimenti a catena nell’economia europea e mondiale. L’euro e la stessa Unione Europea avrebbero molte difficoltà a sopravvivere sull’onda delle gravi perdite e ciò indebolirebbe tutti i singoli paesi membri che diventerebbero molto più dipendenti dalle scelte fatte in altri grandi paesi e dalla speculazione internazionale. Anche la nostra uscita dall’euro (che continuasse a vivere) ci esporrebbe drammaticamente di più alla speculazione internazionale, ma non ci darebbe maggiori margini di libertà effettivi. A parte gli inimmaginabili problemi connessi alla riattivazione della lira, il ritorno a svalutazioni competitive, in primo luogo verso l’euro, avrebbe come risultato immediato la corrispondente rivalutazione del nostro debito verso l’estero (che si sommerebbe a quello implicito nel debito pubblico posseduto da stranieri) e il corrispondente peggioramento delle ragioni di scambio (quante merci italiane dobbiamo dare per avere in cambio un dato paniere di merci straniere) che può essere compensato dalla maggiore competitività di prezzo con effetti positivi duraturi solo se contemporaneamente aumenta la produttività interna e non ci sono ritorsioni dagli altri paesi. Ma dopo il default (e l’uscita dall’euro, con i problemi che ciò creerebbe a chi rimanesse), bisognerebbe mettere in conto inevitabili reazioni, rivalse e un grave deterioramento delle relazioni internazionali dagli esiti finali imprevedibili. Sarebbe poi pressoché impossibile praticare politiche autonome – magari da parte di un governo molto compatto e progressista (?) che privilegiasse obiettivi sociali e ambientali – senza gravi ritorsioni dai creditori stranieri cui non verrebbero restituiti un migliaio di miliardi di euro e dai loro stati, specialmente quelli europei “abbandonati” e messi in difficoltà.

Purtroppo, il default italiano (e la conseguente uscita dall’euro, che potrebbe dissolversi del tutto insieme all’UE) è una possibilità che travalica gli auspici dei suoi fautori; ma anche solo favorirla, sostenendo la sua opportunità e che il debito non si paga, significa non avere nemmeno idea dei drammatici danni che ne deriverebbero.

Sul finire di “Ecce bombo”, il film di Nanni Moretti, i protagonisti, per riprendersi dalla loro improbabile crisi esistenziale, decidono di andare a vedere l’alba a Ostia; eppure, sia la geografia (per chi la sa) sia l’esperienza (per chi riesce a coglierne gli insegnamenti) indicano che sulle coste del Tirreno il sole tramonta. Non volevamo morire democristiani; cerchiamo di non morire “eccebombisti”.

articolo apparso su il manifesto del 4 novembre 2011

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui

Commenti

la crisi : da che parte cominciare

parlando con Vincenzo Visco ho chiesto Lui ,
possiamo ridurre il problema a questa trilogia ?:

D-Corruzione ed evasione fiscale e sprechi affossano le finanze pubbliche di un Paese che conseguentemente deve rivolgersi agli usurai (le banche) ?
R. E' una semplificazione ma condivisibile
-------------------------------------------------
E se cosi' è perchè non cominciare proponendo una norma anti corruzione per la quale che riveste cariche pubbliche è candidabile solo se dimostra la sua passata esperienza, competenza, onestà tramite la produzione di un curriculum su internet facendo seguire un impegno a contrarre un obbligazione di massima trasparenza in Italia e all' Estero, specialmente nei Paradisi Fiscali (impegnandosi anticipatamente a liberare direttori di banca , fiduciarie e simili dalll'opporre il segreto ) .
Chi vuole governare deve essere disponibile per legge alla massima trasparenza, cosi' facendo chi ha cose sporche tenderà a stare alla larga.
Si creano cosi' i presupposti soggettivi per eletti che alla prova agiranno su tutti i fronti (evasione, corruzione, revisione del mercato finanziario , collusioni mafiose , voto di scambio etc.) in maniera onesta competente e consapevole nell'interesse generale.
Parrà strano ma questa è la madre di tutte le battaglie ossia è la battaglia prima , solo dalla quale potranno discendere buone regole fatte da persone capaci

No, la BCE non vuole e non può

@ Polini - Non capisco bene se nel suo cortese post si rivolge a me o a Santoro o a Pizzuti. Nel primo caso tento una risposta. No, non siamo d'accordo : anche io penso che la BCE non voglia (non del tutto però, perchè in realtà lo sta già facendo - controvoglia - in misura non indifferente ) . Ma penso anche che la BCE non può farlo. I numeri sono quelli che ho già esposto : per dichiarare credibilmente un intervento illimitato di sostegno la BCE avrebbe bisogno di 2000 miliardi di €. Non li ha.
Anche il "Fondo Salvastati" non è strumento adeguato : perchè non c'è ancora, perchè non è nelle mani della BCE, perchè non ha un "capitale versato" ma una sorta di fidejussione...
Allora resta solo il default ? No, l'alternativa è l'uscita dell'Italia dall'euro. E' cosa diversa dal default.
Come potrebbe avvenire ? Sintetizzo all'estremo (questo è solo un post).
1) L'Italia dichiara la sua uscita dall'euro e il ritorno alla lira (faccenda proceduralmente non semplice, lo so, ma questa è una estrema sintesi) secondo la parità di entrata 1 € = 1936,27 lire. Contestualmente si lancia la Nuova Lira (NL) pari a 1936,27 vecchie lire. : quindi 1 NL = 1 € (l'idea non è del tutto mia: la riprendo, con modifiche, da un articolo di Martin Feldstein per la Grecia : Financial Times, 16 febb.2010).
2) L'Italia dichiara la conversione forzosa del suo debito pubblico in NL secondo la parità 1 € = 1 NL.
3) L'Italia dichiare che la NL aderisce pienamente ad un regime di libera fluttuazione dei cambi.
La NL si svaluterebbe immediatamente rispetto all'euro. Quanto e per quanto tempo ? Precipiteremmo in una rovinosa spirale svalutazione-inflazione? Cosa accadrebbe del debito estero privato? Cosa alle banche?
In un post non posso ovviamente rispondere a questi quesiti. Dico solo che le risposte ci sono e sono ragionevolmente rassicuranti.

No, la BCE non vuole e non può

@ Polini - Non capisci se nel suo cortese post si rivolge a me o a Santoro. Nel primo caso tento una risposta.

E perché la BCE non vuole?

La ringrazio di cuore.
Ho insistito un po' troppo, lo riconosco, sulle parole. In sostanza, ho detto che quando De Grawe dice «must» e «should» non si può tradurre con "vuole" e "potrebbe", ma in fondo sono solo parole.
La ringrazio soprattutto perché scopro che siamo d'accordo sull'aspetto fondamentale: che possa o no, la BCE non vuole fungere da compratore da ultima istanza.
Per il resto, mi creda, non vedo proprio una questione di "buoni e cattivi", almeno non certo tra di noi.
La prego, però, di aiutare me e tutti quelli che magari seguono la discussione: se la BCE volesse, no problem (mi pare che siamo tutti d'accordo); però non vuole. PERCHE' NON VUOLE?
Mi perdoni: non basta dire "se volesse, no problem; però non vuole; amen". Siamo qui per capire, per aiutarci a capire, vero?
E allora: è in atto una «congiura degli imbecilli» (Fitoussi), oppure qualcuno ha un preciso obiettivo che sta lucidamente perseguendo?
La prego di rispondere, perché il problema è molto serio e strettamente legato all'argomento in discussione.
È stato lei a dire (ho capito male?) che l'unica possibilità ragionevole di evitare il default sarebbe una BCE come compratore di ultima istanza.
Facendo banalmente 2+2, se mi dice che la BCE non vuole, allora il default è inevitabile, quindi è meglio ragionare concretamente su tempi e modi del default senza paura di passare per "incoscienti": il realismo non è mai degli incoscienti.
D'altra parte, appare anche difficile che il Leviatano di turno (BCE, Goldman Sachs, speculazione ecc.) possa avere come obiettivo proprio il default dell'Italia e della Grecia.
Ripeto: o la BCE agisce come compratore di ultima istanza, oppure il default è inevitabile; ma la BCE non vuole farlo, quindi avremo il default (tutte parole sue, un po' riarrangiate).
Ma chi può avere come obiettivo il nostro default? Onestamente, credo proprio nessuno; ancor meno chi ha comprato i titoli del nostro debito.
E allora perché la BCE non vuole? Quali sono i suoi obiettivi?
Ho abbozzato un'ipotesi (estensione di quella del Financial Times). Qual è la sua?
Grazie.

Link poco pertinenti

@ Santoro - Dei due link proposti quello con Krugman mi sembra non pertinente (leggere per credere).
De Grauwe dice che la BCE potrebbe essere un bazooka (non un cannone, attenzione!) se comprasse : ma si tratta di una dichiarazione al volo, mi sembra, forse non ben meditata. Debbo poi dire che le posizioni di De Grauwe mi lasciano da tempo molto perplesso.
Ma perchè discutere a colpi di citazioni ? Io ho proposto dei numeri, secondo i quali la BCE ha già impegnato nel sostegno ai titoli dei paesi "deboli" il triplo dei mezzi propri. Mi sembra un argomento serio.
Comunque credo anch'io che la BCE sostanzialmente non vuole : ma se dice che non può ha buoni argomenti.
Quindi da parte mia non insisto sull'argomento.
Proporrei invece un quesito che mi sembra interessante: Per uscire dall'euro è necessario passare per un default (= lo stato smette di onorare i suoi impegni). Non si potrebbe prima con voto parlamentare (e quindi legge) tornare ad una moneta propria ? (ipotesi oggi politicamente poco realistica, ne convengo, ma almeno da considerare, penso).

buoni e cattivi

@polini, su goldman
Suvvia Polini, adesso non sia lei ad attribuirmi parole che non ho mai scritto. Non difendo Goldman, non credo che operi in modo neutrale, ed è un artificio retorico cercare di dividere quelli con cui si dialoga in buoni e cattivi. Non si difende la tesi del default facendo vedere quanto brutti, sporchi e cattivi siano quelli che il default non lo vogliono (? chissà se goldman non lo vuole). Come ho scritto nel primo commento, l'alternativa tra BCE e SudAmerica è un mezzo incubo; ma il default secondo me è un incubo totale. Secondo lei no. Su questo è il dissenso.

volere e potere

@polini
Non baro per nulla, perché del POTER INTERVENIRE si stava discutendo con sinibaldi (tra l'altro avrà notato che entrambi i commenti sono riferiti a periodi in cui la BCE già interveniva sul secondario, ma evidentemente in misura insufficiente). E le affermazioni dei due, poiché si soffermano sul SE, evidentemente danno per scontato che POSSA farlo, non crede?
Sulla questione del VOLERE, invece, sono d'accordo con lei, non vuole farlo. Ed è esattamente questo il problema.

Non può? Non vuole

Santoro, per favore, non bari.
Krugman ha detto «Either the ECB moves in with big purchases, or the euro is crostini». Non ha detto che la BCE può, ancor meno che VUOLE, «big purchases».
De Grawe ha detto che «the ECB is the only bazooka; everything else is small guns», non ha detto che la BCE può, ancor meno ha detto che VUOLE, sparare come un bazooka.
Sono assolutamente d'accordo con lei e con Spaventa: SE la BCE si comportasse come Spaventa auspiscava un anno fa e lei auspica ora la speculazione piangerebbe, ma è solo un "SE".
La prego, prenda atto della realtà: LA BCE NON HA ALCUNA INTENZIONE DI OPERARE COME COMPRATORE DI ULTIMA ISTANZA.

Un problema più serio (più serio che credere alla BCE come befana) sarebbe rispondere alla domanda: ma perché non vuole?
Forse perché è in atto una «congiura degli imbecilli» (Jean-Paul Fitoussi su Repubblica del 3/5/2010)?
Non credo.
Credo che la risposta sia altrove, in particolare nella insistenza sul "meno Stato".
Guardiamo alla Grecia. È stata oggetto di attacchi speculativi per prima, insieme al Portogallo, quando aveva un rapporto debito/PIL migliore di quello italiano (quello del Portogallo era simile... a quelli tedesco e francese!). Ma Grecia e Portogallo mostravano il rapporto più alto tra saldo negativo dei conti correnti della bilancia dei pagamenti e PIL (olte il 10%).
Si chiede ora alla Grecia di mettere sul lastrico gli statali, ma anche di attuare un ampio programma di liberarizzazioni/privatizzazioni (si chiede forse ora anche all'Italia? Sì)
Cosa vuol dire? Mi corregga se sbaglio: vuol dire aprire la strada a investimenti diretti esteri. Ma gli ide sono debiti, i relativi "interessi" (proditti "interni" che vanno dedotti dal PIL per arrivare al reddito "nazionale") andranno a gravare negativamente sul saldo dei conti correnti della bilancia dei pagamenti. E questa sarebbe una soluzione???
Per chi investe sì, per i greci no. Ma cosa importa dei greci - e degli italiani - alla BCE?
Alla BCE importa solo mettere l'asino dove vuole il padrone. Tanto che sta modulando i suoi interventi (l'ha notato perfino il Financial Times) in modo da imporre governi graditi. Graditi a chi?
Forse a Goldman Sachs, che "promette" una discesa rapida dello spread a 350 punti se l'Italia sarà guidata da un governo "tecnico"? (http://www.agi.it/economia/notizie/201111101121-ipp-rt10082-goldman_sachs_con_governo_tecnico_spread_a_350_punti)
Certo, se lei crede che Goldman Sachs non abbia nulla a che vedere con la "speculazione internazione" e che quella sia solo un'analisi neutrale...

assolutamente no? qualche link...

http://krugman.blogs.nytimes.com/2011/10/31/mamma-mia/
http://mobile.bloomberg.com/news/2011-10-21/ecb-is-europe-s-only-bazooka-for-crisis-de-grauwe-tells-ta

per sinibaldi

Assolutamente no? La BCE non ha la possibilità di fermare la speculazione acquistando titoli? Che le devo dire: sta dando del visionario a Krugman, a De Grauwe, Spaventa e ad altri ben più titolati di me.

Per Santoro e Polini

@Santoro - No, non pensavo allo stock, ma ai flussi. Dal maggio 2010 (quando è iniziata la azione di sostegno BCE ai titoli dei paesi in difficoltà) all'agosto di qust'anno la BCE ha acquistato per 74 miliardi di euro, presumibilmente per titoli di Grecia, Portogallo e Irlanda. Dall'agosto di quest'anno (quando ha cominciato a sostenere i titoli spagnoli ed italiani) ha comprato per altri 110 miliardi di euro, arrivando così ad un totale di 183,0 miliardi di euro (i dati sono su BCE/Press/weekly financial statement). I mezzi propri della BCE (capitale più riserve) sono di 81 miliardi di euro . Santoro scrive "...le risorse della BCE sono sufficienti per un periodo abbastanza lungo da castigare gli speculatori al ribasso...". Assolutamente no.
@Polini - L'attuale visione di "consenso" è che bisogna fare ogni sacrificio per evitare di cadere nel "baratro" : ma cosa c'è nel baratro provano in pochi a dircelo. Cosa c'è dietro la parola default (sinistramente di moda) ? l'insolvenza dello stato ? L'uscita dall'euro ? Sono la stessa cosa o necessariamente legate?
Credo che provare a rispondere a questi interrogativi sia non solo utile ed opportuno, ma anche doveroso per un economista anche perchè, come scrive Lei, Polini, "...il default potrebbe rivelarsi non una scelta ma un esito inevitabile...".
Il prof. Pizzuti ci ha provato (onore al merito) nel suo erticolo, in modo - ne converrà - sintetico e alquanto sommario e - secondo me ora - catastrofista. Ma andiamo avanti, è la strada giusta.

Default: cerchiamo almeno di capirci

Mi pare che si continui a fare confusione.
Pensare ed argomentare che un default del debito pubblico sarebbe un disastro, specialmente per chi sta pagando cause e conseguenze della crisi, non implica che non si pensi alla questione: non è proprio di questo che stiamo discutendo? Il punto è come si pensa al default e, ribadisco, io ( e per fortuna molti altri) ritengo - appunto - che sarebbe un disastro.
Se invece si pensa a come farlo il default, allora si è già accettata l'idea che si possa fare e che non sia in disastro(anche se, magari, si ha qualche dubbio ad ammetterlo).
Il default potrà anche verificarsi, indipendentemente o favorito da chi lo auspica, ma non per questo cesserebbe di essere un disastro: i terremoti diventano forse positivi per il fatto che concretamente accadono?.
Ripeto che una svalutazione non va confusa con il default di uno stato: la prima rientra tra i possibili aggiustamenti previsti dagli accordi di cambio; il secondo, nel caso italiano, sarebbe un'esperienza senza precedenti in tempi di pace, dalle conseguenze drammatiche e non tutte prevedibili non solo per il nostro paese ma anche per l'Europa e l'intera economia mondiale.
Quanto alla svalutazione della lira nel 1992, non solo non fu "incosciente" , ma - come scrissi in un mio saggio - fu addirittura tardiva.
Tra le possibili alternative ci sono sempre quelle migliori e quelle peggiori: il default è tra le peggiori e per sostenerlo sono state addotte delle argomentazioni (d'ordine generale e specifico), non generiche predisposizioni d'animo.

Alternative

Pensare al default sarà pure da incoscienti, ma c'è chi ci sta pensando: Citigroup, Ubs e Natixis.
Secondo le prime due sarebbe controproducente, secondo la terza sarebbe molto pesante nell'immediato ma avrebbe comunque implicazioni positive.
Ne ho avuta notizia qui:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/09/21/2011-fuga-dalleuro/158863/
Condivido le considerazioni di Giacché: tutto sta a vedere se e come si esce da una situazione che al momento appare a tutti come insostenibile, perché il default potrebbe rivelarsi non una scelta, ma un esito inevitabile. E sarebbe quindi saggio cominciare a pensarci concretamente - come quelle tre banche.
Basterà quello che si pensa di fare? Per ora abbiamo visto solo "manovre" che si susseguono smentendo ciascuna l'efficacia delle precedenti.
Anche nel '92 si fece di tutto per evitare la svalutazione, perché "svalutare era da incoscienti".
Chi pensa che parlare di default sia da incoscienti possiede forse la ricetta per la manovra "giusta" e definitiva? Solo il tempo potrà dirlo. Solo il tempo potrà dire se esistono davvero alternative al default. Al momento, quella definita come "l'unica ragionevole" da Alessandro Santono è quotidianamente smentita dalle dichiarazioni e dai comportamenti della BCE.
Dire che pensare al default è da incoscienti contrasta quindi con la saggezza di Lawrence Olivier, quando diceva (come ricorda Giacché) che la vecchiaia è una gran brutta cosa, ma comunque migliore delle alternative.

titoli da comprare

Un chiarimento @sinibaldi. I conti non vanno fatti sullo stock di debito esistente, ai fini del quale è del tutto irrilevante l'aumento odierno dello spread, ma sul debito di nuova emissione, rispetto al quale le risorse della bce sono sufficienti per un periodo abbastanza lungo da castigare gli speculatori al ribasso.
Per il resto: concordo pienamente con quanto scritto da Felice Pizzuti.

default

Non mi ero accorto che il mio articolo ha suscitato diversi commenti. Arrivo dunque in ritardo, ma almeno con il vantaggio che alcune cose, nel frattempo, sono state già chiarite da altri; concordo ad esempio con molte delle cose scritte da Alessandro Santoro cosicché è inutile che le ripeta. A me pare che in alcuni interventi sia stata fatta una qualche commistione tra questioni che pure sono tra loro connesse, ma che sono diverse: tra debito pubblico e debito estero; tra default del debito pubblico e svalutazione; tra regime di cambi fissi e unione economica e monetaria con moneta unica; tra le dimensioni del debito pubblico (e gli effetti di un suo default) di paesi come Islanda, Grecia e Argentina e di un paese come l'Italia. A quest'ultimo riguardo, l'esperienza di quei paesi non è traslabile ad un eventuale default italiano, né dal punto di vista quantitativo né da quello qualitativo e del contesto storico-istituzionale cosicché diventa necessario - come, bene o male, ho cercato di fare - ricorrere all'analisi di ciò che potrebbe accadere (anche se si tratta di previsioni abbastanza realistiche).
Ritengo che le politiche seguite nel processo d'unificazione europea siano sbagliate, inique e cotroproducenti e che il più recente comportamento del duo Merkozy sia anche poco "simpatico" (per usare un eufemismo); cosicché non c'è proprio nessuna "adesione supina" alle loro posizioni nel ritenere che il default del nostro debito pubblico (che come parola sembra suonare meglio) sarebbe un vero e proprio fallimento economico e sociale, il quale - oltretutto - penalizzerebbe maggiormente proprio chi ha già più subito le cause e le conseguenze della crisi. Credo invece che l'acquiescenza al default sia una scorciatoia "alternativa" che trascura gli effetti negativi che ho cercato di evidenziare nell'articolo. Un conto è dire che chi non ne ha colpa non deve pagare il debito, altra è che non lo deve pagare nessuno. Un conto è dire (giustamente)che l'UE è stata, finora, costruita male, altro è ritenere che non si possa fare diversamente; il punto è che anche un meraviglioso e compatto governo di sinistra in Italia avrebbe scarse possibilità di contrastare la crisi se le sue politiche non fossero coerenti con quelle dominanti in Europa.

Due precisazioni

Ringrazio Tommaso Sinibaldi, ma vorrei concedermi due piccole precisazioni.

1) Nell'articolo si parla di default (di uscita dall'euro solo come conseguenza) e mi pare che dalla discussione siano emerse due posizioni:
a) parlare di default è da incoscienti;
b) il default è una possibilità; si tratta di vedere se e come potrebbe essere evitato, se e come potrebbe essere gestito qualora risultasse inevitabile, o magari preferibile (come potrebbe essere - secondo il CEPR - per i greci, al momento "scippati" della possibilità di decidere).

2) L'ipotesi di una BCE come compratore di ultima istanza non è mia, ma di altri come Luigi Spaventa (l'anno scorso su Repubblica) e Alessandro Santoro (in questa discussione). Quanto a me, non ci credo non solo e non tanto per motivi "tecnici", ma semplicemente perché la BCE non vuole.
Sembra quasi che la BCE - comprando e non comprando, dichiarando che non si sente comunque obbligata a comprare - stia piuttosto cavalcando la speculazione per imporre governi più graditi:
http://www.ft.com/intl/cms/s/0/7ea4360c-0a26-11e1-92b5-00144feabdc0.html#axzz1dCyAfIH0

A Polini

Trovo quello che dice del tutto ragionevole e argomentato. Ecco alcune mie osservazioni e commenti sui vari punti :

1 - Già parlare di default è probabilmente improprio. Il problema di cui stiamo discutendo (sbaglio?) è come uscire dall'euro, tornare ad una moneta propria che aderisca ad un regime di cambi flessibili (come accade ormai per tutti i paesi del mondo).

2 - Purtroppo non esistono precedenti storici del tutto comparabili perchè ancora nessuno è "uscito" da una moneta. Tuttavia il caso argentino ha delle similitudini: l' Argentina di fatto non dichiarò un default : si limitò ad abolire la parità fissa col dollaro precedentemente stabilita. Non fu quindi insolvente (default vero e proprio) : i suoi obblighi erano onorabili, ma in pesos (solo con una diversa parità col dollaro).

3 - Giusta osservazione. Tra il 1973 ed il 1979 l'Italia di fatto operò in un regime di cambi flessibili, che fu decisivo non solo per assorbire lo schock petrolifero, ma conseguì anche il grande risultato di avere per sette anni tassi di interesse reali negativi sul debito pubblico. Baffi aveva capito che i cambi flessibili erano la via del futuro e fu sempre estremamente "scettico" nei confronti della moneta unica. Ma poi fu defenestrato nel modo che tutti ricordiamo ed arrivò Ciampi.
Certo, nel '92 la svalutazione fu essenziale per dare un pò di ossigeno alla povera economia italiana, seviziata da 12 anni di SME : ma purtroppo perdemmo l'occasione di dire ciao allo SME, come fece l'Inghilterra che dopo si è regalata quindici anni di crescita felice. Si fece la perniciosa "manovra Amato" (da cui l'economia italiana non si è mai più ripresa : è da allora che data la fine della crescita) e poi due sanguinose manovre Prodi, il rientro nello SME e poi l'entrata nell'euro. Oggi questo percorso viene considerato il "salvataggio" dell'economia italiana : forse la storia farà giustizia ristabilendo errori e colpe. Ma servirà a poco.

4 - Condivido

5 - La "unica possibilità ragionevole di evitare il default..." è che la BCE compri titoli dei paesi deboli "per un tempo e per una quantità indefinita" . Non lo può fare : la BCE non può stampare moneta ad libitum. Oggi il circolante BCE è di circa 800 miliardi di euro. Per fare quel che si invoca ne servirebbero (secondo stime correnti) almeno 2000. Può la BCE triplicare il circolante in uno-due anni ?. Negli USA la Fed ha immesso circa 2000 miliardi di dollari : ma lo stato con una legge gli aveva fatto un "aumento di capitale" (fondo Tarp e altri). In Europa non c'è uno stato che possa fare altrettanto.

Infine una mia notazione. Uscire dall'euro comporterebbe una ridenominazione del debito pubblico nella nuova moneta : è evidente che è impensabile tornare ad una propria moneta ed avere il debito pubblico denominato im una moneta "straniera" (l'euro, nel caso). Questa ridenominazione del debito sarebbe evidentemente "forzosa" e comporterebbe certamente una svalutazione del debito in termini di valuta straniera. Ma dov'è il dramma, il default? Oggi tutti i paesi del mondo aderiscono ad un regime di cambi flessibili e i cambi salgono e scendono e con essi naturalmente il valore del debito se espresso in una valuta straniera. Semplicemente diventeremmo come gli altri, "normali".

L'unica possibilità ragionevole

Ringrazio di cuore Alessandro Santoro e vorrei tranquillizzarlo: riesco a vedere le differenze tra Islanda e l'area euro e non intendo nasconderle. Per il resto:

1) Non sto dicendo che dovremmo dichiarare default, per il semplice motivo che che (spero di non sbagliarmi) non siamo ancora - anche se non so per quanto - a questo punto.

2) Sto dicendo che prima di dire che il default sarebbe una catastrofe bisognerebbe tenere conto di esperienze storiche concrete. L'avevo chiesto, ma nei commenti si è parlato solo di Argentina, chiaramente pertinente (ma mi pare che il default argentino abbia avuto, per quel paese, conseguenze molto migliori del precedente regime di cambio fisso col dollaro), e di Islanda, che c'entra, se c'entra, solo "un pochino". Esistono altre concrere esperienze storiche che consentano di non ragionare solo in astratto? Sembra di no. Quindi, mi viene da dire, qualsiasi ragionamento è solo un'ipotesi astratta. Manca, in particolare, un aspetto fondamentale, cioè come si perverrebbe a un eventuale default: una scelta ponderata e/o preparata, magari dopo aver bloccato i depositi bancari, o un qualcosa che succederebbe "da sé", magari accompagnata da fuga dei depositi?

3) Sto dicendo che abbiamo sì tanti problemi, ma anche che l'euro è uno di questi. Visto che siamo ai ragionamenti astratti, come saremmo finiti se non avessimo potuto lasciar svalutare la lira dopo il primo shock petrolifero, "grazie" alla fine di Bretton Woods? Come saremmo finiti se non avessimo potuto svalutare nel '92? Mi pare sia stato Krugman (ma potrei ricordare male) a dire che la gabbia dell'euro assomiglia pericolosamente al gold standard degli anni '30.

4) Aggiungo che vorrei capire cosa auspicano coloro che danno dell'«incosciente» a chi considera il default un'ipotesi sul tavolo. Forse un'adesione supina ai diktat di Merkozy? Basta un'occhiata ad alcuni dati (ad esempio, la differenza tra reddito nazionale lordo e PIL dal 2000 al 2007 per i paesi dell'area euro) per vedere che c'è stato un pesante drenaggio di risorse dai paesi "deboli", i PIIGS, ai paesi "forti", soprattutto Germania e Francia. Dovremmo aderire ai diktat di chi ha guadagnato dalle difficoltà che l'euro ha indotto? Non dico "e allora meglio il default", ma sarei proprio tentato di dirlo se prima non vedessi riconoscere che l'euro, così come è, non è sostenibile perché non è sostenibile un'unione in cui alcuni membri guadagnano costantemente a spese degli altri.

5) Curiosità: sembra quasi condividere quest'ultimo punto, tanto da sostenere che l'«unica possibilità ragionevole di evitare il default» (mi piace, tanto che lo ripeto: l'unica possibilita' ragionevole di evitare il default) sarebbe che la BCE abbandonasse le sue «stupide insistenze» (Fitoussi aveva parlato di «congiura degli imbecilli», Eichengreen di assurda «fixation with inflation» ecc., ma loro «insistono») e in barba ai trattati dichiarasse che comprerà - e poi effettivamente comprasse tempestivamente e nella misura del necessario - titoli del debito pubblico italiano e di altri paesi... «per un tempo e per una quantità indefinita»!
Molto saggio: anche Luigi Spaventa aveva scritto l'anno scorso, sulla base di una concreta esperienza storica (la crisi asiatica), che una banca centrale disposta a fungere da compratore di ultima istanza farebbe piangere qualsiasi speculatore (http://www.repubblica.it/economia/2010/05/10/news/commento_spaventa-3949068/index.html).

Sa però che le dico? Scommetto un euro che la BCE non lo farà. A meno che, forse, non fosse «convinta» a farlo da una decisa azione politica comune dei PIIGS, che mi pare tanto auspicabile quanto al momento poco prevedibile.
Se però la BCE non lo farà, non solo avrò vinto un euro, ma verrà meno - parole sue - l'unica possibilità ragionevole di evitare il default. Quindi avremo il default. Non per scelta, ma perché non resterà altro da fare.
Visto che ancora esiste, scommettiamo quell'euro?
In ogni caso, se l'unica possibilità ragionevole di evitare il default è tutta da verificare, provare a ragionare concretamente di default mi sembrerebbe più saggio che lanciare anatemi.

aggiunta

Una precisazione: ovviamente (ma forse non tanto) il rigorismo non può essere accettato passivamente, ma va gestito politicamente. Detto in altri termini: rendere il debito sostenibile deve avere una contropartita, ossia che la BCE abbandoni questa stupida insistenza e dichiari che comprerà i titoli del debito pubblico italiano (e di altri paesi) per un tempo e per una quantità indefinita. E' questa l'unica possibilità ragionevole di evitare il default.

pubblico e privato

@polini
Intanto penso sia importante che dal sito di sbilanciamoci emerga un'informazione corretta sulla distinzione tra un caso in cui si è deciso di non pagare il debito privato (l'Islanda) da uno in cui ci si propone di non far pagare in tutto o in parte il debito pubblico (la Grecia ed eventualmente l'Italia). In principio sono cose diverse, originate da cause diverse. Poi, è vero possono esistere delle connessioni, ma vanno esaminate con attenzione.
Dalla svalutazione della moneta deriva normalmente inflazione importata, che tende ad aumentare il valore nominale del Pil, e quindi a ridurre il rapporto debito/PIL. In sintesi, con l'inflazione il creditore non protetto ci perde. Questo è indubbiamente vero. Tuttavia, prima di proporre una ricetta simile, facciamo MOLTA MOLTA attenzione. Per un paese con una forte dipendenza dalle fonti energetiche come l'Italia, l'inflazione significa perdita di potere di acquisto generalizzata. Il recupero di competitività (nei confronti dei paesi che rimarrebbero nell'euro) verrebbe quanto meno compensato da questo elemento. Ma non è tanto questo che mi preoccupa. Quello che lei ed altri tendete a sottovalutare, ed è chiaro nell'accostamento che fate alla Grecia, sono le dimensioni e la distribuzione del debito pubblico italiano. Il debito pubblico italiano supera i 1900 miliardi di euro, ovvero è di quasi 8 volte superiore a quello greco. Questo comporta due conseguenze.
Primo, una soluzione alla greca, ovvero haircut di parte del debito nominale, da un lato, e, dall’altro lato, ricapitalizzazione delle banche è infattibile perché non c’è nessuna istituzione, nazionale o internazionale, che sarebbe in grado di garantire una simile ricapitalizzazione. Il che significa che rimarrebbe il solo haircut, ovvero un sostanziale fallimento di tutte le banche, in primis quelle italiane, che sono esposte sul debito. Difficile vedere come questo non potrebbe ripercuotersi sull’economia reale, causando ulteriori spinte recessive, di nuovo opponendosi agli effetti espansivi sulle esportazioni della svalutazione monetaria (e quindi rendendo inapplicabile al caso italiano il paragone anche del caso Argentino, in cui il default ha punito soprattutto le istituzioni finanziarie straniere).
Secondo, se anche (ma non vedo come) la soluzione alla greca fosse fattibile, questa comporterebbe comunque enormi aumenti dei tassi di interesse, come infatti sta accadendo ai titoli greci dopo l’haircut. Su una massa di debito come quella italiana, questo aumento sarebbe sostanzialmente insostenibile, ovvero porterebbe il rapporto debito/PIL su un percorso che tende all’aumento infinito. E questo varrebbe in qualsiasi moneta fosse denominato questo debito. Per capire che cosa significa, tenente presente che l’anno prossimo scadono 250 miliardi di euro di titoli di debito pubblico italiano.
In sintesi. Per ragioni comprensibilissime, a sinistra in molti sono alla ricerca di “ricette alternative”. In effetti, è amaro (amarissimo) dover constatare che siamo posti di fronte ad un bivio tra un male e un peggio: il rigorismo della BCE e un futuro da paese sudamericano. Ci siamo arrivati per colpe nostre e per colpe altrui, in primis dell’Europa che non ha voluto investire su percorsi di sviluppo e di regolazione alternative al Washington Consensus. Tuttavia, il realismo ha un pregio: evita di costruire illusioni il cui fallimento può incidere sulla carne delle persone anche più di quanto faccia la già (pesante) realtà.

Quasi ;-)

È vero che la dinamica della crisi islandese è tutta un'altra cosa, ma mi pare che la terapia non sia consistita solo in un programmato risanamento del debito pubblico: anche l'immediata svalutazione della corona ha avuto la sua parte.
Come si legge a pag. 4 nel documento citato da Alessandro Santoro (che ringrazio per la segnalazione), con la svalutazione la corona si è assestata a un livello competitivo rilanciando le esportazioni nette ed evitando un ulteriore deterioramento dei conti pubblici e privati, che avrebbe avuto effetti pesanti sulla domanda interna.
L'Islanda, cioè, ha potuto combinare misure a breve (il cambio) e a medio termine (il debito pubblico).
L'Argentina non poteva farlo quando il peso era legato al dollaro, la Grecia e l'Italia non possono farlo perché sono nell'euro.
È questo un bene? Non sembra, almeno non in assoluto, se il CEPR considera preferibile per la Grecia il default e l'uscita dall'euro.
Il default, infatti, sarebbe solo il primo passo e sarebbe inevitabilmente seguito (mi pare si evinca anche dall'articolo) dall'uscita dall'euro, cioè dal recupero della possibilità di "fare come l'Islanda" (e come, dopo il default, l'Argentina - che ha ora un rapporto debito/PIL del 45%): svalutazione immediata, sistemazione dei conti a medio.
Quindi l'Islanda è sì un caso a parte, ma un pochino c'entra.

L'Islanda non c'entra nulla

Per quanto riguarda i commenti sull'islanda: non c'entrano nulla con il default italiano. L'Islanda ha deciso (legittimamente) di non pagare i debiti PRIVATI (delle proprie banche verso gli investitori stranieri) mentre ha approntato una cura da cavallo per la riduzione del debito PUBBLICO. Come potete leggere qui (a pag. 10)
http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2011/cr11263.pdf
il rapporto debito pubblico/PIL è previsto pari al 100% del Pil nel 2011 e all'81% del PIL nel 2016, cioé una riduzione di 19 punti percentuali in 5 anni. Non c'entra NULLA con il caso italiano, in cui non sono state impiegate risorse dirette al salvataggio delle banche, e in cui a defaultare sarebbe lo Stato.

Argentina e Islanda

In attesa di poter ringraziare Felice Roberto Pizzuti, ringrazio Fabrizio Villani che mi ha spinto a cercare.
Ho trovato che:

a) sul sito di OpenDemocracy, Nick Pearce, direttore dell'Institute for Public Policy Research inglese, ha sostenuto che «l'ortodossia sbaglia: il default può essere conveniente»:
http://www.opendemocracy.net/nick-pearce/orthodoxy-is-wrong-it-can-pay-to-default

b) secondo uno studio del Centre for Economic Policy Research di Washington, nel cui Advisory Board compaiono anche Robert Solow (premio Nobel 1987) e Joseph Stiglitz (premio Nobel 2001), la storia dell'Argentina dopo il default è stata la «storia di un successo»: una crescita del PIL nettamente maggiore di quella del Brasile e in generale la crescita più sostenuta in tutto l'emisfero occidentale, diminuzione della disoccupazione, della provertà e della disuguaglianza nella distribuzione del reddito; il tutto perché «il default ha liberato il Paese dalla continua paralisi indotta dai vincoli del debito e dalle politiche procicliche imposte dai creditori». Lo studio afferma anche che il default e l'uscita dall'euro sarebbero per la Grecia migliori che l'attuale situazione:
http://www.cepr.net/documents/publications/argentina-success-2011-10.pdf

c) sul New York Times Paul Krugman (premio Nobel 2008) discute le diverse fortune dell'Islanda e di Estonia, Irlanda e Lettonia; osserva che l'Islanda non sfigura affatto in termini di riduzione della disoccupazione, soprattutto se si guarda alla tendenza, nonostante la grave crisi finanziaria e il mancato rimborso dei debiti; il motivo? Gli altri Paesi sono nell'euro o legati all'euro, l'Islanda ha lasciato svalutare la sua corona. Quindi, si chiede Krugman, per quale motivo l'OCSE, che pur loda il recupero dell'Islanda, afferma che l'Islanda dovrebbe aderire all'euro?
http://krugman.blogs.nytimes.com/2011/10/21/why-not-the-worst/

Insomma, auspicare il default, e la conseguente uscita dall'euro, sarà anche da incoscienti, ma per affermarlo occorrono forse argomenti un po' più solidi di quelli proposti nell'articolo...

la causa occulta della crisi

Pensare che questa fase della storia sia davvero "la Crisi dei Debiti Sovrani" è infantile:
l'idea del Default di Stato causato dallo Spread serve a far passare l'esigenza del "ce lo chiedono i Mercati"
ovvero la volontà di scaricare il carico dei guai sulla Gente.
Ma quanto è grande questo carico?
Diciamo 10 anni di PIL-Mondo (700Trilioni di Dollari) vale a dire la dimensione della bolla dei Derivati.
Dove sono stati piazzati?
Ovunque (Ministeri, Banche, Pensioni, Regioni, Provincie e Comuni) ma rimane un Business Segreto.
Come possiamo liberarcene?
Esclusivamente provocando un Default Globalizzato.

e l'Islanda?

L'Islanda è uscita dal FMI non ha pagato i suoi creditori eppure è in piedi...anzi vola (con la riforma della costituzione online..) perchè di questo aspetto non si è parlato nell'articolo? fabriziovillani@hotmail.it

Casi concreti?

L'articolo è indubbiamente interessante. Tuttavia, mi pare basato un po' troppo sui "se" e un po' troppo poco su fatti concreti, un po' troppo su considerazioni teoriche (convincenti, ma quanto astratte?) e un po' troppo poco sull'esperienza storica.
Se guardo al passato, per mia ignoranza vedo solo l'Argentina e quanto ne leggo sul CIA Factbook (https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/ar.html): il default si ebbe nel 2001;nel 2002 il PIL scese del 18% rispetto a quello del 1998, poi riprese a crescere: nei sei anni successivi crebbe a un tasso medio annuo dell'8.5%. E continua a crescere: il PIL reale è cresciuto del 7.5% nel 2010.
Non mi pare una sciagura...
Tra l'altro, l'unico aspetto negativo (sempre se ho capito bene) sembra essere un'inflazione a due cifre. Un aspetto interessante, perché sembra dimostrare che non è affatto vero, come si sostiene nell'area euro, che l'inflazione è nemica della crescita.
Esistono altre esperienze concrete che consentano di "toccare con mano" le dichiarate nefaste conseguenze di un default?

eZ Publish™ copyright © 1999-2015 eZ Systems AS