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Economia e società, qualcosa è cambiato

17/11/2010

La crisi come momento di discontinuità nel sistema economico e nei paradigmi della sua interpretazione. Una risposta ai commenti di D'Antonio

E’possibile che non sia riuscito a rendere trasparente il significato che attribuivo alla mia breve nota sulle implicazioni culturali del liberismo. Voglio quindi considerare i commenti di D’Antonio al mio articolo, anche se ruvidi e sbrigativi, come un invito a sviluppare ulteriormente i temi trattati per rendere più esplicito il retroterra di quanto si diceva in quelle pagine.

Le questioni sollevate da D’Antonio sono sostanzialmente due: 1. nell’articolo non ci si misura con i temi di fondo suscitati dalla crisi e cioè con un’analisi “puntuale” delle sue cause; 2. non partire da un sano realismo nelle riflessioni, e in particolare dal fatto che il liberismo ed il globalismo sono state una componente importante di un processo di sviluppo economico significativo e duraturo, porta da un lato ad una insufficiente comprensione delle ragioni del consenso che queste esperienze hanno incontrato tra le popolazioni e, dall’altro, al rischio di disperdersi in ragionamenti che vengono considerati poco più che vaghe argomentazioni “buoniste”.

Premesso che le persone di buone letture sanno che non si può chiedere ad un racconto ciò che si chiede normalmente ad un romanzo e quindi che è difficile pensare che un articolo breve, e soprattutto che si pone l’obiettivo di parlare d’altro, possa contenere un’analisi, per di più puntuale, delle cause di quel che è successo, le mie riflessioni nascono dal fatto che quel modo di essere dello sviluppo del sistema internazionale - che tanto successo aveva avuto in passato – sembra non funzionare più. Cosa che dovrebbe indurre tutti, anche il realista D’Antonio, a tornare a riflettere. E ciò anche se si possono avere opinioni diverse sulla profondità della crisi.

Perché dunque occuparsi del rapporto tra le istanze che vengono dalla società e le cosiddette leggi economiche? Per chiarezza espositiva provo a riassumere per punti le convinzioni (che, come tali, possono essere condivise o meno) che stanno dietro a quanto detto nell’articolo.

 

La prima convinzione è che i paradigmi culturali, in particolare quelli economici, possano essere visti come il tessuto connettivo di un modo di essere dello sviluppo economico. In qualche modo lo rendono stabile perché garantiscono quella componente della fiducia sistemica (la fiducia nella capacità di capire) che è indispensabile perché un sistema con decisioni decentrate possa funzionare. Questo può spiegare sia il fatto che i paradigmi siano cambiati radicalmente almeno due volte nel corso dell’ultimo secolo, ma anche perché mano a mano che un modello di crescita si consolida, il paradigma economico ad esso collegato tenda a diventare egemone e a permeare di se l’intera cultura sia a livello strettamente scientifico che a livello politico, peraltro senza eccessive distinzioni tra destra e sinistra. A questo proposito, e senza dover far riferimento alla situazione attuale, può essere sufficiente ricordare che nel dopoguerra lo stesso Milton Friedman si dichiarò keynesiano e che la nascita del welfare state fu il risultato anche della cultura liberale di quegli anni.

 

La seconda convinzione è che la crisi che stiamo vivendo possa essere intesa come un momento significativo di discontinuità nel processo di sviluppo internazionale, anche se resta ancora da capire quanto profonda sia questa discontinuità. E dunque che anche la cultura economica dovrà in una qualche misura ripensarsi a partire dai fallimenti emersi a livello di funzionamento del modello.

 

La terza convinzione è che la distribuzione del reddito sia uno degli elementi centrali che connota ogni specifico modello di sviluppo sia a livello nazionale che internazionale; ne è parte integrante. E che la crisi sia anche espressione del fatto che la distribuzione del reddito generata da un modello di crescita fortemente centrato sul mercato non sia compatibile con le condizioni di sviluppo di lungo periodo. In altre parole, che la forte redistribuzione che si è avuta per oltre venti anni, in tutti i paesi industriali, a favore dei profitti, ed il progressivo indebolimento economico e politico dei cosiddetti “ceti medi”, abbia reso più difficile il funzionamento delle democrazie ma, contemporaneamente, abbia anche reso più instabile lo sviluppo.

 

Difendere i diritti e, più in generale, tutelare i valori di una piena inclusione sociale vuol dire garantire coesione politica e riaffermare la priorità della dimensione sociale su quella (presunta) economica. Per chi pensa, con F. Caffè, che “il progresso sociale e civile non debba essere considerato il sottoprodotto dello sviluppo economico ma un obiettivo coscientemente perseguito” questa considerazione può essere di per sé sufficiente. Ma lo è ancora di più se si è convinti del fatto (quarta convinzione) che la politica di tutela delle componenti sociali più deboli non sia solo eticamente giusta, ma debba anche essere considerata lo strumento più efficace con il quale si possono creare le condizioni per una distribuzione del reddito coerente con le esigenze di sviluppo di lungo periodo sia all’interno dei singoli paesi sia a livello di intero sistema economico internazionale.

 

La quinta ed ultima convinzione è che i paradigmi culturali, proprio per il loro ruolo di cemento di uno specifico modo di essere dello sviluppo, tendono a cambiare con molta lentezza. L’esperienza del passato (gli anni trenta) ci ha insegnato che le inerzie, a questo livello, sono enormi e non facilitano certo quei processi di adattamento sul piano istituzionale e delle politiche di intervento che, nelle fasi di crisi, sono indispensabili per creare le condizioni necessarie per una nuova fase di sviluppo. Basti pensare che, ai tempi della grande crisi, mentre la politica di intervento, sia pure in maniera frammentaria, si è mossa fin dalla metà degli anni trenta a sostegno dei gruppi sociali più svantaggiati dalla crisi, solo con il 1938 veniva riproposta, con un famoso articolo di Harrod, la centralità della questione della distribuzione del reddito all’interno della riflessione economica. Ed è proprio questa lentezza che attribuisce al dibattito sull’economia – sviluppato sia al livello teorico che a quello delle implicazioni di “senso comune”- un ruolo potenzialmente significativo come elemento di accelerazione di un cambiamento che non può che passare attraverso la creazione di una diversa “visione del mondo” (quanto diversa lo scopriremo col tempo) e quindi di quelle nuove condizioni di fiducia sistemica indispensabili per riavviare un percorso di crescita.

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Commenti

cultura e modello di sviluppo

Voglio provare a rispondere alle ulteriori osservazioni di D’Antonio. Alla richiesta di riflettere in maniera esplicita sul perché la cultura del mercato abbia avuto tanto successo negli ultimi decenni non posso che ripetere quello che ho già detto, sia pure sinteticamente, e cioè che il destino dei paradigmi o visioni del mondo è strettamente legato al modello di sviluppo di cui costituiscono il retroterra (questa conclusione si può ricavare dalla letteratura sul ruolo della fiducia sistemica nei processi di sviluppo). E’ possibile, in altre parole, che le nuove evidenze sui “fallimenti del non mercato” negli anni settanta, o ancor più il persistere della stagflazione abbiano indebolito la cultura Keynesiana, ma non credo che il successo del liberismo sia spiegabile solo o principalmente a quel livello. A mio avviso, finché funziona un determinato modo di essere della crescita, finisce col risultare convincente anche la cultura che ne è il tessuto connettivo. La cultura è cambiata all’inizio degli anni ottanta perché è cambiato un modo di essere dello sviluppo che sembrava non più coerente con gli interessi dei paesi più forti e, in particolare, con quelli degli USA. E si è consolidata perché questo modello ha funzionato per un tempo relativamente lungo. Ovviamente mi rendo conto che questo può apparire un modo di evitare di rispondere spostando la questione su un tema ancora più complesso come quello della nascita e del consolidarsi di un modello di sviluppo. Per quel che riguarda il richiamo a non sottovalutare i contributi di alcuni studiosi, non sono sorpreso che gli autori di riferimento siano più o meno gli stessi quando ci si muove in un’area culturale relativamente simile. E’ possibile dunque che non abbiamo in mente gli stessi lavori. Ogni segnalazione più puntuale potrebbe essermi di grande utilità.

Chi sa parli

Sono un po' a disagio anch'io col contributo di Schiattarella, ma visto che D'Antonio ha il dono della sintesi, che gli invidio, gli chiederei di scrivere due parole sugli "insopportabili fallimenti dello Stato" dei quali parla. In assenza di qualche lume in merito, qualcuno potrebbe pensare della sua critica quello che lui pensa dell'intervento di Roberto...

Economia e società, qualcosa è cambiato

Roberto Schiattarella prova a consolidare le sue riflessioni sulla portata della crisi che ha colto in questi anni l'economia internazionale e ora in buona parte ci riesce limitandosi ad una breve sintesi (un "racconto" al posto del "romanzo" che peraltro nessuno gli aveva chiesto). Tralascio le sue considerazioni di metodo sulla persistenza delle idee dominanti (che egli chiama "paradigmi culturali") specie quando hanno successo. Concordo del tutto con lui sulla centralità che oggi più che ieri assume la distribuzione del reddito non solo nell'analisi economica ma pure in ogni discorso sul grado di civiltà di qualunque formazione sociale e direi anche al fine di contenere i conflitti di classe in forme fisiologiche piuttosto che distruttive della convivenza umana.
A rischio d'essere ancora qualificato come ruvido e sbrigativo, mi azzardo però a dirmi tuttora insoddisfatto su due aspetti della sua argomentazione: a) Schiattarella non spiega come mai dal modello di politica economica e sociale diciamo interventista (nella gestione della moneta e del bilancio pubblico) vigente dagli anni '40 agli anni '70 del secolo scorso si sia passati in seguito al trionfo del più sfrenato liberismo nei Paesi industrializzati e, col prevalere del cosiddetto Washington Consensus, anche nei Paesi emergenti. Evidentemente si erano aperte ampie falle, si erano verificati insopportabili fallimenti dello Stato. Quali fallimenti? Se non lo diciamo, rischiamo due grossi pericoli: d'attribuire l'ubriacatura liberista ad una congiura universale ordita da economisti e politici ignoranti o in malafede; di passare per nostalgici della bella stagione che vivemmo; b) Schiattarella tralascia ovvero sottovaluta i contributi numerosi e qualificati che sono già venuti da economisti, come Sen, Stiglitz, Krugman, Rodrik et al,i quali da tempo hanno elaborato i tasselli necessari per quella diversa visione del mondo che sta a cuore a Schiattarella come a tanti fra noi che abbiamo cercato di tenere viva la tradizione di un pensiero economico critico e non rassegnato al ristagno e alla miseria dilagante.
Mariano D'Antonio

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