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Un reddito minimo anti-disoccupazione

10/09/2013

Perché in Italia all’idea di garantire un reddito minimo a ciascuno si preferisce l’erogazione senza condizioni di alcuni beni e servizi? Una riedizione del libro di Van Parijs e Vanderborght

Pubblicato nel 2005 il libro di Van Parijs e Vanderborght è tuttora, nella nuova edizione con la prefazione di Chiara Saraceno, uno dei testi più esaustivi sul controverso tema che riguarda l’introduzione di un reddito minimo universale. Per questo, in merito al dibattito pubblico che si è sviluppato in Italia negli ultimi mesi, risulta ancora oggi un’utile lettura, per focalizzare i nodi principali che riguardano le opportunità e le problematicità che comporta una sperimentazione nazionale di reddito minimo.

Il testo si suddivide in quattro parti, ognuna delle quali prova a rispondere ad una domanda tra le più frequenti rispetto al tema, in particolare se il reddito minimo universale risulta un’idea nuova, un’idea plurale, un’idea giusta e un’idea per il futuro.

Per quanto riguarda il dibattito lanciato da Sbilanciamoci.info è utile concentrarsi sulla risposta che i due autori provano a dare alle ultime due domande nei capitoli III e IV, ovvero gli effetti che l’introduzione di una misura universale di sostegno al reddito può avere sull’occupazione.

Innanzitutto Van Parijs e Vanderborght analizzano l’efficacia di una misura di reddito minimo universale rispetto all’abolizione della cosiddetta “trappola della disoccupazione” affermando che la creazione di un reddito minimo universale mira a favorire l’istituzione di uno Stato sociale “attivo” non tramite il rafforzamento del workfare (ovvero l’attivazione di dispositivi di carattere condizionali), ma garantendo che un impiego anche scarsamente retribuito possa migliorare il reddito netto del singolo rispetto ad una sua situazione di inattività.

Gli autori analizzano anche gli aspetti controversi di questo tema, in particolare come evitare che esso possa giustificare una sovvenzione all’impiego poco retribuito, proponendo il superamento della dicotomia tra il reddito minimo universale e il salario minimo, affermando una loro complementarietà. Inoltre legano il reddito minimo ad una riduzione dell’orario di lavoro per tutti, con l’obiettivo di riequilibrare tempi di vita e tempi di lavoro. Infine Van Parijs si concentra sull’aspetto che riguarda l’aumento del potere contrattuale dei lavoratori, in quanto l’introduzione di un reddito minimo universale, se da un lato favorisce l’aumento dell’offerta di lavori scarsamente retribuiti, dall’altro questi saranno accettati dai lavoratori, non sotto ricatto occupazionale, ma solo se non verranno ritenuti degradanti.

Legata a questo aspetto risulta interessante l’analisi del rapporto tra le forze sociali e l’introduzione del reddito minimo, le motivazioni che per anni hanno portato di sindacati italiani ad assumere una posizione contraria all’introduzione nel nostro paese, in particolare rispetto al possibile riassorbimento delle forme di ammortizzatori sociali esistenti. Van Parijs e Vanderborght elencano una serie di motivazioni per le quali l’introduzione di un reddito minimo dovrebbe essere gradita ai sindacati: oltre al già citato aumento del potere contrattuale in un contesto di precarizzazione del mercato del lavoro, una prospettiva rivendicativa di maggiore condivisione del tempo di lavoro (riduzione dell’orario di lavoro), nonché la spinta ad una rivendicazione collettiva di maggiori diritti e maggiori investimenti per la formazione permanente dei lavoratori, secondo l’idea originaria di flexicurity assolutamente disattesa.

Dal 2005 ad oggi le riforme del mercato del lavoro e il pervenire di una situazione di crisi globale hanno fatto emergere nel nostro paese l’esigenza di introdurre una qualche misura di reddito minimo, in forme più o meno universali. La complessità del contesto, però, oltre ad evidenziarne l’esigenza ne evidenzia anche le contraddizioni, in particolare rispetto agli effetti sull’offerta di lavoro, dato l’aumento della disoccupazione totale e della disoccupazione giovanile, ormai al 40%.

Il testo di Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght ci permette di accedere ad una visione complessiva del dibattito sul reddito minimo universale, utile a comprendere fino in fondo, in relazione al contesto italiano, con quali modalità iniziare un percorso di rivalutazione e di trasformazione delle nostre politiche di welfare ad oggi insufficienti, per un passaggio graduale negli anni da un Stato assistenziale ad uno Stato sociale attivo, nella misura in cui esso riesce a garantire i diritti universali di cittadinanza e non soltanto far fronte a dei bisogni specifici di alcune categorie.

 

 

 

 

 

 

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Commenti

D'accordo con Sattaneo-Damiani

Partendo dalla loro osservazione si può dire che la crescita della forza produttiva del lavoro ha ampliato " l’eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di questi" (Lunghini), ma questo sovrappiù non è stato utilizzato nè per un aumento dei salari, nè per una riduzione degli orari di lavoro, ma per la grande redistribuzione degli ultimi trent'anni a favore dei redditi da capitale (profitti e rendite). Si sono costruite e rafforzate le istituzioni (politiche e sociali) che giustificano questo processo; occorre, è il senso della citazione come la intendo, allargare la coscienza di questo conflitto per ricostruire istituzioni che, garantendo la produzione di valore sociale, modifichi la direzione della distribuzione: un'occupazione per tutt* (con minore lavoro individuale) con un salrio dignitoso. E' un obiettivo che deve affermarsi attraverso la ricerca di adeguati strumenti (lavoro o reddito di cittadinanza?)

Lavorare meno per lavorare tutt*, per lavorare meno -

« Quanto più cresce la forza produttiva del lavoro, tanto più può essere abbreviata la giornata lavorativa e quanto più può essere abbreviata la giornata lavorativa tanto più potrà crescere l’intensità del lavoro. Da un punto di vista sociale la produttività del lavoro cresce anche con la sua economia. Quest’ultima comprende non soltanto il risparmio nei mezzi di produzione, ma l’esclusione di ogni lavoro senza utilità. Mentre il modo di produzione capitalistico impone risparmio in ogni azienda individuale, il suo anarchico sistema della concorrenza determina lo sperpero più smisurato dei mezzi di produzione sociali e delle forze-1avoro sociali oltre a un numero stragrande di funzioni attualmente indispensabili, ma in sè e per sè superflue.
Date l’intensità e la forza produttiva del lavoro, la parte della giornata lavorativa sociale necessaria per la produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte di tempo conquistata per la libera attività mentale e sociale degli individui sarà quindi tanto maggiore, quanto più il lavoro sarà distribuito proporzionalmente su tutti i membri della società capaci di lavorare, e quanto meno uno strato della società potrà allontanare da sè la necessità naturale del lavoro e addossarla ad un altro strato. Il limite assoluto dell’abbreviamento della giornata lavorativa è sotto questo aspetto l’obbligo generale del lavoro. Nella società capitalistica si produce tempo libero per una classe mediante la trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse. » (1867) Karl Marx - Il Capitale (1° libro cap XV) Editori Riuniti, Roma, 1973, pp 244 – 245

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