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Per una politica della casa pubblica

11/05/2012

Il patrimonio immobiliare pubblico vale 400 miliardi. E si potrebbe usare per una nuova e diversa politica delle abitazioni e degli spazi di lavoro, che risponda a un bisogno sociale ampiamente diffuso, riqualifichi i territori e attivi risorse per lo sviluppo. Ecco come

Il ricorso alla dismissione del patrimonio immobiliare pubblico per contenere la crescita dello stock del debito pubblico è un’ipotesi ricorrente nella strategia degli ultimi governi; lo abbiamo visto ultimamente nella manovra di luglio, nelle esternazioni di Tremonti in vista della successiva manovra abortita e in quelli di esponenti del governo Monti. È un progetto che rivela la visione finanziaria della gestione pubblica che confida di realizzare - attraverso il ricorso a fondi immobiliari, vendite all’asta, cartolarizzazioni - un consistente abbattimento del debito, aspettativa peraltro non avvalorata dai risultati dei due Scip (Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici s.r.l.), in particolare del secondo non privo di pesanti strascichi (qualche conto qui). Colpisce che nessuno ricordi tale pesante bagaglio nel curriculum dell'ex ministro dell'economia, nel momento in cui, dall'attuale posizione libera da responsabilità governative, tuona contro il predominio della finanza sull'economia reale e sulla politica (si veda l’intervista di Tremonti al Corriere della sera). Allo stesso tempo, c'è una corsa, o una rassegnazione, alle dismissioni immobiliari anche da parte dei Comuni, pressati dalle esigenze di fare cassa in seguito alla pesantissima riduzione di fondi che hanno subìto per le politiche di austerity dello Stato centrale. Una strada che pare obbligata anche a giunte di tutt'altro orientamento politico sul fronte del beni comuni, come quella di Napoli.

Ma per molti l’insistenza sulle dismissioni non esprime solo la necessità di far cassa, anzi costituisce una grande opportunità. E' quanto sostengono, ad esempio, ambienti intellettuali come quelli dell'Istituto Bruno Leoni; che vedono nella dismissione immobiliare l'occasione per ridurre la spesa pubblica corrente (per interessi e per costi di manutenzione) nella convinzione che l’amministrazione pubblica sia inevitabilmente inefficiente nel gestire il proprio patrimonio. Anche se si dovesse accettare la critica al lassismo del settore pubblico per aver scaricato, nel passato, le proprie incapacità sul debito pubblico e da qui alle generazioni future, non sembra che lo strumento delle dismissioni non presenti il medesimo inconveniente considerato che l’alienazione del patrimonio collettivo è anch’essa un’operazione che impoverisce le prossime generazioni (come giustamente sottolineato da Scurati). Inoltre, vicende giudiziarie lontane e vicine hanno dimostrato come l'ombra della mala-gestione si allunghi anche sul momento delle vendite, traducendosi istantaneamente in indebite rendite di posizione a vantaggio dei privati che sono trovati ad acquistare patrimoni pubblici a prezzi da saldo. Infine, non è una giustificazione nemmeno il fatto che questo tipo di intervento sia presente nei programmi elettorali di entrambi i maggiori partiti, constatazione che dimostrerebbe solo come l’ottica finanziaria sia ormai dilagante anche a livello di gestione pubblica.

Il patrimonio immobiliare pubblico è ovviamente una ricchezza appetibile. Il suo ammontare è piuttosto consistente (stimata in 400 miliardi di euro ai valori di mercato), dove la maggior parte degli immobili è in mano agli enti territoriali e quindi con una tendenza del loro numero ad accrescersi per effetto dell’attuazione del federalismo demaniale. Va tuttavia tenuto presente che si tratta di un patrimonio destinato in larga parte al funzionamento delle amministrazioni e, a meno di una razionalizzazione degli spazi da esse utilizzati, o del recupero di quella parte dell’Edilizia Residenziale Pubblica (ERP) che non svolge più le finalità sociali per le quali è destinata, solo una sua quota, stimata in 40 miliardi di euro, è suscettibile di essere collocata sul mercato in tempi relativamente brevi (dieci anni). Si tratta di una somma considerevole in termini assoluti, la cui realizzazione avrebbe comunque un rilievo piuttosto ridotto sul riassorbimento del debito pubblico; considerata anche la riduzione degli oneri finanziari e i risparmi di spesa per l’eliminazione dei costi di manutenzione, la loro alienazione migliorerebbe i conti pubblici di qualche miliardo di euro all’anno.

E' comprensibile dunque che tale manciata di miliardi faccia gola, in un momento come quello che stiamo vivendo. Ma d'altro canto è evidente che si tratta di una prospettiva decisamente non risolutiva del problema generale; di fronte alla quale è utile tener presente che l’alienazione del patrimonio pubblico è uno strumento di redistribuzione della ricchezza esistente a favore dei più ricchi. Ciò risulta oltremodo evidente in presenza di un settore pubblico “improvvido” che si disfa di proprietà collettive a vantaggio dei soggetti (per lo più privati) più “avvertiti” e quindi in grado di sfruttare informazioni, conoscenze, competenze per il proprio stretto tornaconto (come attestano – ultime in ordine di tempo – anche le vicende delle case al Colosseo, tra cui i “colpi di fortuna” che hanno recentemente interessato il ministro Patroni Griffi e l’onorevole Giuliano Cazzola). Di fronte al serpeggiare di proposte che, sfruttando la pretesa modernità della finanza, mirano a privatizzare in maniera soft risorse collettive, è necessario ricercare proposte alternative che pongano su un terreno diverso queste iniziative per il risanamento dei conti pubblici. Per individuare un tale terreno è però necessario rovesciare l’ottica finora dominante: occorre passare dalla finanza alla produzione, dagli interessi di pochi (i soliti “informati”) a quello di molti (per i quali l’abitazione è un bisogno primario non soddisfatto). E introdurre strumenti nuovi, in grado di incrociare anche la nuova domanda di spazi di vita e di lavoro, proveniente soprattutto dalle giovani generazioni, abituate alla condivisione, sia a causa dell'ambiente tecnologico in cui sono cresciute che per necessità.

Una nuova “politica della casa”, con ottica capovolta e strumenti diversi, si può introdurre con il conferimento dell’immobile pubblico a società che, dietro pagamento di una rendita prefissata, siano disposte a riorganizzarlo e a ristrutturarlo, per trasferirlo come abitazione, o come esercizio commerciale, a individui o società. Non dovrebbero essere coinvolti nel progetto i classici 'palazzinari', ma direttamente i beneficiari finali, insieme ai progettatori e architetti che gestiscono la ristrutturazione e il passaggio d'uso. Lo schema organizzativo generale potrebbe essere questo: l'ente pubblico affida a una società di architetti e progettisti il compito di riqualificare e ristrutturare l'immobile, coinvolgendo nel processo gli utenti finali, alle cui esigenze il progetto deve essere rivolto; questi ultimi si assumono l'impegno finanziario rimanendo comproprietario, pro-quota con l'ente pubblico, dell'immobile. Ovviamente si tratta di uno schema che si può dettagliare e declinare in vari modi, purché resti chiaro l'assenza di spazio per la speculazione immobiliare e il coinvolgimento delle comunità interessate (dalla fase della lavorazione a quella finale dell'abitazione)

L’intervento favorisce la promozione di società, anche piccole, di architetti e tecnici con l’obiettivo di predisporre edifici a fini di cohousing e di strutture per il coworking, creando un circuito in cui le nuove attività di progettazione sono direttamente connesse a specifici bisogni abitativi e di lavoro; ha inoltre un effetto di volano occupazionale per una filiera professionale e imprenditoriale importante per la valorizzazione di una cultura architettonica del nostro Paese che sia finalizzata al recupero e alla manutenzione degli edifici esistenti, e alla loro riconversione energetica. Il patrimonio immobiliare pubblico verrebbe riportato, da un lato, all’interno di un rilancio della politica della casa – o meglio di una “politica industriale della casa” per il ruolo cruciale attribuito a chi progetta e realizza la ristrutturazione – rispetto alle passate esperienze asfittiche e poco convincenti, come attestano i risultati dell’ERP; e dall'altro si aprirebbe a un uso nuovo, come spazio per la nascita di attività e imprese giovanile caratterizzate da alto tasso di condivisione e innovazione sociale (esperienze che già stanno nascendo nelle realtà metropolitane, ma rischiano di essere strozzate dalla impraticabilità del mercato immobiliare: tra le altre, è molto vitale e innovativa la realta di The Hub, attiva a Milano, Rovereto e in apertura anche a Siracusa, Bari e Roma).

In definitiva, il conferimento degli immobili come capitale permette la loro valorizzazione e, per i molti attualmente in stato di abbandono, il loro recupero; sollecita l’attivazione di una molteplicità di piccole imprenditorialità (cooperative di architetti) data la dispersione dei beni da ristrutturare a livello locale; risponde a un bisogno sociale ampiamente sentito (di single e coppie giovani, italiani e stranieri) sia di abitazione che di ambienti di lavoro (per spazi temporanei di attività professionale, di attività culturali e di intrattenimento); responsabilizza i futuri possessori sia nella progettazione che nella successiva gestione; ridimensiona i costi di manutenzione sostenuti dagli enti pubblici sul loro patrimonio immobiliare; calmiera il mercato degli affitti; fornisce una rendita periodica all’ente pubblico permettendogli di alleggerire permanentemente la gestione economica e quindi indirettamente il contenimento del debito pubblico. Così valorizzato il patrimonio pubblico rappresenta una grande opportunità non solo per la riqualificazione del territorio ma anche, se non soprattutto, per attivare in maniera innovativa risorse disponibili per lo sviluppo dell’attività economica. Ulteriore postilla di tale intervento è un effettivo spostamento di risorse dallo Stato centrale ai Comuni che, veri protagonisti dell'operazione, otterrebbero con il conferimento di una parte del patrimonio immobiliare statale quel “risarcimento” loro dovuto per tutto quel che li è stato tolto nel corso degli ultimi anni. Nonché un passo avanti effettivo sulla strada di quel federalismo solidale tanto invocato a parole quanto calpestato dai fatti.

Sono molte le qualificazioni che una tale proposta richiederebbe per la sua concreta implementazione. La principale è naturalmente l’elaborazione di una struttura di procedure amministrative che garantisca la trasparenza delle operazioni, sia nella fase del conferimento dei capitali da utilizzare che nella successiva fase di attuazione del progetto, che va accompagnata da una costante attenzione per la correttezza tecnica e per quella contabile-amministrativa. Il carattere locale dell’intervento, la presumibile dimensione limitata dei singoli progetti, il coinvolgimento diretto degli utilizzatori finali ridurrebbero il rischio di cadere nelle malversazioni che hanno caratterizzato le due Scip; un di più di trasparenza – ad esempio, la previsione della totale pubblicità e accessibilità on line di tutti gli atti che caratterizzano l'operazione – si rende necessario, dato che sulla questione “casa” la politica è sempre inciampata rovinosamente in passato, sia a livello generale che individuale.

Un altro punto critico riguarda la questione dei finanziamenti, soprattutto per i casi di ristrutturazioni particolarmente rilevanti. A questo riguardo, oltre a prevedere la possibilità che il capitale conferito possa essere posto a garanzia, parziale o totale, dell’iniziativa, non va trascurato che gli eventuali mutui richiesti riguarderebbero solo la parte relativa ai lavori di ristrutturazione, alleggerendo di molto l’onere finanziario rispetto a un eventuale acquisto sul mercato di una casa dallo standard equivalente. Si tenga d’altra parte presente che limitandosi l’ente pubblico al solo conferimento in uso del capitale immobiliare, il rischio dell’attività non sarebbe a suo carico ma rimarrebbe all’impresa produttrice e agli eventuali beneficiari finali dell’iniziativa.

È evidente che questa forma di intervento presuppone il convincimento che l’ente pubblico non sia inevitabilmente inefficiente dal punto di vista economico, mentre possa essere molto più incisivo ai fini dell’equità sociale. È questo convincimento - che richiede un’attenzione continua sulla trasparenza e buona gestione dei procedimenti – che permette di contestare l’utilizzo del patrimonio immobiliare pubblico come risorsa finanziaria da trasferire (definitivamente) in mani private (più spesso società immobiliari poco trasparenti) e giustifica invece il suo conferimento, come capitale produttivo, a soggetti in grado di attivare la predisposizione di servizi socialmente meritevoli di sostegno.

Di fronte alle pressanti esigenze finanziarie di correzione dei conti pubblici, si può assistere all’obiezione che la rendita ottenibile dall’ente pubblico è molto minore dei fondi che si possono ottenere con la dismissione del suo patrimonio. A essa si può replicare che i cespiti delle dismissioni, anche se in un primo momento più elevati, costituiscono delle entrate straordinarie una tantum, mentre dal conferimento degli immobili i bilanci pubblici ottengono un flusso strutturale di introiti che non intacca lo stock di capitale. Ma soprattutto che un riorientamento della politica (industriale) della casa nella direzione proposta dimostrerebbe soprattutto che è possibile conciliare il rispetto dei vincoli di bilancio con la valorizzazione dell’attività produttiva e con il sostegno di bisogni sociali prioritari. Per quanto ridotto, il contributo a una crescita produttiva attenta alle necessità della società sarebbe una prova che dalla crisi si può uscire non con più finanza, ma utilizzandola per favorire una maggiore solidità economica e sociale.

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Commenti

Ancora su Tremonti

“Ecco come Tremonti ci è costato un punto di Pil”
Di Bianca Di Giovanni
8 maggio 2012

http://www.unita.it/economia/ecco-come-tremonti-br-ci-e-costato-un-punto-di-pil-1.408768

Piano corposo di alloggi pubblici di qualità

[Nota 10] Piano di edilizia residenziale pubblica e popolare.
GESTIONE DEL TERRITORIO
Negli ultimi decenni, tra la destra e la sinistra, non è emersa, in particolare a livello locale, una marcata differenza nel modo di governare il territorio italiano, elemento fondamentale non soltanto per le sue intrinseche finalità, ma anche per lo sviluppo del turismo (*) e la qualità della vita delle persone, influenzata sia dal controllo del proprio tempo (spostamenti da e per i luoghi di lavoro), sia dalla relazione - sottovalutata – tra il territorio (urbanistica e architettura) e la psicologia delle persone.
(*) Esprimiamo un interesse ed un auspicio particolari, ai fini della lotta al degrado e per lo sviluppo integrato e globale del territorio, rispetto a:
1) la rimappatura (in parte già esistente) del degrado storico, artistico e ambientale nazionale, attraverso un piano particolareggiato globale; 2) interventi finanziari finalizzati a recuperare tali beni ed a valorizzare le competenze specialistiche di tutto il settore (bene inestimabile del nostro Paese); 3) il rilancio del settore turistico attraverso incentivi, anche economici, alla valorizzazione ed allo sviluppo di tutto il settore.
Milioni di attuali e potenziali turisti (dell'Est europeo, di cinesi, indiani, etc.) già oggi, ma soprattutto nel futuro, vorranno conoscere quello che oggi purtroppo stiamo distruggendo piegandoci ad un ottuso pensiero economicistico, con il quale si pensa (Tremonti, Bondi) che col territorio, la sua storia, le sue bellezze, la cultura non si mangia. Noi siamo del parere opposto. Il settore potrà fare da traino al resto dell'economia se sviluppato con criteri che interagiscono più strettamente con lo sviluppo e l’interesse nazionale.
Se vogliamo cambiare, dobbiamo mettere una pietra sopra a quanto si è fatto finora e cominciare dalle basi solide che già esistono; se continueremo a distruggere queste basi, non molta speranza resterà per la rinascita del nostro Paese

Occorre, come PD, agire su tre direttrici:
1. la prima, emanando una rigorosa legge sul regime dei suoli, basata su tre pilastri: la prevalenza dell'interesse pubblico; la titolarità esclusiva pubblica delle scelte attinenti il governo del territorio; la pianificazione, in coerenza con i benchmark europei;
2. la seconda, realizzando un piano corposo di edilizia residenziale pubblica (sovvenzionata, convenzionata e autocostruita http://www.alisei.org/italia/italia.html );
3. la terza, attuando un piano di rottamazione edilizia (V. http://www.radicali.it/download/pdf/casa.pdf ).
2 - PIANO CORPOSO DI EDILIZIA PUBBLICA
Quello della casa è uno dei problemi più grossi, che dovrebbe costituire un obiettivo prioritario del Partito Democratico.
Nel famoso programma di quasi 300 pagine, che fu elaborato dal Cantiere dell'Unione, il problema casa vi fu inserito per forte sollecitazione della base (La casa: un diritto di tutti, pagg. 178-180).
Il governo Berlusconi, non appena insediato, ha varato il “Piano casa”, che si è rivelato un bluff, perché è tale solo nel nome, essendo un piano di aumento delle... volumetrie; in più ha tagliato, per il 2009, 550 milioni già stanziati allo scopo dal governo Prodi nel 2007.
Occorre riprendere quelle proposte. In particolare: a) investire molto di più in edilizia pubblica; b) utilizzare la leva fiscale per scoraggiare il nero; c) ridurre il carico fiscale sugli affitti; d) disincentivare il numero di case tenute sfitte.
In Italia, ci sono circa 955.000 alloggi popolari, ma dalla fine degli anni '80, anche se i lavoratori pagavano per l'edilizia pubblica i contributi GESCAL (fino al 1994), se ne costruiscono pochissimi: in media 2.000 all'anno, contro 10 o 15 o 20 volte tanto in altri Paesi europei, come la Francia, la Germania o i Paesi scandinavi.
Negli altri Paesi europei, infatti, vengono costruiti molti più alloggi popolari, per calmierare i prezzi degli affitti e tutelare i ceti più poveri.
La proprietà della casa, a ben vedere, o un affitto agevolato (affitto sociale) sono spesso per milioni di persone percettrici di redditi bassi (salari o pensioni) ciò che fa o potrebbe fare la differenza tra un'esistenza difficile ma economicamente sostenibile e la povertà.

Principi ispiratori raccomandati: noi non crediamo al contributo determinante o prevalente dei privati alla soluzione del problema casa; occorre un piano pubblico, basato sia su nuove costruzioni, sia sulla rottamazione di quelle vecchie, per salvaguardare il più possibile prezioso suolo agricolo, ma secondo un criterio di qualità, affidandone la progettazione – di complessi-tipo replicabili, con caratteristiche di risparmio energetico ed eventualmente l’utilizzo di pannelli solari e fotovoltaici - a un architetto del livello di Renzo Piano o un altro grande architetto specialista del ramo.
Se capita di partecipare ad una visita guidata organizzata da qualche Facoltà di Architettura, anche al Sud, di diversi e variegati complessi di case popolari, si ricava facilmente che il risultato, anche in termini di durata, ma non solo, è determinato dai criteri urbanistici ed architettonici ispiratori e da progetti esecutivi basati sulla qualità.
“Lettera di PDnetwork alla Segreteria Nazionale ed ai Gruppi parlamentari PD”
http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2593370.html

P.S.:
L’idea e parte dei commenti di questa interessantissima trasmissione (vi si parla di edilizia residenziale pubblica, passata e futura) sembrano copiati dalla Lettera di PDnetwork (vedi sopra): ne suggerisco la visione integrale.

TELECAMERE 15/01/12
Durata: 00:50:25
Anna La Rosa e i suoi ospiti, parlano dei problemi legati alla casa
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-60f3882a-1710-4fb1-9f91-ce79a1416528.html

Giulio Tremonti

In questo mio ‘post’ (il nono di una serie su Giulio T., nel post/1 il suo profilo) dell’aprile 2011 (ne riporto l’incipit), un’ampia documentazione della bulimia del ministro Tremonti, dalla personalità schizoide e camaleontica, appunto nella sua veste congenialissima di politico pigliatutto.
“Lo vedete (cfr. gli articoli allegati) il Ministro incompetente dell’Economia, Giulio Tremonti, come procede imperterrito per la sua strada di inadeguato facitore della politica economica e di sviluppo, da una parte, e di bulimico tessitore di manovre di accaparramento, insieme alla Lega Nord – suo alleato e protettore – dei veri centri nevralgici del potere economico-finanziario, dall’altra? […]”
“Il Sig. Giulio T. ed il principio di Peter/9”
http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2623162.html

Per la riduzione del debito pubblico, occorre un mix di misure. Allego:
Proposta di Walter Veltroni (Lingotto2)
“Portiamo il debito a quota 80 per cento, attraverso: a) revisione di tutta la spesa pubblica, settore per settore; carriere e stipendi di tutti, in alto come in basso, vanno legati alla valutazione dei risultati; abolizione delle province nelle città metropolitane; un solo Ufficio territoriale del Governo; un solo istituto di previdenza; un nuovo modello di difesa, integrato in Europa, con meno uomini, e mezzi più sicuri ed efficaci; b) valorizzazione del patrimonio pubblico: una quota significativa del patrimonio pubblico va conferita ad un'apposita Società, partecipata dal sistema delle Autonomie, che la paga finanziandosi sul mercato e recando a garanzia il patrimonio ricevuto. Tutte le risorse acquisite, dal primo all’ultimo centesimo, sono usate dallo Stato per ridurre il debito, mentre la Società sarà libera di valorizzare il patrimonio come meglio crederà, fermi restando i vincoli culturali, ambientali e storico-paesaggistici; c) al 10% degli Italiani che detengono il 45% della ricchezza: «per abbattere il debito più rapidamente, ho bisogno del vostro aiuto: vi chiedo un contributo straordinario per tre anni per far scendere il debito in modo rapido verso dimensioni più rassicuranti» [...]”.
http://www.scuoladipolitica.it/web/magazine.aspx?did=412

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