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L’euro e la doppia illusione della moneta

01/04/2014

Uscirne sarebbe un disastro. Ma che fare per restarci? L’euro è nato da un progetto politico, ma la politica non è stata capace di completarlo

Dal gennaio 2001, data in cui undici nazioni europee (la Grecia si aggiunge nel 2002) adottano un’unica valuta, gli italiani vivono nella zona euro. Non era la prima volta che si tentava in Europa di utilizzare una sola moneta: nel XIX secolo si provò un’esperienza simile con l’Unione monetaria latina, che ebbe un esito infausto e di cui è rimasta traccia solo in lavori di storia economica e nel nome di alcune valute.

Non dovremmo dimenticarci che, tra la fine dell’Unione monetaria latina e l’euro, l’Europa ha visto varie guerre tra i suoi Stati. All’euro è stato imputato quasi di tutto: dal raddoppio dei prezzi (che tutti gli studi empirici smentiscono) alla crisi attuale (che girava per il mondo da più di un decennio prima che scoppiasse da noi), dal debito pubblico (che in Irlanda e Spagna non rappresenta un problema, mentre da noi inizia a crescere nel 1980 e accelera col governo decisionista di Craxi) a un disegno perverso delle banche (che hanno quasi tutte rischiato la propria stabilità finanziaria), alla volontà egemonica di uno Stato. Il vero problema dell’euro è che, così com’è oggi, è un disegno incompleto basato su teorie economiche che assumono che il mercato porti all’efficienza e all’equilibrio, e che la storia ha dimostrato essere sbagliate. Secondo gli economisti, un’area valutaria ottimale è quella in cui i paesi sono sufficientemente simili da poter condividere una moneta comune. Detto altrimenti, l’Europa non lo è, così come non lo è l’Italia o non lo sono gli Stati Uniti.

Condividere una moneta unica costituisce ovviamente un problema poiché così facendo si rinuncia a due dei meccanismi di aggiustamento: i tassi di interesse e il cambio. Prendiamo un paese come l’Italia: ciò che ragionevolmente potevamo aspettarci era un notevole risparmio sugli oneri finanziari sul debito (pubblico e privato) mediante tassi di interesse più bassi; d’altro canto, l’impossibilità di ricorrere a svalutazioni competitive avrebbe portato a deficit dei conti con l’estero (a cui si rimedia con la deflazione salariale, cioè un peggioramento delle condizioni di vita e una contrazione della domanda aggregata) e a un aumento dell’economia sommersa.

Se si aderisce a una moneta unica, la rinuncia ad alcuni strumenti di politica economica può essere compensata sostituendoli però con qualcos’altro, come una politica comune (Stati Uniti d’Europa) e condivisione dei debiti, mentre, a oggi, l’Europa non ha messo in campo altro che il Fiscal Compact.

L’euro è nato da un progetto politico, ma la politica non è stata capace di completarlo andando fino in fondo, ossia attuando le riforme strutturali da implementare perché la zona euro funzioni. Quando è stato introdotto l’euro, la politica si è illusa che sarebbe stato sufficiente che i paesi soddisfacessero soltanto certi criteri di convergenza, ovvero alcune condizioni macroeconomiche in termini di deficit e debito in rapporto al Pil, perché l’Unione funzionasse davvero (3 e 60 per cento rispettivamente). Non dobbiamo poi dimenticare che l’euro è stato realizzato in anni di euforia iconoclasta del fondamentalismo del mercato: una visione secondo la quale i mercati si riequilibrano da soli e sono efficienti, basta togliere l’impiccio del governo e fare in modo che la banca centrale si concentri solo sull’inflazione.

Questa visione ha prodotto un costo sociale assai rilevante.

Si è aderito a un’unione monetaria in modo fideistico: sapendo, certo, che l’Europa è un arcipelago di economie diverse, abbiamo aderito nell’illusoria speranza che ciò avrebbe provocato un’accelerazione della politica e che le economie si sarebbero auto-organizzate. Ancora una volta si è creduto, e fatto credere, che i mercati avrebbero aggiustato le cose: il mito della mano invisibile che aggiusta tutto al meglio ancora ci guida. Così le economie si sono effettivamente adattate, aggiustando le bilance dei pagamenti, ma verso il basso: la competitività si è ottenuta deflazionando i salari e non aumentando la produttività, come era ovvio, visto che è più semplice sognare che modificare la realtà secondo i desideri. L’economia avrebbe fatto da battistrada alla politica: all’Unione monetaria sarebbe seguita quella politica.

Giorgio Fuà spiega che, poiché alcuni paesi europei (i Paesi di recente sviluppo, Psr: Pigs più Turchia) si sono sviluppati tardi rispetto ad altri (i Paesi di sviluppo antico, Psa, ad esempio Germania, Francia, Inghilterra), presentano caratteristiche comuni (alta inflazione, dualismo territoriale, deficit della bilancia dei pagamenti e di bilancio pubblico, alta disoccupazione e notevole quota di economia sommersa) che li rendono strutturalmente diversi rispetto ai Psa. Queste differenze strutturali sono così forti da impedire un’unione monetaria se non si realizza un’unità politica. Quando arrivi per ultimo nello sviluppo economico ti devi specializzare per forza in produzioni a basso valore aggiunto (a bassa produttività: calzature, mobilio, tessili e abbigliamento), non puoi specializzarti in produzioni avanzate più innovative e redditizie (ad esempio computer ed elettronica) perché le fanno già i Psa e non potresti essere concorrenziale con loro. In più, questo ha esposto i Psr europei alla concorrenza dei paesi emergenti, per via della globalizzazione, mentre le piccole dimensioni d’impresa frenano la spesa in ricerca vitale per innovare e competere.

Quando il governo Prodi (con ministro dell’Economia Ciampi) ha guidato l’Italia all’adesione all’euro, l’idea di fondo era quella di unire politicamente l’Europa, e questo processo sarebbe stato accelerato dalla moneta unica. Ovviamente si sapeva bene che avere una moneta più forte rispetto alla lira avrebbe comportato vantaggi (ad esempio tassi di interesse più bassi) e svantaggi (come la rinuncia alla cosiddetta svalutazione competitiva). Le imprese erano abituate alla svalutazione e questo permetteva l’aumento della competitività, della ripresa economica che avrebbe potuto creare posti di lavoro: invece di aumentare la produttività, le imprese hanno cercato di risparmiare sul costo del lavoro attraverso contratti di lavoro flessibile/ precario, o direttamente sul salario. Il mancato compiersi di un’Europa politica sta dunque facendo fallire l’unione monetaria e riemergere il problema di integrare i Pigs con i Psa, come evidenziava Fuà.

Per comprendere meglio i termini del problema, guardiamo in casa nostra. L’Italia ha una zona più produttiva, il Nord, e una meno, il Sud (come l’Europa con i Psa e i Psr). Una sola moneta però (come l’Europa con l’euro). Se volete dividere il paese in due, sarà sufficiente introdurre una lira-Nord e una lira-Sud. Quello che succederà all’Europa se non realizzerà un’unione politica.

Il problema quindi non è solo relativo ai bilanci macroeconomici, quanto a differenze nella struttura delle economie, e nella loro produttività. A dimostrazione di quanto sostengo, si pensi ai casi di Irlanda e Spagna, due dei paesi europei ora in crisi seppure in surplus nel bilancio pubblico e con basso rapporto debito/Pil prima della crisi: la spesa eccessiva non è la causa dei problemi dell’euro, quanto piuttosto le condizioni strutturali, non dei singoli paesi, ma di tutta l’Europa. L’austerità fiscale non ha impedito la crisi, semmai l’ha aggravata riducendo il moltiplicatore (attraverso la redistribuzione del reddito a favore dei ricchi) e la spesa autonoma. L’esperimento di rigore fiscale è stato sperimentato più volte in luoghi e tempi diversi con lo stesso risultato: così è stato nell’America del 1929 con Herbert Hoover, mentre l’Fmi ha poi provato lo stesso esperimento in Asia orientale e in America latina. In ognuno di questi casi, le fasi di bassa crescita sono state convertite in recessioni, le recessioni in depressioni.

L’Europa non sembra aver imparato nulla dalla storia economica e, sotto la pressione della Germania e della Bce, e con il supporto teorico dell’economia mainstream, ha cercato di far adottare la disciplina di bilancio, cioè ha effettuato un salasso a un individuo anemico. Il poco sorprendente risultato è quello di una depressione, proprio come era stato per le crisi asiatiche e negli Stati Uniti sotto la presidenza di Hoover.

Serve un cambiamento strutturale dell’Eurozona se si vuole che l’euro possa sopravvivere: o ci sarà l’Europa politica o non ci sarà l’euro. Non è difficile individuare almeno quattro novità strutturali: – un sistema bancario unico per l’Europa, con assicurazione dei depositi;

  • la mutualizzazione del debito (eurobond, Banca centrale europea che si indebita e presta denaro agli Stati);
  • un ministero del Tesoro degli Stati Uniti d’Europa, che possa disporre di un budget e possa indebitarsi, ove necessario, emettendo eurobond, che la Bce possa sottoscrivere;
  • l’abbandono di criteri di stabilità (deficit e debito in rapporto al Pil) di incerta base scientifica e che continuano a produrre sofferenze ai più deboli.

Occorre poi riconoscere che le norme introdotte nel 2012 (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack) di fatto impediscono ai singoli paesi di poter svolgere politiche economiche anticicliche, e occorre introdurre l’obiettivo della piena occupazione accanto a quello del controllo dell’inflazione nello statuto della Bce. C’è quindi bisogno di due riforme di politica economica:

  • la politica riconosca che l’austerità non porta alla crescita;
  • una politica monetaria restrittiva, ovvero di elevati tassi di interesse, deprezza il futuro. I tassi di interesse sono sì il prezzo della moneta, ma anche la misura della considerazione del futuro.

Cosa accadrà in caso di default e abbandono dell’euro? Come usciremo dalla crisi sfruttando l’opportunità del cambiamento?

La diminuzione del tasso di profitto del settore reale nei paesi avanzati ha generato un’espansione del settore finanziario che ha garantito la tenuta del sistema fino allo scoppio della bolla immobiliare nel 2007. La crescita del profitto ha portato alla necessità di reinvestire i risparmi accumulati. Il rallentamento dell’economia reale nei paesi avanzati ha implicato una fuoriuscita di risorse da questo settore non più remunerativo, incentivando la delocalizzazione produttiva e l’investimento finanziario in attività sempre più rischiose e complesse. L’iniezione di liquidità effettuata a più riprese dalle banche centrali americana ed europea non ha sortito rilevanti effetti positivi sull’economia reale dei paesi occidentali, mentre le banche hanno ripreso a speculare grazie alla maggiore liquidità a disposizione, accrescendo i propri profitti. Il salvataggio delle banche, con la conseguente socializzazione di perdite private, è importante per la salvaguardia del risparmio del ceto medio.

Però non è da escludere un’azione di indirizzo pubblico da parte dello Stato che ha investito risorse per salvare il sistema. Inoltre, il salvataggio bancario non è in grado di risolvere da solo l’attuale crisi. Infatti, non influisce sul problema di fondo, cioè una divergenza tra una produttività crescente e una capacità di acquisto stagnante o calante. In aggiunta, il salvataggio delle banche da parte degli Stati ha fatto lievitare il debito pubblico, già elevato in alcuni paesi come l’Italia. Quindi un problema è diventato ridurre il peso del debito pubblico rispetto al prodotto interno.

La strada che i governanti europei stanno seguendo è quella dell’austerità, alcuni hanno proposto il ripudio del debito e l’uscita dall’euro. Il ritorno alle monete nazionali renderebbe nuovamente disponibile ai singoli paesi lo strumento della politica monetaria per garantire il debito pubblico mediante l’intervento della propria banca centrale. Questa strategia può presentare una serie di criticità. La principale è che colpirebbe pesantemente il ceto medio, lo stesso che ora sta pagando i sacrifici richiesti dalla strategia di austerità. Questo gruppo di persone verrebbe colpito sia direttamente che indirettamente. Direttamente, dato che i titoli di Stato sono la forma di risparmio principale dei piccoli risparmiatori (l’incidenza dei titoli di Stato italiani nel portafoglio di un grande imprenditore che può permettersi di investire all’estero o portare le proprie attività in Lussemburgo o alle Isole Cayman è minima rispetto all’incidenza sul portafoglio di un piccolo risparmiatore). Il default dovrebbe quindi essere selettivo, per colpire solo i titoli posseduti da alcuni soggetti (ad esempio, le istituzioni finanziarie estere) e ripagarli invece se posseduti da altri (ad esempio, lavoratori e pensionati).

Al danno diretto si aggiungerebbero una serie di danni indiretti. L’uscita dall’euro propedeutica a una svalutazione della moneta (una nuova lira o un euro dei Pigs?), che faccia recuperare competitività al paese, porterebbe nell’immediato a una probabile impennata dell’inflazione (le materie prime quali petrolio e gas sarebbero molto più care) e a un peggioramento del potere d’acquisto e degli standard di vita. Inoltre, anche l’effetto benefico sulle esportazioni nel medio periodo potrebbe non avere la stessa ampiezza ottenuta dalla svalutazione del 1992, quando la competizione di prezzo dei paesi emergenti non aveva raggiunto i livelli degli anni Duemila, dopo l’ingresso della Cina nel Wto.

Un default implicherebbe una perdita di credibilità sui mercati internazionali che, per un certo periodo, eviterebbero di finanziarci (se non a tassi elevatissimi). La mancanza di credito e di investimenti potrebbe acuire la recessione.

Infine, l’uscita dall’euro dell’Italia sarebbe probabilmente causa dell’archiviazione dell’esperienza della moneta unica, il che potrebbe implicare la fine del processo di integrazione europea, poggiato principalmente su basi economiche anziché, come vorremmo, sulla felicità dei suoi popoli.

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Commenti

Verso l'unione politica?

Quando su un mezzo pubblico cittadino, come una metropolitana o un autobus, si sta stretti, la soluzione non è mai far salire altra gente e/o stringersi di più.
A me l'idea dell'unione politica come soluzione per un'unione economica che non funziona sembra esattamente la stessa cosa.

Maastricht e dintorni

Tre considerazioni per Gallegati::
1) Gallegati definisce i criteri di stabilità (deficit e debito in rapporto al PIL) di "incerta base scientifica". Direi più seccamente: "di nulla base scientifica". L'accoppiata 3% e 60% ha un solo significato sensato: che rende costante, se rispettata, il rapporto fra debito pubblico e PIL in presenza di un PIL nominale che cresca del 5% all’anno (che, all'inzio degli Anni 90 sembrava un tasso di crescita sensato). Ma lo stesso avverrebbe se la coppia fosse rispettivamente 12% e 240% o 1% e 20% o l'infinità di coppie di valori che creano fra di loro un rapporto pari al 5%. Perché si è scelta la “coppia di Maastricht”? Per due motivi, uno preconcetto e uno pragmatico. Il primo deriva dal preconcetto liberista che il settore pubblico sia per natura un impiccio destabilizzante, per cui deve impicciare poco, e quindi i valori in parola devono essere non troppo alti (ma la forte destabilizzazione nei mercati finanziari degli ultimi anni è stata provocata del settore privato, bancario e non; non dal settore pubblico!). Il secondo è di natura pragmatica, poiché, negli Anni Novanta, 3 e 60 per cento andavano bene a Germania e Francia (mentre invece, ad esempio, 1% e 20% sarebbero andati stretti), anche perché andavano stretti a Italia e Spagna, che una parte degli europei (tedeschi specialmente) avrebbero voluto escludere dall’Area dell’euro.
2) I predetti parametri hanno poi una drammatica debolezza di fondo: che un euro, comunque speso o incassato, ha sempre lo stesso valore, dimenticandosi che gli effetti di diffusione o freno sull'economia sono invece diversi a seconda della spesa e dell'entrata e, soprattutto, che i parametri in questione non possono tener conto degli aspetti qualitativi coinvolti.
3) Di fronte a gravi crisi debitorie verso l'estero di diversi paesi, il FMI è quasi sempre intervenuto imponendo politiche di forte austerità, che poi sono state convertite in forti depressioni. Per forza, dato che l'ottica del FMI è che i paesi debitori devono innanzitutto essere indirizzati a rimborsare i debiti verso l'estero e l'unico modo perché ciò avvenga è di creare un forte flusso di esportazioni, che possono realizzarsi se s'impone una forte politica di austerità, che riduce gli impieghi interni della produzione.
Una considerazione per Casadei:
Qualsiasi strumento non può avere conseguenze positive o negative se non a seconda di come lo si utilizza. Un'unione monetaria è uno strumento, che diventa cosa buona a seconda degli obiettivi che ha chi la gestisce. L'Unione Economica e Monetaria Europea è nata con un impostazione vocata alla stabilità monetaria, che può essere un valido obiettivo intermedio, ma che, se non ben gestito, può avere pessime conseguenze sul benessere dei paesi aderenti. Così infatti è avvenuto nell'Area dell'euro; è giunto il momento di correggere ampiamente la direzione della politica europea, affinché non crolli rovinosimamente per tutte le economie coinvolte!

Uscire o no dall'euro?

Non starò qui a fare le pulci all'articolo, voglio solo far notare che insistendo con queste posizioni si sta facendo un grosso favore alle destre anche le più bestiali. Dall'Euro si dovrà uscire per non morire. Il brutto è che data l'ottusità politica della sinistra (e non mi riferisco al PD), se ne uscirà da destra e sarà un guaio. Non sarebbe da rifletterci prima che sia troppo tardi?
Angelo

Ma un quality check, no?

Gallegati avrà mille competenze, per carità, ma questo pezzo sembra scritto da uno di quei grillini catapultati per caso ad occuparsi di cose serie... che pena!
L'euro dal gennaio 2001? Ma in che mondo vive questo?
Argomentazioni serie? Costi di permanenza vs costi di uscita?
Dinamiche macroeconomiche negli ultimi decenni?
Problemi strutturali, cause e conseguenze?
Nulla di tutto ciò.
Gallegati: se decidi di occuparti di temi che non sono prettamente i tuoi, studia prima!


Sulla inconsistenza delle motivazioni per rimanere nell'Eurozona

Procedo per punti utilizzando elementi di riflessione presi direttametne dalle fonti riportate a fine commento:
- Uscita dall'Euro ed Inflazione: nella prima metà degli anni '90, quando la Lira svalutò sul Marco crollo’ il volume dell’import (piu’ caro) e parte di questo venne sostituito da produzione nazionale (piu’ a buon mercato) e cio’ calmiero’ i prezzi. L’impatto piu’ severo fu ovviamente sui beni energetici (che pero’ hanno un’incidenza modesta sul paniere inflattivo complessivo rispetto alla componente del costo del lavoro, che e’ squisitamente un parametro interno). Del resto le follie di Monti sulle accise, hanno avuto un’impatto analogo sui prezzi energetici a quello di una classica svalutazione del 25-30% (ove sale il prezzo della materia prima e dell’IVA e restano invariate le accise).

- Fiducia dei mercati internazionali o strumenti di flessibilità finanziaria?
Ci hanno venduto l'ingresso nell'Eurozona come il ticket per entrare in un sistema piu’ forte e stabile, dove le nostre debolezze sono compensate dalla forza altrui, e non siamo sottoposti a crisi periodiche.
Questo vantaggio e’ stato indubbio nei fatti nel periodo 1996-2008. Dal 2008 non e’ piu’ vero.
Abbiamo rinunciato a TUTTI gli strumenti di flessibilita’ cui dispone una nazione sovrana: Banca Centrale, possibilita’ autonoma di stampare, fare Quantitative Easing e muovere i tassi. Sono i tradizionali strumenti cui dispone una nazione per gestire l’ordinario e lo straordinario. Tali strumenti vengono prontamente mossi da una nazione nel suo interesse ed al momento opportuno. Ebbene, nel passato, arrivava una sana crisi, si muovevano i tassi, c’era panico, partiva la speculazione, la Banca d’Italia stampava e difendeva la Lira, e poi alla fine svalutava. Tutti gli indicatori oscillavano, e dopo un po’ tutto tornava ad un equilibrio. Sembrava talvolta un film horror, ma aveva una sua logica. Nel caso peggiore avremo fatto default (e solo Dio sa, se cio’ non sarebbe stato meglio o peggio).
Quanto sopra, sacrificato senza uno straccio di referendum all’EURO, moneta STATUS SYMBOL, che ci avrebbe garantito la protezione alle insidie della finanza anglosassone cattiva ed ingiusta.
Ora, qualcuno mi spiega nel 2008-2012 quali protezioni reali abbiamo avuto? Niente QE, niente stampa, polemiche infinite, classi politiche nazionali che si sbranano, la Germania che si rifiuta di garantire per gli altri e chiede misure che manderebbero in recessione pure la tigre Cinese. In sintesi, non solo non siamo protetti, ma siamo pure con le mani legate, completamente privi di strumenti di flessibilita’ per azioni sul breve periodo, destinati alla deindustrializzazione, ad una poverta’ crescente, ad essere cucinati a fuoco lento, e ciliegina sulla torta, pure derisi.
Ebbene, personalmente (e qui lo ripeto: personalmente!), credo che l’EURO e’ una costruzione alle cui spalle abbia una BABELE ed appare evidente anche a persona che di finanza capisce poco (tipo me) che questa crisi si risolvera’ solo in ultima analisi mettendo assieme destini, potere, debiti e quant’altro (ho dubbi che la Germania accettera’ mai, e comunque anche se fosse ci sono ostacoli politici e burocratici non da ridere) o con una disgregazione. Ebbene, ritengo che tornare ad avere tutti gli strumenti di flessibilita’ finanziaria (Banca centrale, Tassi, stampa, QE, etc), dia maggiori garanzia che restare nel Limbo in attesa di qualcosa (la garanzia finanziaria complessiva da parte tedesca ed OK di 17 parlamenti ad una serie di step inevitabili in caso di creazione degli Stati Uniti d’Europa) che difficilmente arrivera’.

- Sul "sogno di Spinelli":
L’Europa non è uno spazio ottimale L’Europa, si dice, è l’unità territoriale minima per rendere efficace qualunque tipo di politica economica, e di politica tout court. Nel mondo contemporaneo, in cui si muovono giganti come gli Usa e i Brics, ogni entità politica più piccola dell’Unione europea sarebbe incapace di fare alcunché. Nel gergo di noialtri comunisti questa tesi viene in genere riformulata così: poiché il “livello” del capitale è ormai continentale (in quanto la produzione è integrata su scala europea) il “livello” della lotta di classe non può che essere continentale anch’esso: questo è l’unico modo per controllare, almeno potenzialmente, catene del valore che ormai si estendono “dal Manzanarre al Reno”, e oltre. Tesi, queste, non peregrine. In effetti l’Europa sarebbe davvero uno spazio economico-politico ottimale, così come sarebbe davvero opportuno poter agire dentro confini talmente ampi da contenere – e quindi controllare – le reti di produzione volutamente frammentate dal capitalismo. Ma il condizionale, qui, è davvero d’obbligo. L’Unione europea sarebbe uno spazio politico ottimale, ma non lo è , semplicemente perché è uno spazio che, proprio grazie all’euro, non consente nessun’ altra politica che non sia quella funzionale alle necessità di accumulazione del capitale. E’ uno spazio che non dà scelte, e che quindi consente solo politiche antipopolari. L’Unione europea non espande la sovranità popolare, non le consente di agire su scala più vasta, ma semplicemente la elimina: in basso assegnando agli Stati nazionali (ad eccezione dello Stato dominante, quello tedesco) il mero compito di disciplinare i lavoratori e di trasferirne i risparmi verso il capitale finanziario; in alto, sostituendo la sovranità sulla moneta con la sovranità della moneta (che è peraltro una moneta analoga a quella dello Stato dominante). Quindi purtroppo l’idea di utilizzare lo spazio europeo per una politica di più ampio raggio non è realisticamente proponibile. Purtroppo bisogna ripiegare, ma non già su uno spazio esclusivamente nazionale, bensì su poli internazionali meno estesi dell’Unione europea (quale potrebbe essere il polo sudeuropeo) ma forse più capaci di proiezione esterna (verso l’area mediterranea, il Medio oriente ed i Brics) perché non più vincolati ad una moneta rigida come l’euro, che fa temere ad ogni potenziale alleato il rischio di finire strangolato da un debito inestinguibile. E capaci, su questa base, non già di tagliare le reti produttive che li legano al resto d’Europa, ma di gestirle in maniera maggiormente negoziata. Purtroppo chi vuole costruire un vero Stato democratico europeo deve prima distruggere il semi-Stato attuale. Perché non ci sentiamo nazione? Non sono pochi gli europeisti di sinistra disposti a condividere, in tutto o in parte, quanto ho appena scritto. Ma subito dopo si fermano, atterriti da un ostacolo insormontabile: “non possiamo certo tornare al nazionalismo!”, “non possiamo certo isolarci dal mondo!”, e così via. Entra in gioco, qui, un caratteristica profonda della cultura del nostro Paese, ossia la persistente difficoltà dell’Italia a pensarsi come nazione. Difficoltà comprensibile: la Repubblica democratica nasce proprio sulle ceneri di una velleitaria avventura nazionalista; lo sviluppo postbellico e l’improvviso benessere goduto dal Paese sono stati vissuti anche come effetto dell’apertura della nostra economia al mercato mondiale. Decisamente dipendente dall’estero per capacità militare, per fonti energetiche e materie prime, l’Italia si è volontariamente legata, come socio minore, all’alleanza atlantica ed ha fatto a lungo di necessità virtù, deponendo (per fortuna) ogni forma di sciovinismo, ed individuando sempre negli organismi internazionali la principale sede di decisione. L’universalismo cattolico ed una versione sempre più soft dell’internazionalismo comunista hanno certamente rafforzato questa attitudine, il cui esito più concreto ed importante è stato individuato proprio nell’Unione europea, e nell’euro stesso. Sulla base di questa collocazione geopolitica subalterna e delle culture che l’hanno, ad un tempo, mascherata ed illusoriamente nobilitata, sono da noi attecchite ideologie che altrove hanno avuto assai minore fortuna: la diffusa convinzione che lo Stato nazionale non conti più nulla; la pretesa che esso possa essere felicemente superato dalle istanze sovranazionali e dall’autonomia del “sociale”; il globalismo che immagina un mondo piatto, privo di confini, dove gli scontri tra blocchi economico-politici sono soltanto un evitabile incidente di percorso; l’idea, infine, che siccome noi non ci comportiamo veramente come nazione nemmeno gli altri debbano farlo: da ciò la persistente illusione sul fatto che “alla fine” la Germania ed i suoi diretti satelliti rinunceranno alla loro gretta strategia mercantilistica e nazionalistica a favore dei nobili ideali del “mondo interconnesso”. Tutto questo insistente chiacchiericcio viene oggi soverchiato dal fragore della crisi, che mostra la vera natura dell’Unione europea, la persistente importanza degli Stati forti nel gestire le gravissime turbolenze economiche, l’emergere di gravi conflitti trai diversi blocchi mondiali. E, soprattutto, l’esaurimento della rendita di posizione che aveva consentito all’Italia di progredire dal punto di vista sia economico che sociale pur nel contesto di una subordinazione geopolitica. E proprio questo è il punto: se la collocazione atlantica ci ha consentito, in passato, di situarci comunque in un’area economica espansiva (anche se ultimamente trainata solo dalla droga finanziaria), oggi questo non è più possibile. Anche l’idea di allontanarci dal rigorismo tedesco per beneficiare del “keynesismo” americano è illusoria: sia perché questo “keynesismo” è in realtà una bolla gigantesca, sia perché la strategia fondamentale degli Stati uniti è quella dell’estensione del più integrale liberoscambismo a tutta l’Europa (unita o meno), è quella della completa demolizione dei limiti posti al movimento dei capitali, e quindi cozza con le esigenze di un Paese come il nostro che, per ricostruire una base produttiva distrutta da decenni di rapine berlusconiane e di svendite prodiane, ha bisogno proprio di rendersi il più possibile autonomo dal capitale finanziario mondiale, di regolarne i movimenti, di riconquistare una capacità di manovra pubblica. Una scelta difficile L’Italia deve quindi riconoscere che non può più identificarsi senza riserve nelle istituzioni del capitalismo atlantico, ed in particolare nell’euro, pena il proprio crescente immiserimento. E che quindi deve costruire, insieme ad altri, un’autonoma posizione internazionale (di potenziale raccordo tra Nord e Sud, Ovest e d Est) come condizione di un’autonoma strategia di crescita civile interna. La difficoltà nel liberarsi dell’euro e nell’immaginarsi senza Unione europea non è che il sintomo, a mio avviso, della sorda percezione e della subitanea rimozione di questo problema epocale, la cui soluzione imporrebbe una decisa e difficile cesura con la cultura politica e con la prassi della sinistra italiana, anche della parte migliore di essa. Difficile ma non impossibile. Se solo si diradasse la nebbia globalista in cui siamo immersi si vedrebbe che, dalla Comune di Parigi alla guerra antinazista dell’Unione Sovietica, dalla Resistenza italiana alle varianti latinoamericane del socialismo, nessuna grande esperienza di emancipazione sociale ha mancato di riferirsi in qualche modo alla nazione. Si vedrebbe che quando il comando del capitale si presenta anche come distruzione o indebolimento dello Stato nazionale, la difesa dello spazio nazionale può essere una forma non di repressione, ma di ripresa della lotta di classe. Si vedrebbe che l’internazionalismo non è – appunto – globalismo, ma patto progressivo tra lavoratori che, avendo riconquistato protagonismo politico nel proprio spazio nazionale, possono proprio per questo costruire uno spazio più ampio, e così resistere in maniera più efficace alle dinamiche del capitalismo mondiale. E la nebbia in cui siamo immersi può essere diradata se le nuove, e peggiori, condizioni sociali imposte dalla crisi sono lette e spiegate da nuove, e migliori, idee sul futuro del Paese.

Fonti:
http://scenarieconomici.it/euro-analisi-di-dettaglio-del-perche-allitalia-conviene-uscire/
http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2013/11/8/37945-euro-si-puo-uscire-a-sinistra/
http://www.giornalettismo.com/archives/1296937/emiliano-brancaccio-euro/

Allibito

Veramente allibito nel leggere questo articolo: in sostanza si dice: sì, è vero, l'euro è stato un errore politico ed economico (ma ho i miei dubbi sul fatto che sia stato un errore e non la creazione di uno strumento che permettesse di fare quello che è stato fatto e si continuerà a fare) ma se lo abbandonassimo infrangeremmo il sogno dell'unità europea. Il sogno???? Ma questo è un incubo!!! Ve ne rendete conto o no? E allora se abbandonare l'euro significa ritornare a vivere, bene - scusate il francesismo - ma chi se ne f...e del sogno europeo!

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