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La crisi è finita?

17/03/2015

Abbiamo bisogno di politiche orientate a facilitare la migrazione dei lavoratori nei nuovi settori dell'istruzione, formazione, e servizi avanzati. E che consentano il superamento dello squilibrio strutturale, senza il quale ogni qualsivoglia aumento frazionale del Pil risulterà effimero

La crisi sta per finire. Questa convinzione si legge sempre più spesso nelle interpretazioni dell'attuale fase economica, per tutta una serie di ragioni: il QE della BCE, la riduzione del prezzo del petrolio, la svalutazione dell’euro, la crescita degli indici di fiducia d’imprese e consumatori. È un'interpretazione che deriva dall'impostazione neoliberista: tutto ciò che la politica economica deve fare è mantenere un rigido equilibrio nei bilanci pubblici e lasciar operare il mercato.

Un’interpretazione alternativa consiste nel considerare il ruolo giocato da fattori strutturali. Ci sono elementi che suggeriscono un parallelo tra la Grande Depressione e la crisi attuale: il settore distintivo della fase di sviluppo (agricoltura nel 1929, la manifattura oggi) sperimenta un notevole incremento di produttività, dovuto al progresso tecnologico. Tale aumento di produttività porta ad una espulsione di lavoratori che, se non assorbiti dal nuovo settore emergente, comporta un aumento della disoccupazione e un calo della domanda interna.

Questa migrazione del lavoro tra settori può essere difficoltosa e lenta. Se negli anni della Grande Crisi, la migrazione dall'agricoltura alla manifattura implicava una migrazione dalle campagne alle città, ora gli ostacoli al passaggio verso il settore dei servizi sono di diversa natura. In questo senso, il capitale umano gioca un ruolo importante: non a caso i paesi con più alti tassi di istruzione e maggiore politiche di formazione hanno sperimentato una crisi meno traumatica.

Se i lavoratori non riescono a migrare rapidamente nel settore dei servizi, si assiste a un declino del reddito prodotto dalla manifattura, non compensato dall'aumento del reddito prodotto dal settore dei servizi. Il risultato è una prolungata contrazione della domanda aggregata, fino a quando una porzione significativa del lavoro espulso dal settore in declino non sarà riassorbita dal settore emergente.

Possiamo identificare nella manifattura a basso valore aggiunto (quella tradizionale dei PIGS e soggetta alla concorrenza della globalizzazione) il settore in declino e nei servizi avanzati il settore che dovrebbe essere in grado di rimpiazzarlo. Questa distinzione è suggerita anche dall'andamento delle serie storiche relative alle variabili chiave del nostro ragionamento: la manifattura, in particolare quella tradizionale, ha sperimentato negli ultimi decenni un notevole aumento di produttività, una riduzione dei prezzi relativi e una diminuzione del lavoro impiegato soprattutto in termini strutturali. Anche l'andamento dei salari reali della manifattura, se rapportato alla popolazione, ha raggiunto un massimo alla fine degli anni '90. E non sembra compensato, sempre rispetto alla popolazione, da quello aggiuntivo prodotto dai servizi avanzati. I settori dei servizi non sempre hanno fatto la loro parte. Sicuramente non in Italia, e negli altri paesi che stanno subendo crisi più forti e prolungate. L'economia italiana, inoltre, presenta una problematica aggiuntiva: i lavoratori che sono riusciti a migrare dalla manifattura ai servizi finiscono per essere impiegati in servizi a basso contenuto di conoscenza. Si tratta soprattutto di servizi alla persona, e comunque poco produttivi e poco remunerati. Anche questo ha effetti negativi sulla domanda aggregata.

Secondo l'interpretazione strutturale della crisi, le politiche di austerity cronicizzano il problema: le misure congiunturali sono inadatte poiché è la struttura economica ad aver provocato la crisi, e non saranno le misure palliative della Troika a tirarcene fuori. Abbiamo bisogno di politiche orientate a facilitare la migrazione dei lavoratori nel nuovo settore (istruzione, formazione, R&S, servizi avanzati) e che consentano il superamento dello squilibrio strutturale, senza il quale ogni qualsivoglia aumento frazionale del PIL risulterà effimero.

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