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10/02/2015

La questione greca assume la valenza soprattutto politica di un banco di prova per le possibilità del progetto europeo di andare avanti o di tornare indietro

La “questione greca” emersa dopo le recenti elezioni vinte da Syriza richiama l’attenzione anche sulle relazioni tra economia e politica e fa capire che se negli ultimi anni la prima ha preso il sopravvento sulla seconda, la spiegazione non sta solo nell’egemonia assunta dal neoliberismo, ma anche nella minore capacità della politica di fare la propria parte.

Rispetto a quando si verificò la prima crisi greca, oggi l’Unione europea è finanziariamente molto più protetta da una rete di strumenti specifici ideati dalla tecnocrazia per sostenere i paesi in carenza di liquidità (i fondi ESM ed EFS, i prestiti a lungo termine LTRO della BCE, i suoi acquisti di titoli di stato OMT, le misure non convenzionali come il QE); ma, più in generale, è stata decisiva la forte presa di posizione espressa nel 2012 dal presidente della BCE Mario Draghi nel suo famoso discorso del “wathever it takes” (“la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l'euro. E credetemi, sarà sufficiente”). Tuttavia, a riprova delle cause strutturali della crisi che riguardano l’economia reale e l’assetto politico-istituzionale della costruzione europea, nei paesi dell’UE, e in particolare dell’Area Euro, persiste una grave condizione recessiva che ha ridotto non solo il reddito effettivo, ma anche quello potenziale. Le recenti previsioni di una pur modesta ripresa della crescita nel 2015 e nel 2016 sono labili e non più credibili di quelle sistematicamente smentite negli anni passati proprio perché gli organismi intergovernativi e i responsabili politici dell’Unione poco o nulla stanno facendo sul versante strutturale della crisi.

Tra le cause della specificità negativa dalla crisi in Europa e delle perplessità sulla sua evoluzione c’è il disegno politico della Germania di estendere a livello continentale il suo tradizionale modello di crescita guidato dall’austerità interna e dalle esportazioni che nei due passati decenni ha accentuato il perseguimento della competitività di prezzo, del contenimento dei salari, dei bassi consumi interni e dell’avanzo commerciale. Quel modello è miope poiché non valorizza l’innovazione e i connessi vantaggi comparati del sistema produttivo europeo storicamente fondati sulla conoscenza e sulle elevate condizioni sociali favorite dai nostri più sviluppati sistemi di welfare; i quali non sono un costo - come da qualche decennio viene sostenuto anche in Europa, cedendo politicamente alla vulgata neoliberista - ma uno strumento e una caratteristica del nostro sviluppo. Quel modello, oltre a peggiorare l’iniquità e le divisioni sociali connesse all’aggravarsi delle diseguaglianze degli ultimi decenni, diventerebbe ancor più insostenibile se esteso all’intera Unione: un persistente ed elevato avanzo commerciale dell’intera UE come da anni accade in Germania implicherebbe uno squilibrio nei rapporti internazionali più grave di quello che ha alimentato la crisi globale esplosa nel 2008.

Rispetto a questi problemi e alle prospettive incerte dell’UE, la “questione greca”, da un lato, ha dimensioni economiche relativamente molto modeste (il Pil greco è l’1,5% di quello dell’UE e il 2% di quello dell’Area Euro) e potrebbe indurre erroneamente a sottovalutarla; d’altro lato, assume la valenza soprattutto politica di un banco di prova per le possibilità del progetto europeo di andare avanti o di tornare indietro. Questo secondo aspetto è il più rilevante e lo diventa ancor più se si considera l’evoluzione in corso del contesto internazionale resa preoccupante dal confronto tra USA, paesi europei e Russia sui rapporti di quest’ultima con l’Ucraina; l’indebolimento della costruzione europea alimenterebbe la diversità degli interessi e delle singole posizioni nazionali e non aiuterebbe la stabilizzazione degli equilibri complessivi.

Finora il nuovo governo di Atene e la BCE hanno fatto ciascuno la propria parte seguendo percorsi non sorprendenti. Il primo ha opportunamente denunciato agli altri paesi dell’UE gli aspetti iniqui e controproducenti delle condizioni imposte alla Grecia per il suo cosiddetto salvataggio nella prima crisi, evidenziando anche l’incongruità istituzionale della Troika che non è certo un organismo dell’UE. Le richieste di ricontrattazione - non di ripudio - del debito e dei rapporti con i creditori sono coerenti con la più complessiva necessità di rivedere la visione politica dominante nell’Unione, una revisione che è indispensabile per la stessa sopravvivenza del progetto d’unificazione europea il quale è sempre stato e rimane l’obiettivo del neo capo di governo Tsipras.

D’altra parte, almeno negli ultimi tempi, la BCE ha spesso ricordato che con le funzioni di politica monetaria che le sono assegnate non può sopperire più di tanto alle responsabilità degli organismi politici dell’UE e dei governi dei paesi membri rispetto alla crescita e al consolidamento del progetto europeo. Il comunicato della BCE sull’incontro tra Draghi e Varoufakis, dopo aver specificato che non è nelle possibilità della banca rivedere un programma concordato dal precedente governo greco con i creditori internazionali, ha precisato che il Presidente “ha chiarito il mandato istituzionale della banca e sollecitato il nuovo Governo a confrontarsi in modo costruttivo e rapido con l’Eurogruppo per assicurare la continuazione della stabilità finanziaria”. Insomma, questa volta (anche se non sempre è stato così), a ciascuno le proprie funzioni e adesso la parola va alla politica con le riunioni previste nei prossimi quindici giorni dell’Eurogruppo, del Ecofin e del Consiglio europeo.

E’ giunto il momento che anche i responsabili delle decisioni politiche dicano e dimostrino con azioni concrete ed efficaci che vogliono e sapranno realizzare la costruzione dell’Unione europea “whatever it takes”, a cominciare dalla soluzione della questione greca che rappresenta un’occasione decisiva per gli organismi comunitari d’invertire le politiche controproducenti finora seguite e di non farsi travolgere dalle tattiche di contrattazione dei governi nazionali.

 


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