Tra dirigenti, funzionari, forestali e personale scolastico, in Sicilia i dipendenti pubblici superano quota 50 mila per un costo complessivo di oltre un miliardo di euro
È denunzia ricorrente quella sull’ipertrofia della pubblica amministrazione regionale nel Mezzogiorno. Cui si legano, come si intuisce, fenomeni di inefficienza, rapporti incestuosi con la politica, squilibri di bilancio. In una regione come la Sicilia questa ipertrofia va riportata ad un mercato del lavoro asfittico, a pratiche clientelari, alla facilità di ingresso negli anni passati a prescindere dal colore dei Governi in carica, spesso giustificata con l’assenza di alternative produttive e con la necessità di mantenere coesione sociale. Nello sfondo, un flusso di retribuzioni che sostiene i consumi, ha creato nel passato, in alcune città, (Palermo, tra tutte), espansioni discutibili dell’edilizia urbana (1), può facilmente coniugarsi con attività sommerse e relative pratiche di elusione o evasione fiscale, compensi da corruzione (2).
Proviamo ad elencare i numeri che emergono da una recente relazione della Corte dei Conti regionale. Ventimila sono gli addetti (dirigenti, funzionari, istruttori) che fanno capo alle strutture legate direttamente alla presidenza ed agli assessorati (il 29% del totale di tutte le regioni italiane con un rapporto dirigenti/non dirigenti pari al 1 su 8 contro una media nazionale pari a 1 su 16) con un costo complessivo che si avvicina a 776 milioni di euro.
Passiamo ai cosidetti “forestali”, un’etichetta che comprende più tipologie. In particolare, questi dipendenti, impiegati – nella stragrande maggioranza per 78, 101 o 151 giornate l’anno – in lavori boschivi e di prevenzione incendi, vanno suddivisi in due categorie: quelle che fanno capo al Corpo forestale (Assessorato regionale territorio e ambiente) e quelli dell’Agenzia Foreste (Assessorato regionale risorse agricole). I primi sono in tutto settemila, quasi tutti a tempo indeterminato ed il loro costo sfiora i 100 milioni. La seconda categoria di “forestali” invece è composta da 18 mila lavoratori ( di questi poco più di 1100 a tempo indeterminato). Il loro costo supera i 223 milioni annui.
Fanno parte dell’esercito della forza lavoro “regionale” altresì la categoria dei comandati e del personale delle scuole regionali. Ed, ancora, i dipendenti delle cosidette società partecipate. Molti delle quali a totale o quanto meno maggioritaria partecipazione pubblica. In totale, 7300 lavoratori per un costo di 275 milioni annui. Come si vede, il costo complessivo dell’esercito dei “regionali” supera abbondantemente il miliardo di euro a fronte di un numero di addetti superiori a 50 mila. Ai quali occorre aggiungere un’altra componente occupazionale a carico della Regione: i cosidetti precari. Si tratta di 18 mila Lsu (lavoratori socialmente utili) collocati negli enti locali, 700 contrattisti della stessa Regione, 3 mila Pip (ex Piani di inserimento professionale di Palermo) 1000 operai di Consorzi di bonifica e 8 mila Asu (ex Attività socialmente utili). All’incirca 30 mila unità per una cifra stimabile in oltre mezzo miliardo. Se ne ricava che i dipendenti “regionali” (solo parte di quelli della Pa) sono in numero quasi pari ai lavoratori del settore industriale siciliano. Da considerare anche i 2000 dipendenti addetti agli sportelli multifunzionali a supporto delle Agenzie per l’impiego che costano alla Comunità europea 60 milioni di euro l’anno.
Sono dati, quelli ricordati, che sottoposti ad una valutazione costi benefici indicherebbero, in maniera impietosa, politiche di “tagli” con conseguenti pre-pensionamenti ed esuberi.
In realtà, testimoniano come il settore pubblico sia stato utilizzato per arginare, attraverso politiche di assunzione di portata superiore alle effettive esigenze, le pressioni sociali, come ha più volte denunziato la Corte dei Conti. Ancora la rigidità di spesa corrente e l’impossibilità di forme di tournover a vantaggio di giovani diplomati e laureati.
I più affezionati a teorie liberiste invocherebbero riduzione di organico sfidando il rischio di una macelleria sociale vista l’impossibilità di reingresso dei licenziati nel mercato del lavoro.
Si potrebbe pensare in alternativa a misure di accompagnamento all’uscita che implicano però risorse al momento non disponibili (in Sicilia, tra l’altro, la spesa pensionistica grava sul bilancio della Regione).
Esiste una terza ipotesi più convincente, a parer nostro: un piano di impiego produttivo del capitale umano disponibile forzando vincoli contrattuali e resistenze sindacali e facendo riferimento a precise domande di servizi ad offerta debole ed a forte domanda (sanità, ambiente, istruzione, valorizzazione dei giacimenti culturali).
C’è da pronosticare, purtroppo, un rinvio al futuro della situazione così da non turbare equilibri, livello di consumi, combinazioni faticosamente raggiunti, tra occupazioni ufficiali e sommerse. Rifiutando forme di razionalizzazioni non punitive ma a favore del bene comune. Che richiedono, va scritto a chiare lettere, un doppio costo: economico e politico.
Il primo, per studiare ed effettuare le razionalizzazioni necessaria, il secondo, per resistere a pressioni e ricatti da parte di chi vede intaccati privilegi e posizioni di rendita. Al momento, il secondo appare decisamente insostenibile.
(1) L’espansione avvenuta negli anni’60 degli Uffici Regionali a Palermo viene collegata al “sacco edilizio” della città.
(2) Superfluo annotare continui rinnovi di vassallaggio e fedeltà, con ignominiosi trasformismi incentivati peraltro dalla devastante pratica, ormai legalizzata e legittimata, dallo spoilsystem.
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